I migranti arrivano sani e perdono la salute in Italia

Intervistiamo Marco Mazzetti, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni: “Finanziamo i torturatori libici per curare le loro vittime. I flussi migratori si subiscono o si gestiscono, non si possono evitare”.

“Prima di parlare della salute mentale dei migranti, e se vuole dei disturbi da stress post-traumatico provocati dalle torture che subiscono nei centri di reclusione libici o nei viaggi in mare sempre in bilico tra la vita e la morte, vorrei fare una premessa che considero essenziale per comprendere ciò che sta accadendo, tenuto conto dei tanti luoghi comuni che spesso vengono utilizzati per analizzare un fenomeno che lascerà un segno nella storia dell’uomo.”

Marco Mazzetti, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, ha 64 anni, e nella sua vita professionale si è sempre occupato del fenomeno della migrazione, analizzato come evento epocale e non contingente. Nasce come pediatra, poi si occupa di psichiatria.

“La medicina”, ci spiega, “non può essere sganciata dalla realtà sociale nella quale viviamo”. E così per anni lavora come medico cooperante in Africa per poi mettere mani e piedi nella piaga della povertà in Italia, collaborando attivamente con la Caritas.

Dalle sue prime battute mi pare che il suo non sia il linguaggio di un tecnico, ma piuttosto uno sguardo ragionato al fenomeno drammatico che proprio in questi giorni sta mettendo in crisi le diplomazie europee. Che cosa pensa di quello che sta accadendo?

Guardi, io parto da questo presupposto assai radicale: il fenomeno migratorio o lo gestiamo o lo subiamo. La storia non la si può fermare. Non soltanto perché l’homo sapiens è migrante per natura, ma perché – se vogliamo arrivare ai nostri giorni – la questione chiave è che migrare fa parte dei diritti naturali degli esseri umani, proprio come quello di liberarsi dalla povertà e trovare di che vivere. È la povertà a dover essere combattuta, non la migrazione. Oggi ci troviamo in una fase storica molto complessa: esplosione demografica e confini nazionali chiusi ci condurranno a una limitazione dei diritti naturali, di cui lo ius migrandi, il diritto a migrare, è una parte essenziale? Forse è davvero così, dato che in molti luoghi del pianeta non è garantito neanche il diritto a nutrirsi e ad avere cure mediche.

Non mi pare però che la politica in Italia sia sensibile a questa lungimiranza. L’idea dei respingimenti o dei blocchi navali annunciati dal governo Meloni credo che vadano nella direzione opposta a quello che lei definisce lo ius migrandi. O sbaglio?

No, non sbaglia. Nel 2002 venne approvata, da un governo di destra, la legge Bossi-Fini, che tra l’altro aboliva il permesso di soggiorno per ricerca lavoro, obbligava alla registrazione delle impronte digitali per il permesso di soggiorno e creava condizioni difficili e preoccupanti per far valere il diritto d’asilo, tra cui il principio del respingimento (soprattutto in Libia). Ma va ricordato che se la cattiva legge Bossi-Fini l’ha fatta la destra, la sinistra l’ha conservata intatta per gli undici anni e mezzo complessivi in cui è stata al governo. In questi stessi anni si è discusso di agevolare la cittadinanza ai bambini figli di immigrati cresciuti e scolarizzati in Italia, ma nulla è stato fatto, né dalle destre né dalle sinistre, e si sono finanziati centri di detenzione in Libia in cui vengono trattenuti potenziali richiedenti asilo in Italia in condizioni inumane. Possiamo dire che con le nostre tasse finanziamo i torturatori libici, i quali producono i profughi vittime di violenza che poi ci troviamo a curare: una situazione davvero paradossale. Ecco che torniamo al tema originario della salute mentale.

Perché si parla poco della salute mentale degli emigranti?

Perché sui grandi numeri questo non è un problema. Gli immigrati godono, nel loro complesso, di una buona salute mentale, statisticamente un poco migliore di quella della popolazione italiana. Del resto, se così non fosse, non affronterebbero un’avventura impegnativa come la migrazione. Certo, c’è una piccola minoranza tra loro, come le dicevo; quella che arriva attraverso viaggi pericolosi (mentre la stragrande maggioranza degli immigrati viene nel nostro Paese in aereo o in autobus) e che affronta condizioni particolarmente traumatiche. In particolare coloro che passano attraverso la Libia subiscono spesso, nei centri illegali di detenzione, torture e violenze che possono determinare l’insorgere di disturbi da stress post-traumatico. In modo analogo, chi affronta viaggi che mettono a rischio la sua vita può assistere alla morte di famigliari e amici durante il percorso migratorio. L’epidemiologia delle migrazioni in Italia parla chiaro: nonostante le voci su presunte importazioni di malattie esotiche, gli immigrati non portano malattie. Le indagini fatte su questo argomento dimostrano che essi partono sani e sani arrivano da noi; questo è vero sia per quanto riguarda la salute fisica che quella mentale. Si ammalano poi nel nostro Paese a causa delle condizioni di vita che trovano, ad esempio quelle di lavoro; in questo senso i dati sull’infortunistica parlano chiaro. Lo stesso vale per la salute mentale, per cui il fattore di rischio fondamentale sono le pericolose condizioni di viaggio che la piccola minoranza che arriva con gli sbarchi si trova ad affrontare.

Qual è a suo parere il peccato originale dei governi europei sul tema dell’immigrazione?

In molti casi, tra cui purtroppo rientra l’Italia, è l’incapacità a gestire e a governare i flussi migratori, l’incapacità di attuare una politica di integrazione. Quella che chiamiamo classe politica si è dimostrata particolarmente scadente e disinteressata ai diritti dei migranti, negli ultimi vent’anni. Lo stesso termine “classe politica”, che è invalso da qualche tempo, indica la percezione dei detentori del potere politico come una classe sociale a sé, separata dal resto della popolazione. Alcuni governi non capiscono che con la crisi demografica che investe l’Europa noi abbiamo bisogno dell’immigrazione. L’ultimo tentativo di proporre in Italia una politica di integrazione risale al 1998 con la legge Turco-Napolitano. Poi sono arrivate le suggestioni leghiste, e quel saggio tentativo è stato sotterrato dalla propaganda che ancora oggi domina la scena italiana. Rudolf Virchow, patologo, antropologo e politico tedesco, già nell’Ottocento sosteneva che la medicina dev’essere considerata una scienza sociale, e la politica una medicina su larga scala. L’epidemiologia, ad esempio, ci ha dimostrato che il miglioramento delle condizioni abitative (acqua corrente in casa, buona illuminazione e arieggiamento), cioè l’effetto di azioni politiche, ha avuto un impatto più importante degli antibiotici nel ridurre i tassi di tubercolosi nella popolazione generale. Tornando all’attualità, i governi italiani avrebbero dovuto guardare con più attenzione alla politica intelligente in materia di immigrazione messa in atto dalla Germania. Anche in Germania c’è un serio problema demografico, ma loro lo hanno affrontato con una politica di integrazione, scegliendo e formando le professionalità che gli offrono i flussi migratori. Per fare questo però è necessario pianificare il mercato del lavoro in relazione ai flussi migratori. Fino a quando si pensa soltanto ai respingimenti non si va molto lontano.

Lei pensa che una politica di integrazione in Italia sia possibile?

Intanto credo che i processi di integrazione in Italia non siano all’anno zero. Forse non c’è ancora la percezione di questo fenomeno nella popolazione generale, ma se si guardano con attenzione i dati economici si scopre che molto è cambiato: l’imprenditoria immigrata è particolarmente di successo in numerosi settori dell’economia (edilizia, imprese di pulizie, ristorazione eccetera). Così come l’integrazione dei figli degli immigrati, che cominciano ad affollare le nostre università. Per non dire di quanto gli immigrati sostengano in modo fondamentale il nostro mercato del lavoro e il nostro sistema previdenziale. Siamo in presenza di fenomeni economici sani, promettenti e in grande crescita. Lo ripeto, verso i fenomeni migratori non abbiamo alternative: o li subiamo o li gestiamo. Quello che è certo e che non possiamo evitarli.

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In copertina foto di Tania Dimas da Pixabay

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