L’involuzione della specie 4.0

Non si parla d’altro. E come spesso accade in questi casi, è un continuo proliferare di convegni, incontri, proposte di consulenza in offerta speciale. Parlo naturalmente di Industria 4.0, un immenso calderone dentro al quale si rovescia con nonchalance ogni argomento che abbia minimamente a che fare con l’innovazione. All’ennesimo convegno al quale il ruolo impone […]

Non si parla d’altro.

E come spesso accade in questi casi, è un continuo proliferare di convegni, incontri, proposte di consulenza in offerta speciale.

Parlo naturalmente di Industria 4.0, un immenso calderone dentro al quale si rovescia con nonchalance ogni argomento che abbia minimamente a che fare con l’innovazione. All’ennesimo convegno al quale il ruolo impone la partecipazione ascolto i relatori esporre con l’entusiasmo necessario a sopperire alla mancanza di convinzione i principali driver di questo modello.

Ci viene illustrato come la quarta rivoluzione industriale ci spinga verso una produzione totalmente automatizzata e soprattutto interconnessa dove i dati in flusso continuo dovranno essere opportunamente analizzati per definire le più efficaci strategie di marketing e per ottimizzare i profitti conseguenti ad un perfetto time to market.

Ma nelle aziende a me pare che l’organizzazione sia ancora prevalentemente di tipo funzionale e parlare di processi snelli, digitali, automatizzati non è facile. Siamo davvero pronti alla rinuncia allo status e alla gerarchia verticale? Perché deve essere chiaro a tutti che con l’eliminazione delle funzioni a beneficio di una organizzazione spinta sui processi questo è proprio ciò che accadrà. Certo, la digitalizzazione supporta l’innovazione e fa crescere la competitività ma in tutto questo come e dove si inserisce l’elemento umano? Chi e come deve essere il dipendente del futuro? Un interessante articolo dei tanti che popolano il web evidenziava come la quarta rivoluzione industriale sul mercato del lavoro comporterà la creazione di 2 milioni di nuovi posti di lavoro (questa l’avevo già sentita) ma la contestuale sparizione di 7 (non sono mai stato forte in matematica ma ad occhio e croce avremo 5 milioni di posti di lavoro in meno).

Mentre nella mia mente si rincorrono dubbi e quesiti, mi accorgo che il mio vicino di posto scuote spesso la testa sconsolato. Ha qualcosa di vagamente familiare ma posso scorgerlo solo con la coda dell’occhio. Di certo ne percepisco la malcelata perplessità.

Così approfitto della pausa caffè e mi avvicino. Dopo un minuto stiamo chiacchierando amabilmente e senza remore espongo a questo gentile signore – il cui volto continuo ad essere sicuro di aver già visto – le domande che mi sono sorte spontanee durante l’esposizione dei vari speaker. Parlo lentamente perché ho intuito subito che il mio interlocutore non è italiano. Visto così direi che è inglese, una intuizione confermata da un abbigliamento un po’ démodé ma si sa che gli inglesi, se togliamo il fatto che il termine trendy è anglosassone, per tutto il resto dalla moda sono distanti anni luce. Mi dice che non è un collega ma che è spesso in giro per il mondo in quanto si interessa di vari argomenti.

Un tipo veramente interessante – mi dico – mentre continuo ad esporgli il mio pensiero.
“Io sono affascinato e quindi naturalmente favorevole all’utilizzo della tecnologia. Ma se l’industria di domani sarà questa, non si rischia di perdere il nostro saper fare? E se già oggi non ricordiamo più un numero di telefono che sia uno o peggio non sappiamo più nemmeno far di conto, come saremo domani? Se poi aggiungiamo che alcune case auto stanno sperimentando evolutissimi sistemi di scambio dati e che domani le stesse auto non avranno più necessità di conducente, è più che probabile che dopo qualche anno non sapremo più guidare. Almeno non più di quanto sappiamo accendere il fuoco con le pietre focaie o pescare con un bastone appuntito!”.

Ma in azienda non si parlava sempre del valore dell’uomo, della passione che fa la differenza, dell’intuizione e del pensiero creativo? Ricordo che sin dagli albori del Lean Manufacturing, si insisteva sull’apporto delle persone, sull’introduzione di sistemi premianti per i suggerimenti dei dipendenti e su tutti i sistemi di coinvolgimento figli del Toyota Production System.

Mi rendo conto di aver colto nel segno e di avere per me tutta l’attenzione del mio interlocutore per cui gli rivolgo la domanda che mi ronza in testa dall’inizio del convegno.
“Ma se questo è davvero il futuro quale saranno i nostri obiettivi di domani? Quali saranno le competenze necessarie per svolgere al meglio il nostro ruolo in azienda? Potremmo ancora chiamarci capi del personale? Quanto le nostre Resources saranno human?”.

Realizzo però in quell’istante che il mio interlocutore sinora mi ha ascoltato con grande interesse ma non ha proferito parola. Ha solo annuito in maniera convinta quando ho fatto riferimento alla mia teoria dell’evoluzione dell’industria che ha come tragica conseguenza l’involuzione dell’essere umano.

Nel frattempo è terminata la pausa caffè ed è giunto il momento di rientrare in sala. Mi rendo conto che, presi dall’arricchente scambio di opinioni, non ci siamo neppure presentati e dico il mio nome per rimediare.

“Mi chiamo Robert Charles” – mi risponde sorridendo – “ma può semplicemente chiamarmi Charlie”.

È con queste parole che mi sveglio di soprassalto sulla scomoda poltrona. Così esco dalla sala, ritiro il mio cappotto nel guardaroba e torno a casa, arricchito come mai dopo un convegno.

P.s. My pleasure, Mr Darwin. Ops, Charlie!

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