Le Marche sono sicuramente una delle regioni meno conosciute del Belpaese, seppur di grande fascino. Dal mio punto di vista, originario di Genova e diventato marchigiano adottivo per scelta a partire dalla metà degli anni ’90, nelle Marche si vive bene. Fa piacere godere di qualcosa che sfugge alle masse e questa scarsa notorietà permette […]
Meglio vanno le cose, meno siamo soddisfatti
Mia moglie mi dice sempre “’Tanto tu non sei mai soddisfatto” e nove casi su dieci sono lavorativi. Facendo un po’ di autocritica, devo dire che lei ha ragione (ma non diteglielo), anzi è peggio di quel che sembri. Meglio mi vanno le cose, più mi scattano pensieri del tipo: “Sì, ma se questa cosa va male?” […]
Mia moglie mi dice sempre “’Tanto tu non sei mai soddisfatto” e nove casi su dieci sono lavorativi.
Facendo un po’ di autocritica, devo dire che lei ha ragione (ma non diteglielo), anzi è peggio di quel che sembri.
Meglio mi vanno le cose, più mi scattano pensieri del tipo: “Sì, ma se questa cosa va male?” oppure “Sì, ma fra sei mesi cosa ne sarà di questa situazione?”. E’ tutto un sì, ma.
Insomma, mi costruisco castelli di motivi d’insoddisfazione (al 97,8% inesistenti, ipotetici e teorici).
La diagnosi è chiara.
La sindrome da soddisfazione inversa
Sono vittima della sindrome da soddisfazione inversa: meglio vanno le cose, meno sono soddisfatto.
Non ho alcuna pretesa di fare lo psicologo, ma porto il contributo di chi ha sperimentato direttamente e visto decine di aziende multinazionali, piccole, medie, micro e che, adesso, fa parte della diversa categoria dei liberi professionisti o imprenditori.
Tra i tanti difetti ho la mania di osservare e modellizzare le situazioni.
La formula del problema è semplice.
Se fossimo animali razionali, funzionerebbe l’equazione: maggiore successo = maggiore soddisfazione.
La formula reale è inversa.
Maggiore successo = minore o identica soddisfazione. E’ l’ennesima dimostrazione che non siamo dominati dalla ragione. Siamo dominati dall’istinto, dagli automatismi che abbiamo imparato nella nostra vita, dalle emozioni.
Ci sono svariate analisi psicologiche e/o neurologiche che lo dimostrano.
Basta fare una ricerca su TED Talk o leggere due delle teorie per me più interessanti al riguardo:
- “Pensieri lenti e veloci” del premio Nobel Daniel Kahneman
- Il cervello “trino” dello psicologo Mac Lean, spesso alla base del Neuromarketing.
Siamo tutti ambiziosi?
Ma dai, questa formula inversa vale solo per gli ambiziosi. Sì ma, mi direte, siamo tutti diversi e la formula di cui parli riguarda solo gli ambiziosi. Per gli altri non vale.
Sono d’accordo che questa formula è alla base del comportamento di tutte le persone ambiziose: siccome non sono mai soddisfatte dei traguardi che raggiungono, cercano sempre un traguardo più alto. Anzi questo è uno dei propulsori maggiori di tutti gli uomini dal grande successo professionale.
Ecco 4 casi per capire che è un problema diffuso a tutti i livelli, professionali e non.
In realtà questa formula inversa non riguarda solo gli ambiziosi ma moltissimi di noi.
Per capirlo, vi racconto alcuni casi di persone non particolarmente ambiziose.
1. L’imprenditore di seconda generazione
Alcuni miei clienti sono imprenditori di seconda o terza generazione. Non sono le persone che, spesso mosse da forte ambizione, hanno creato e fatto crescere una azienda: loro si sono “trovati” a gestirla.
Per la maggioranza di quelli che conosco, al crescere dei risultati non migliora la soddisfazione.
Succede che con un 10% di aumento del fatturato (sano, ossia senza distruggere i margini), ci si concentra sul non aver raggiunto l’obiettivo del +15% previsto anche se l’azienda è già al suo massimo storico.
2. Il Manager dalla carriera lenta
Ho sempre pensato che ci sono due tipi di carriere manageriali: quella rapida, guidata di solito dall’ambizione di raggiungere certi traguardi e in cui la velocità di carriera è sostenuta, e quella lenta.
Ho conosciuto parecchi manager che non avevano raggiunto posizioni di alto livello per ambizione sfrenata.
Avevano fatto carriera perché, facendo bene il loro lavoro, l’organizzazione li ha premiati col tempo.
Hanno fatto una crescita lenta e alcuni sono persino arrivati ai vertici dell’organizzazione ma, di questi, non ne conosco uno dominato dalla soddisfazione di essere arrivato dove, 20 anni prima, non avrebbe mai pensato di arrivare. Sono tutti dominati dall’insoddisfazione dovuta al rischio di perdere la posizione, di dover crescere ancora per giustificare l’ascesa. Insoddisfatti di, di, di.
3. Il libero professionista
I liberi professionisti non hanno effetti di scala e di cuscinetto dovuti a un’organizzazione.
Il reddito è direttamente conseguente al numero di clienti che ha e al fatturato medio che fa con ognuno.
Ecco perché la fonte di insoddisfazione riguarda l’incertezza di non trovare nuovi clienti e/o di metter a repentaglio i risultati raggiunti se ci fosse un’impossibilità fisica a lavorare (se non lavori, non fatturi e non incassi). Questa incertezza aumenta all’aumentare dei risultati, perché devi racimolare sempre più clienti ed è sempre più difficile.
Conosco solo un libero professionista che non è in questo caso: si è dato un livello di reddito da raggiungere e, da quando lo ha raggiunto, si ritiene soddisfatto e cerca di evitare nuovi lavori.
4. La soddisfazione inversa della nostra società
Se guardiamo con accortezza, si vede che la nostra società è strutturalmente soggetta a questa sindrome.
Parto da un esempio.
Mia nonna (classe 1913) ha fatto la bracciante; in pensione aveva un reddito che per noi sarebbe da povertà nera.
Per lei era un livello normale con il quale riusciva a risparmiare e a farmi dei regali. Come facesse materialmente io non ve lo so dire ma è il classico esempio della variazione della soglia di povertà: più abbiamo “cose” a livello di società, più si alza il livello di quello che è ritenuto necessario, più soldi ci vogliono per ottenerlo.
Conoscete più persone che rinunciano all’ultimo smartphone o più persone che cambiano operatore per aderire a un’offerta che include l’ultimo iPhone a soli 20€ al mese?
E’ pura soddisfazione inversa: se le cose vanno meglio, allora alziamo la soglia di quello che riteniamo necessario, tutto diventa più stressante e difficile da raggiungere e tutti siamo meno soddisfatti.
E la nostra società è quella che ha raggiunto di gran lunga il maggiore benessere materiale nella storia.
La soglia di povertà è “l’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza” ed è intorno ai 1.400 € per tre persone; qui trovi il calcolatore della povertà dell’ISTAT.
Insomma le vittime della formula inversa della soddisfazione non sono poche; anzi, in almeno un periodo della nostra vita, tutti siamo stati così.
Dove parte l’insoddisfazione inversa?
Ecco come teorizzo il meccanismo che genera la formula inversa della soddisfazione:
- Arrivo a traguardi più alti (di solito perché lavoro consciamente e/o inconsciamente per raggiungerli): ecco che le cose vanno meglio
- Mi ci abituo in fretta
- Dò per scontati questi traguardi e mi ci annoio
- Sento che mi mancano delle cose, dei traguardi diversi
- Questi traguardi sono più difficili e mi aumentano ansia e frustrazione, di conseguenza aumenta l’insoddisfazione
Sono i cinque passaggi per mettersi in trappola.
C’è una soluzione? Sì, la realtà non esiste
E’ difficile parlare di “soluzione”. Esistono alcuni ragionamenti che, sforzandomi di fare con me stesso, mi aiutano quando mi vedo in piena sindrome. Partono tutti da un concetto: la realtà non esiste, esistono solo le percezioni.
L’insoddisfazione è in maggioranza nella nostra testa e quindi nelle nostre percezioni.
L’unico modo di uscirne è cercare di guidare o equilibrare le nostre percezioni, insomma di inserire una componente razionale nel mare di “non razionalità”.
Vediamo questi 4 modi per combattere la soddisfazione inversa.
1. Accetta la realtà com’è e non come vorresti che fosse
Questa per me è la difficoltà più grande. Vuol dire sforzarsi di accettare i fatti senza formulare giudizi su come dovrebbero essere: su cosa sarebbe dovuto succedere, su cosa avrei dovuto fare, senza stare a pensarci ancora e ancora. Questo è il vero fatto (e non l’interpretazione). E da lì devi ragionare su come puoi influenzare lo sviluppo futuro della situazione.
2. Metti da parte il perfezionismo
Quando siamo perfezionisti siamo incontentabili. Siamo succubi dell’immagine di come dovrebbe essere la realtà (di una situazione o di noi stessi) che non sarà mai così. Quindi puntiamo a qualcosa che non può essere: insoddisfazione assicurata. Bisogna obbligarsi a ricordare che la perfezione non esiste.
3. Concediti soddisfazione per i risultati raggiunti
Nel meccanismo della soddisfazione inversa, il passo più perverso è il n. 3 (dò per scontati i risultati raggiunti).
Facendo così, non mi fermo a provare soddisfazione per i risultati ottenuti e quindi non ho nessun bilanciamento per gli elementi di insoddisfazione appena incontrati.
Come fare? Prendersi un momento di soddisfazione: e datti una pacca sulla spalla una volta ogni tanto.
4. Non provare ad eliminare del tutto la soddisfazione inversa
Tanto non ci riusciresti e poi ti serve perché è un formidabile motore per il miglioramento ma a patto che non ci si lasci dominare da essa.
Chiudo con il suggerimento di una vecchia lettura (è del 1947): How to Stop Worrying and Start Living di Dale Carnegie (in Italiano: Come vincere lo stress e cominciare a vivere).
E’ un manuale basato su casi di insoddisfazione e stress di persone che hanno vissuto e sofferto nella Grande Depressione e nella Seconda guerra mondiale: i suggerimenti di metodi pratici per uscirne sono spesso utili, e, visto i problemi che hanno vissuto i protagonisti, aiuta molto a relativizzare tutto il nostro grigiore.
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