L’Italia non si laurea in vendite

Il mio articolo di luglio, Venditori senza accademia, ha sollevato ampio dibattito sia qui che su LinkedIn; l’apparente contraddizione tra la forte domanda di figure commerciali e la scarsa offerta formativa universitaria non interessa solo me. Prendo spunto proprio da uno dei tanti commenti apparsi su LinkedIn, quello di Antonio Servadio: “(…) penso a corsi […]

Il mio articolo di luglio, Venditori senza accademia, ha sollevato ampio dibattito sia qui che su LinkedIn; l’apparente contraddizione tra la forte domanda di figure commerciali e la scarsa offerta formativa universitaria non interessa solo me.

Prendo spunto proprio da uno dei tanti commenti apparsi su LinkedIn, quello di Antonio Servadio:

“(…) penso a corsi o master, dove ai docenti accademici si affianchino manager e professionisti con esperienza commerciale. Perché tra i banchi e cattedre delle università latita la comprensione della funzione vendite, snobbata oltre che ignorata, spesso vittima di un pregiudizio culturale radicato.”

Mi chiedo dunque: perché l’università offre così poche proposte in area Sales, nonostante le professioni commerciali siano le più richieste? Si crede forse che per lavorare nelle vendite non serva studiare? Oppure la funzione vendite gode di scarso prestigio, in accademia ma anche nella società?

E ancora: se davvero nelle università le materie commerciali (o i loro sinonimi anglofoni Sales, Trade o Account Management) si insegnassero in modo più esteso, che background dovrebbero avere i docenti? Il mio articolo di luglio si chiudeva con le parole: “La vendita, per insegnarla, bisogna averla vissuta”, e auspicava la compresenza sia di insegnanti in carriera accademica che di venditori o manager “di fatto”. Ma questa soluzione è valida, e soprattutto, praticabile?

Ho dunque intervistato i responsabili di alcuni corsi universitari (pre e post laurea) in ambito commerciale: a Milano, Bocconi, Cattolica e Bicocca, ma anche (con mia sorpresa) dall’Università di Teramo.

 

Laurea in Vendite: parlano i docenti

Mariagrazia Fanchi dirige l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo ALMED dell’Università Cattolica, che organizza il master in Account & Sales Management. Arrivato alla 5° edizione, il master è frutto della collaborazione fra ALMED, Centrimark (Centro di Ricerca di Marketing) e una serie di partner aziendali che operano nel settore business-to-business.

Le ho chiesto di partire dagli studenti e da ciò che pensano di una laurea in area vendite. “Nonostante le grandi richieste dal mondo del lavoro, molti studenti credono che la vendita sia una professione di serie B”, racconta la professoressa, “e anche se il placement di chi ha frequentato il nostro master è al 100% si fatica ad attrarre candidati, perché la resistenza di molte famiglie ad investire in formazione alle vendite è fortissima”.

Occorre dunque rompere il luogo comune che identifica il venditore con il fastidioso piazzista di pentole e materassi: invece la vendita secondo me è una vera professione, un mestiere interessante e in continua evoluzione; non solo, è anche un’attività nobile, come ripeto a chi frequenta i miei corsi in Confindustria. Opinione condivisa da chi la vendita la vive e la insegna. Senza vendita non c’è fatturato né lavoro per chi produce e tiene i conti. Le vendite sono il motore che spinge in avanti le imprese e, in ultima analisi, la società intera.

“Gli studenti che hanno amici o parenti che lavorano nel commerciale riconoscono la dignità e le opportunità che questo mestiere offre, ma gli altri ne hanno – spesso in partenza – una percezione distorta e un po’ svilente”, prosegue la professoressa Fanchi.

Concorda un altro professore: “Molto spesso gli studenti hanno idee confuse, anche perché i ruoli commerciali nel tempo, per via dell’integrazione con il marketing, sono diventati sempre più articolati”. Lo dice Angelo Di Gregorio, Ordinario di Management al Di.SEA.DE – Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali e Diritto per l’Economia all’Università di Milano-Bicocca. “Quindi che dei ragazzi di venti-ventun anni non abbiano le idee chiare sulla differenza tra vendite e marketing è normale; ma l’università dovrebbe portarli a capire e apprezzare queste differenze”.

 

Vendite, no grazie

Che cos’è la vendita? A differenza di quanto propongono molti corsi “alle vendite” (soprattutto alcuni, ispirati alla PNL), vendere non è persuadere, non è manipolare; è permettere a chi compra di fare una scelta informata, consapevole, la migliore per lui. La vendita è un’attività complessa e variegata, fatta di tante competenze diverse (un po’ contabile, un po’ negoziale; un po’ numeri, un po’ psicologia) e sicuramente mai noiosa.

“Il paradosso è che il mercato richiede sempre più figure commerciali correttamente formate, ma l’offerta di laureati latita. Il nostro compito è dunque allineare una domanda prepotente con un’offerta ancora poco numerosa”, prosegue la Mariagrazia Fanchi.

Troppi laureati in marketing, troppo pochi in vendite. Peraltro nel marketing i posti di lavoro sono molto meno numerosi: tutte le PMI hanno una funzione vendite, ma pochissime hanno un ufficio marketing e, quando c’è, si occupa di cataloghi, fiere, a volte un po’ di Web, ma quasi mai fa ilveromarketing (studio del cliente e della concorrenza, posizionamento, pricing, ecc.).

Chi studia marketing può fare il venditore? Così pensa la prof. Fanchi: “In aula vediamo studenti di marketing che sarebbero dei formidabili venditori, ma che non sono sicuri di potere o volere fare questo lavoro; bisogna dunque accompagnarli in questa direzione”.

 

Venditori si nasce o si diventa?

Ma per gli studenti una laurea in Sales sarebbe prestigiosa quanto una laurea in Marketing? Sono certa che anche la vendita, come tutti i mestieri, si possa studiare e approfondire. Gli studenti però non sembrano pensarla così.

Sentiamo Paolo Guenzi, Professore Associato del Dipartimento di Marketing presso l’Università Bocconi. Tra i fondatori del Commercial Excellence Lab di SDA Bocconi, è docente ufficiale nell’Executive MBA e nell’Executive Master in Marketing&Sales, e program director di numerosi corsi sulle vendite.

“Mi occupo di questo tema in Bocconi da 24 anni, e quando mi sono laureato non esisteva offerta formativa sulle vendite; ben presto però mi sono reso conto che ce n’era un bisogno enorme”, dice il professor Guenzi. “Oggi in Bocconi proponiamo due corsi specifici in area vendite (uno al biennio e uno al triennio)”.

Ma venditori si nasce o si diventa? “Una nostra ricerca su come gli studenti vedono il mestiere della vendita ha rivelato aspetti interessanti e un po’ sorprendenti; gli studenti pensano che questo sia un mestiere che non si impara: secondo gli studenti, venditori si nasce”, rivela Guenzi. “In base alla nostra ricerca, lo studente medio pensa: il commerciale è un lavoro più bello degli altri, anche se più difficile e stressante, e offre maggiori opportunità e vantaggi, ma penso che non sia un lavoro per me, perché non sono nato venditore. La vendita non è cosa per tutti”.

Se dunque serve una predisposizione naturale, la vendita non si può veramente imparare, dunque non ha senso studiarla; così sembra pensarla chi studia. Eppure il mercato cresce e il mondo delle vendite si sta professionalizzando; le aziende hanno bisogno di venditori formati che fanno fatica a trovare, tanto che il Commercial Excellence Lab di SDA Bocconi conta su risorse economiche portate dalle aziende, che investono per contribuire alla professionalizzazione nel mondo delle vendite. “Questa cosa dovrebbe far riflettere, perché se le aziende arrivano a mettere soldi su una cosa è perché ne hanno assoluto bisogno”, prosegue Guenzi.

Infatti i clienti e i prodotti cambiano in fretta e i processi aziendali (basti pensare al CRM, che non esisteva solo pochi anni fa) impongono l’evoluzione anche delle persone che se ne occupano.

“Il Commercial Excellence LAB fa ricerca scientifica sul mondo delle vendite (vedi ad esempio il recente progetto sulla digitalizzazione delle reti), ma in Italia siamo veramente in pochi, in università, a occuparci di vendite in modo specifico.”

E la resistenza delle famiglie a investire sulla formazione in area vendite? “Certo, capita anche qui. I genitori di alcuni nostri studenti non comprendono il valore della mansione commerciale e si chiedono: ma come, ti ho fatto fare la Bocconi e tu vai a fare il rappresentante?”.

 

Professori di vendite

Parliamo ora dei docenti; che profilo dovrebbe avere chi insegna la materia commerciale? Qui le opinioni degli intervistati non sono univoche.

“Il corpo docente del Master in Account e Sales Management è composto per il 50% da professionisti che provengono dal mondo delle aziende”, dice Mariagrazia Fanchi della Cattolica, “altrimenti mancheremmo il nostro obiettivo formativo, che è quello di mettere in dialogo l’accademia con il mondo delle professioni. Per questo l’offerta formativa prevede anche formule didattiche volte a facilitare il ruolo dei docenti che lavorano in azienda, per esempio con appelli unici di esame”.

In Bocconi, se spesso si accolgono interventi e testimonianze da parte di manager esterni, la faculty è invece composta da docenti di carriera accademica.

Per insegnare a vendere bisogna aver venduto? “Pensarla così vuol dire ritenere che la vendita sia qualcosa che si basa sulla pratica e rafforza il pregiudizio che la vede come un’attività che s’impara solo facendola, e che non serva studiarla. Inoltre insegnare in università è un vero e proprio lavoro: bisogna saperlo fare. Non tutti i bravi commerciali sono anche bravi insegnanti”, sostiene il professor Guenzi. “Poi ci sono corsi sulla vendita ma anche corsi sulla gestione dei venditori, che è un’altra cosa: per essa servono competenze diverse, per esempio analitiche e relazionali”.

Quest’ultima tesi la condivido appieno: lavoro spesso con i capi area e i responsabili commerciali e confermo che un buon capo area è soprattutto un gestore di persone, un coach, uno che alleva e coltiva i talenti. Non per forza deve essere un bravo venditore, anzi: a volte se ha venduto (magari con successo) spesso tende a imporre il proprio stile e a sostituirsi al venditore, anziché aiutarlo a crescere. Eppure nelle aziende i capi area sono quasi sempre venditori cresciuti, e non si comprende che fare il capo è un lavoro diverso. Un lavoro che si può (anzi, secondo me si deve) imparare. 

Paolo Guenzi, dando uno sguardo dall’interno alla realtà accademica, prosegue: “Chi insegna in università viene premiato se pubblica, ma è difficile raccogliere e analizzare dati in area Sales, mentre è molto più facile farlo se si opera nel Marketing; dunque, almeno da noi, raramente i ricercatori universitari sono incentivati a concentrarsi sul tema delle vendite”.

Punto di vista simile in Bicocca. “Le modalità di valutazione dei docenti non tengono conto degli aspetti pratici e operativi, di quanto conoscano e abbiano vissuto in prima persona ciò che insegnano (dunque le vendite), ma di come e quanto pubblicano, secondo metodi quantitativi molto lontani dalla prassi aziendale” dice il professor Di Gregorio. “Un mix di docenti (interni ed esterni) è auspicabile, ma va contro le regole, perché un docente esterno costa, e se il budget cresce viene penalizzato il corso di laurea, perché riceve meno risorse; dunque, per tenere in equilibrio i conti, l’incentivo è internalizzare il più possibile il corpo docente”.

Concorda Guenzi della Bocconi: “È vero che, in molte università italiane, chi programma l’offerta accademica deve prima di tutto saturare il carico didattico dei docenti interni”.

Di conseguenza, può darsi che tra i banchi universitari si preferisca parlare dei massimi sistemi perché a volte, da parte dei docenti, manca attenzione e consapevolezza delle reali attività operative dell’azienda. Sembra quindi esserci una disconnessione tra gli obiettivi di chi lavora in università e il mondo del lavoro. Forse anche questo spiega lo sbilanciamento tra domanda e offerta di figure commerciali formate in università.

 

Ma una laurea in Vendite serve davvero?

Un’ultima osservazione. Rileviamo la presenza di corsi isolati in materia commerciale, al triennio o alla magistrale, e ci sono master post laurea. Ma, alla luce di tutto quanto sopra, ha senso una vera e propria laurea triennale in Sales?

“Se una laurea breve sulla vendita non c’è, forse è giusto che non ci sia” sostiene il professor Di Gregorio della Bicocca. “La vendita ha aspetti sia strategici sia operativi e richiede competenze tecniche ma anche psicologiche, che forse è meglio studiare quando si è un po’ più grandi; a livello base, i ragazzi appena usciti dalle superiori hanno bisogno di rafforzare una cultura generale relativamente ampia; e se proprio dobbiamo essere obiettivi, prima di arrivare alle tecniche di vendita sarebbe utile – nelle lauree “brevi” – sopperire ad altre carenze formative più importanti, per esempio su alcune competenze indispensabili in azienda come il public speaking, il team building, la leadership, l’Excel con le tabelle pivot, e persino come scrivere un’email; tutte cose che latitano nei programmi ministeriali”, prosegue Di Gregorio.

La laurea breve in vendite dunque non serve? Secondo Di Gregorio “le aziende devono vendere, poi che i neolaureati lo siano in un corso di laurea piuttosto che in un altro, cambia poco. Le imprese cercano persone mature e capaci di inserirsi. I ragazzi di 22-23 anni dovrebbero puntare sullo sviluppo di competenze generali, non specialistiche, perché poi ogni azienda ha bisogni, caratteristiche e culture specifiche, che si crea e si modella su misura”.

 

Laurea triennale in Vendite: il caso dell’Università di Teramo

Eppure almeno una laurea triennale in area commerciale esiste, come ho scoperto da poco.

L’Università di Teramo, in partenariato con l’associazione ATSC (Agenti di Teramo Senza Confini) ha dato vita nel 2013 al Corso di laurea in Scienze della Comunicazione per l’Azienda e il Commercio, specificamente orientato all’intermediazione commerciale. Al corso di laurea, che si svolge a Teramo, Roma e Milano (con esami a Teramo) si sono iscritti sino allo scorso anno accademico oltre 800 studenti, di cui 116 hanno raggiunto la laurea.

Chi sono questi studenti? “Il 90% degli iscritti lavora già come agente o venditore; significativa anche la presenza di promotori e consulenti finanziari (il 30% del corpo studente)” dice Franco Damiani, Presidente di ATSC e tutor del corso di laurea, riconosciuto dalla Fondazione Enasarco che rimborsa agli agenti che frequentano il 50% del costo, con un contributo totale di 1,5 milioni di euro.

Se gli studenti già lavorano, la laurea – sembra – non serve a trovare lavoro, ma a rafforzare le proprie competenze in un settore sempre più complesso, che richiede conoscenze e abilità in continua evoluzione: contabilità, informatica, capacità negoziali e relazionali.

“I nostri studenti sono molto attenti e motivati, proprio perché sanno di essere in aula per acquisire conoscenze utili e preziose; conoscono il mondo del lavoro, vivono la vendita ogni giorno, eppure studiano perché – se forse in passato per vendere bastava andare dal cliente – domani bisognerà attrezzarsi in modo diverso, e chi non si aggiornerà resterà fuori dai giochi”, prosegue Damiani.

Dopo tante domande, risposte e riflessioni, concludo con il mio pensiero e la mia esperienza.

Laureata in Bocconi nel 1987, di formazione amministrativa, mi sono scoperta la vocazione della venditrice. Corsi universitari in area vendite allora non ce n’erano: mi sono dovuta formare sul campo, ma la mia azienda ha cominciato ad andare bene quando io stessa sono uscita dai clienti, a fianco dei miei venditori.

Metà scienza e metà arte, la vendita non è mai uguale, anche se i suoi fondamenti, come quelli della fisica, sono universali. Tanto che un bravo venditore non resterà mai senza lavoro. Di questo sono assolutamente convinta. Mi auguro che i nostri giovani, tra i banchi universitari e fuori, imparino ad amare questo lavoro – per nulla obsoleto, né noioso, né banale – come e quanto lo amo io.

Foto: rawpixel-unsplash

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