Neppure la scaltrezza finanziaria di Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca e tutore del capitalismo italiano fino al 2000 (anno della sua morte), avrebbe mai immaginato che la famiglia Agnelli un giorno avrebbe venduto il Corriere della Sera e dopo tre anni avrebbe acquistato l’irriverente la Repubblica. Eppure è accaduto. Anzi, si potrebbe coniare un titolo […]
Ma Gianni Zonin non vi ricorda Trump?
Le ferite dei risparmiatori fregati dalle sei banche fallite negli ultimi tre anni bruciano ancora, ma lontano dalle telecamere. Ne è riprova la burrascosa riunione romana dello scorso mercoledì al MEF tra il Ministro del rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro (M5S), il sottosegretario Alessio Bellarosa (economia) e i rappresentanti dei risparmiatori coinvolti, che hanno definito […]
Le ferite dei risparmiatori fregati dalle sei banche fallite negli ultimi tre anni bruciano ancora, ma lontano dalle telecamere. Ne è riprova la burrascosa riunione romana dello scorso mercoledì al MEF tra il Ministro del rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro (M5S), il sottosegretario Alessio Bellarosa (economia) e i rappresentanti dei risparmiatori coinvolti, che hanno definito le attuali norme sui risarcimenti un “pantano legale”, un “campo minato” dal quale temono di non uscire più.
Si sapeva che la vicenda dei bail-in avrebbe avuto un lungo strascico. E in questo numero sul Veneto non poteva mancare un’incursione in questo dramma fatto di imbrogli, ingenuità, suicidi e soldi bruciati dove però occorre fare anche dei distinguo. E in questo ci aiuta il giornalista del Corriere della Sera Stefano Righi, autore del libro Il grande imbroglio.
Tu fai una precisa distinzione tra Banca Etruria, Carichieti, Cariferrara, Banca delle Marche da una parte e Veneto Banca e Popolare di Vicenza dall’altra, dove nelle ultime due gli azionisti della prima ora hanno visto i loro guadagni moltiplicarsi negli anni. I soci veneti che hanno fatto un sacco di soldi sono gli stessi che poi li hanno persi e magari ora si lamentano?
In alcuni casi sì. Molti di questi piccoli soci locali identificavano la banca come un elemento di coesione sociale, come il Municipio o la parrocchia. Oggi fa sorridere, ma negli anni Novanta in Veneto verso il locale istituto di credito c’era una completa identificazione: molti riponevano la loro fiducia indiscriminata nella banca sotto casa dove conoscevano tutti, dal direttore al cassiere. Ci sono stati casi di imprenditori o semplici cittadini che hanno dato tutto alla banca e per molti anni questo ha funzionato, e avrebbe potuto funzionare ancora se non ci fossero stati brogli e una smania eccessiva di crescere. Molti hanno guadagnato cifre alte nel corso degli anni vendendo poi al momento giusto; altri hanno guadagnato tanto per poi perdere tutto. Non dimenticherò mai, all’ultima assemblea della Popolare di Vicenza, un fornaio di 82 anni che sul palco, in lacrime, raccontò coraggiosamente davanti a migliaia di persone come, dopo una vita di lavoro, avesse perso tutti i suoi risparmi finendo sul lastrico con una misera pensione.
A proposito di assemblee, nel tuo libro ne tratteggi un quadro impietoso con banchieri che compravano a colpi di buffet i voti dei soci i quali si muovevano come fossero a una sagra. Perché questo folklore manca nelle cronache di Etruria & company?
Perché Banca Etruria era quotata in borsa e le due venete no: per loro essere sul listino avrebbe comportato trasparenza. Ciò che è successo è potuto accadere certo per mancanza di controlli (Bankitalia), ma soprattutto per opacità nella governance e grazie al sistema di potere ad esempio creato da Gianni Zonin, che per 25 anni ha costruito attorno alla Popolare di Vicenza mura impenetrabili ai controlli esterni. Senza i vincoli delle quotate le due venete potevano far stabilire i prezzi delle loro azioni in modo arbitrario, con una semplice perizia di parte redatta da un professionista da loro scelto, che in caso di resistenze si poteva anche cambiare: le azioni venivano quindi sovrastimate e non avevano rapporto col mercato e coi fondamentali delle due banche.
Due banche che si sono affossate convincendo i soci a prendere a prestito soldi a patto che fossero usati per comprare azioni delle banche stesse, le cosiddette “baciate”, pratica vietatissima: possibile che a nessun risparmiatore o imprenditore, magari col figlio che faceva Economia alla Bocconi, sia suonato un campanello d’allarme?
Può anche essere che qualche figlio bocconiano sveglio abbia salvato l’interesse del padre, ma negli ultimi anni in Veneto c’era una tale euforia. Mentre fuori dalla regione Lehman Brothers falliva, la Grecia saltava e anche colossi come Unicredit avevano i loro grattacapi, le due venete continuavano ad attirare un numero impressionante di azionisti grazie ai rendimenti passati e alle cedole staccate regolarmente. I veneti si erano abituati al Bengodi, e quando all’ignoranza diffusa associ la cupidigia… tutto questo fa parte dell’animo umano. Il vero problema è che non ci sono stati controlli interni ed esterni per cui il malcostume diffuso è perdurato.
Veniamo a una teoria scomoda: nel crack delle venete risparmiatori e soci avrebbero pagato i peccati dell’imprenditoria locale, con Veneto Banca che comprava istituti in Est Europa (anche) per gestire il nero delle imprese del Nord Est su quei mercati mentre le cassette di sicurezza delle piccole filiali custodivano montagne di valuta estera, come dimostrò la storica rapina del 1984 alla sede centrale della Popolare di Asolo e Montebelluna (embrione di Veneto Banca): 112 cassette di sicurezza svuotate per un importo che si vocifera arrivasse ai 200 miliardi delle vecchie lire. È così?
Ti rispondo con un episodio. Ricordo un’altra assemblea di Veneto Banca dove un imprenditore si alzò per chiedere come mai la banca non avesse uno sportello a Timisoara (Romania) dove lui aveva un’attività. Senza batter ciglio il Presidente disse che avrebbe raccolto l’idea e che entro la fine dell’anno l’avrebbe aperto: e così fece, in barba a piani di espansione precedenti o a valutazioni di mercato. Certamente – e lo dico, sia chiaro, non avendo le prove – viene il sospetto che alcune attività di comodo siano state favorite da questa presenza bancaria all’estero. Le venete erano troppo piccole per fare questo tipo di operazioni estemporanee.
Altro elemento di differenza con le altre banche fallite è il management. Gianni Zonin della Popolare di Vicenza, come un satrapo in salsa palladiana, osannato in pubblico ma con comportamenti privati che oggi attribuiremmo a Trump: un giorno definisce i suoi collaboratori come i migliori che la banca abbia mai avuto e qualche mese dopo li mette alla porta senza spiegazioni, come hanno imparato sulla loro pelle i direttori generali che si sono alternati. Un giorno apre filiali in giro per l’Italia (spesso dove compra vigneti della sua azienda), un altro usa i soldi della banca per regalare soldi al convento dove la sorella è madre badessa. Nel caso di Mps o Etruria i manager di solito intascavano lauti e immeritati bonus in silenzio: perché i morigerati veneti hanno accettato comportamenti così sfrontati?
Perché Zonin era abile nelle relazioni sul territorio, e a Roma addirittura in Bankitalia, dalla quale assunse ex dirigenti. Del resto era presidente da 20 anni (presente in banca ancora prima con altre cariche), e pur non avendo deleghe operative in quegli anni costruì un sistema di potere che gli consentiva di decidere praticamente tutto, persino l’arredamento delle filiali. Per inciso: Zonin aveva una remunerazione di un milione di euro l’anno, superiore a quelle del presidente di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli.
Un’altra caratteristica delle due venete è la rivalità tra Vicenza (Banca Popolare) e Montebelluna (Veneto Banca), con i rispettivi leader, Zonin e Vincenzo Consoli, ciascuno dei quali si credeva migliore dell’altro. Ora, rivalità e campanilismo sono tipicamente italiani, ma sembra che in Veneto sia quasi una ragion d’essere autodistruttiva.
Guarda che l’Italia fuori dalle grandi città è ancora Don Camillo-Peppone: il mio campanile deve essere più alto della torre della casa del Popolo. I due personaggi non si sono mai sopportati; quando si incontrarono ad Aquileia su pressing di Bankitalia, per valutare una fusione delle banche che presiedevano, i due si lasciarono in malo modo, per usare un eufemismo. Del resto Zonin e Consoli insistevano sullo stesso territorio, avevano grandissime ambizioni, ma soprattutto ciascuno aveva come obiettivo la distruzione dell’altro in quanto nemico. Ciascuno voleva prevalere sull’altro ma alla fine la base delle due banche si rivelò di frolla.
Già, la morale delle due banche venete è che ciascuna voleva diventare la più grande per gareggiare alla pari con le nazionali, ma alla fine si sono scassate a vicenda diventando boccone del pesce più grande, Intesa San Paolo, che le ha comprate per la simbolica e beffarda somma di un euro. Non è un po’ la stessa fine che stanno facendo alcune aziende venete azzannate dai cinesi, tipo la trevigiana Permasteelisa o il caso De Longhi?
Per risponderti sul parallelismo tra credito e industria devo fare un breve excursus storico. Il Veneto fino alla fine dell’800 era pura campagna; poi andò incontro a un’industrializzazione portentosa e l’arricchimento si fondava su due basi: il lavoro, tanto e ben fatto, e l’evasione fiscale. Questo ha portato al boom degli anni Novanta, dove il Veneto esportava quanto la Grecia. È però mancata cultura d’impresa; molto spesso c’erano aziende povere, ossia non patrimonializzate, controllate da imprenditori ricchi. Di imprese davvero grandi se ne contano poche – Benetton, ma è un caso mondiale – e il confronto con i mercati ti impone giocoforza di avere una certa massa critica oltre a sane e robuste capacità manageriali. Per esser chiari: oggi il principale brand veneto è il prosecco, ma la produzione attuale riesce malapena a coprire la metà di quello che uno dei principali importatori cinesi vorrebbe e potrebbe ordinare.
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