La sigla CCCP o S.S.S.R., sta per Sojuz Sovietskich Socialističeskich Respublik (Сою́з Сове́тских Социалисти́ческих Респу́блик), in russo Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.) che comprendeva diversi Paesi che si trovano ad Est rispetto alla nostra Italia. Cosa hanno in comune alcuni dei Paesi che appartenevano a questo “blocco” o che ne erano “stati satelliti” oltre all’ubicazione geografica? Potremmo rispondere in tanti […]
L’ossessione degli hard worker
Plinio il vecchio era un drogato di lavoro, dedicava tutta la giornata allo studio e mentre cenava si faceva leggere libri sui quali poi scriveva note e commenti. Dormiva poco e lavorava anche di notte. Pure Napoleone era un workaholic, un alcolizzato di lavoro e come Plinio interrompeva la sua attività solo per brevissimi pisolini. […]
Plinio il vecchio era un drogato di lavoro, dedicava tutta la giornata allo studio e mentre cenava si faceva leggere libri sui quali poi scriveva note e commenti. Dormiva poco e lavorava anche di notte. Pure Napoleone era un workaholic, un alcolizzato di lavoro e come Plinio interrompeva la sua attività solo per brevissimi pisolini. E che dire di Honoré de Balzac, che scriveva giorno e notte imbottendosi di caffè quando sentiva sonno?
Per questi uomini, tuttavia, l’etichetta di drogati è impropria. Secondo la moderna psicologia del lavoro oggi probabilmente rientrerebbero nella categoria degli “hard worker”, cioè di chi ama il proprio lavoro ed eccelle perché in grado di produrre prestazioni professionali molto al di sopra della media e senza fatica.
“In casi come questi le persone non sono schiave del proprio sforzo, anzi lo guidano”, commenta Andrea Castiello D’Antonio, psicologo del lavoro e consulente di management, “in loro non è presente la compulsione a lavorare e quindi riescono a vivere momenti di svago del tutto liberi dal pensiero professionale”.
Virando invece al negativo il profilo degli hard worker, ecco che si arriva ad incrociare una schiera molto nutrita di manager, più middle e neo che top, che del presenzialismo sul luogo di lavoro e della convinzione della loro indispensabilità in azienda hanno fatto un’ossessione. Insomma, i veri alcolizzati da lavoro, i tossici workaholic.
Per individuarli basta una di quelle semplici domande quotidiane: “Come stai?”. Se il soggetto risponde “Sono occupatissimo” e poi snocciola tutte le attività lavorative in cui è impegnato, state sicuri di aver stanato un vero workaholic. Una sindrome che è stata ben definita con un’efficace carica d’ironia da un articolo di qualche anno fa su L’Impresa, firmato da Enrico Bertolino, Fabio Bonifacci e Luca e Laura Varvelli: “La piaga del lavorismo (secondo alcuni più grave dell’alcolismo) consiste in una dipendenza dal lavoro che costringe il soggetto ad assumerne dosi sempre maggiori. Conduce il workaholico a sognare magliette con la scritta “Aboliamo la domenica” o ad ammalarsi appena parte per le ferie. Nei casi più gravi, arriva a dire alla moglie che va al motel con l’amante e invece va di nascosto a una riunione”.
I tanti manager ossessionati dalla smania del presenzialismo in azienda sono schiavi dell’impulso a dimostrare sempre qualcosa a qualcuno, ai loro collaboratori (ho in mano la situazione, domino tutto, controllo tutto) e ai loro superiori. “Vedono il capo solo come un’autorità giudicante e così si affannano per anticipare le sue aspettative”, spiega Castiello D’Antonio, che sull’argomento ha anche scritto il libro Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il workaholism. Una smania che li fa essere più produttivi dei loro colleghi? “Assolutamente no”, continua, “si autodevastano e tormentano i collaboratori con il perfezionismo, un’inclinazione che è positiva nelle attività tecniche ma che nei manager è deleteria perché allunga i tempi, inibisce le risposte e rende le decisioni incerte e tardive”.
Secondo uno studio condotto dall’università di Padova, che ha seguito alcune centinaia di dipendenti di un’azienda privata per 15 mesi, ecco gli allarmanti sintomi degli alcolisti da lavoro: “si dedicano all’attività per almeno 12 ore al giorno e con un eccessivo attaccamento emotivo, sacrificano il proprio tempo libero anche nei week end, sono irascibili e perdono lucidità, soffrono di deficit di memoria e di disturbi psicofisici come emicranie e gastriti, hanno sbalzi di umore e reazioni aggressive, abusano di sostanze stimolanti, dalla caffeina a veri e propri farmaci”.
E gli effetti sulla famiglia sono devastanti. Il workaholic tende a dimenticare, ignorare o minimizzare importanti ricorrenze familiari come i compleanni dei figli. Inoltre secondo uno studio statunitense condotto su un campione di 326 donne da Bryan Robinson dell’University of North Carolina-Charlotte, ritenuto oggi il massimo esperto dell’argomento, il rischio separazione è altissimo. Solo il 45% riesce ad evitare il divorzio contro l’84% della popolazione generale.
L’esasperato presenzialismo in azienda corrisponde quanto meno a un’attiva partecipazione ai momenti professionali/relazionali esterni? “Assolutamente no.”, ribatte drasticamente Domenico De Masi, professore emerito di sociologia del lavoro all’università La Sapienza di Roma, “Ai convegni seri, quelli di qualità, va solo il top dei top dei manager, gli altri, i workaholic, al massimo vanno alle convention con Fiorello e sempre in chiave autoreferenziale. Sono totalmente deprivati culturalmente, non hanno modelli di riferimento esterni, l’unico loro modello è l’azienda.
È un cane che si morde la coda, più restano in azienda e meno soddisfazioni hanno fuori, meno soddisfazioni hanno fuori e più insistono a restare in azienda. Così escono di casa alle 8 e ritornano alle 22. In realtà, però, hanno un carico di lavoro che mediamente non supera le sei ore e con quello riempiono un periodo di dieci-dodici ore. Per la maggior parte del tempo bighellonano, fanno chiacchiere inutili, vanno al bar, si affannano per non essere esclusi dalle cordate aziendali. In azienda si sentono importanti perché ordinano alle segretarie di portare il caffè, ma quando tornano a casa subiscono l’estraneità e gli sberleffi dei figli. E in Italia la situazione è più esasperata, così come negli altri paesi cattolici. Altrove invece i manager lavorano su orari normali, dalle 9 alle 17”.
Emblematico è il caso di Otto Mueller (un nome di fantasia perché il dirigente preferisce non farsi identificare) arrivato a Roma per assumere la presidenza della filiale italiana di una società tedesca. La mattina del primo giorno di lavoro telefona alla moglie e, com’era abituato in Germania, le dice: “Sarò a casa alle 17 e 30”. Intanto delega la segretaria a preparare l’agenda della giornata. L’assistente dopo un po’ arriva per l’approvazione, lui legge e sobbalza sulla sedia: “Ma come, ha fissato la riunione con il management alle 18.30? A Stoccarda a quell’ora tutti i miei collaboratori erano già a casa da un pezzo”. “Ma qui – risponde disorientata la segretaria – abbiamo sempre fatto così”. Allora Mueller incarica un consulente di misurare il carico di lavoro dei manager a Roma e a Stoccarda. Risultato: in Italia è del 18% inferiore.
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