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“Morti bianche” e “flessibilità”: perché il linguaggio del lavoro è in malafede
È tutta una questione di narrazione dominante: alcune morti da lavoro fanno più notizia di altre, e alcuni termini di settore sono più utilizzati. Per quale ragione, e come si legge tra le righe?
Le “morti bianche” per le vite perse mentre si lavora gridano vendetta. Ma non c’è niente di puro in una morte sul lavoro; niente del colore che richiama le nozze, le fasce degli infanti – le bende che si arrotolano sulle ferite.
In Italia tre persone al giorno muoiono mentre stanno lavorando. Sono 700.000 invece coloro che restano feriti per incidenti sul lavoro, riportando una serie di lesioni più o meno gravi: una persona ogni cinquanta secondi. Sono omicidi, le morti da lavoro: così li ha definiti dal palco di Nobìlita, il festival della cultura del lavoro organizzato da SenzaFiltro, il magistrato Bruno Giordano, direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che ha lanciato un appello a cambiare il linguaggio con cui le cronache giornalistiche restituiscono la rappresentazione mediatica del fenomeno.
Non tutte le morti sul lavoro sono uguali: questione di narrazione
Ribaltare la narrazione dominante del lavoro è la sfida per restituire una percezione corretta di fenomeni complessi, determinati da una serie di concause, che interessano la vastità della sfera sociale e attirano l’interesse dell’opinione pubblica. Ci sono il rosso del sangue, il grigio della polvere, delle parti metalliche dei macchinari e dell’asfalto, nella rappresentazione fattuale di un evento fatale come la morte sul lavoro.
“Non parlate di infortunio, la fortuna è quella di tornare a casa la sera dal lavoro”, ha incalzato dal palco Giordano. Il paradosso nel 2020, anno del COVID-19, è che le denunce di incidenti sul lavoro sono scese dell’11,4%, attestandosi a 571.000, mentre i morti sono saliti del 27,6%, con 1.538 casi mortali denunciati all’Inail, di cui un terzo sono i casi di morti per COVID-19.
L’effetto di agenda setting diventa massimo quando capitano tragedie come quella di Luana D’Orazio, la giovane mamma morta a 22 anni, trascinata in un orditoio dell’azienda tessile per cui lavorava in provincia di Prato. Secondo la perizia sono trascorsi nove secondi tra la segnalazione dell’anomalia del computer dell’orditoio e il tempo in cui un collega della giovane ha spento la macchina, la cui manomissione consentiva un aumento dell’8% della produttività dell’orditoio.
Una vicenda su cui si è costruita una tipica narrazione eroica, dove l’età della vittima e le circostanze della sua vita privata sono facili catalizzatori del ruolo di eroina; dove il malvagio antagonista diventa il macchinario manomesso, definito in un articolo di un quotidiano nazionale “l’orditoio di Luana”, non indicando come mandante quello che una volta sarebbe stato definito “padrone”, interessato solo al profitto e al capitale. Nell’immaginario collettivo hanno assunto un maggior valore la particina da lei interpretata in un film di Pieraccioni, l’essere ragazza madre, i sacrifici fatti, rispetto all’essere vittima di un perverso meccanismo che ha spinto i datori di lavoro a trascurare pesantemente la sicurezza per due spiccioli in più.
Un racconto attanziale giocato su toni emotivi, quello della morte di Luana D’Orazio, che grazie all’effetto agenda dal 3 maggio a oggi ha contribuito a riaccendere i riflettori sul fenomeno dei morti sul lavoro. È la costruzione di uno schema narrativo predeterminato da parte del destinante, cioè il giornalista autore del testo, ad aprire le porte alla manipolazione dell’informazione, giocata spesso su toni emotivi e di spettacolarizzazione, con la conseguenza di dare meno rilievo ad alcuni aspetti fondamentali di una notizia.
C’è vittima e vittima. Durante la ricostruzione post terremoto, nel gennaio 2019 c’era già stata la prima vittima, un cinquantenne originario del Kuwait di cui quasi nessuno ricorda il nome. Per dovere di cronaca si chiamava Khalid Khalid, era residente da anni in Italia, ma nonostante il triste primato, proprio per le differenti caratteristiche personali, il suo caso è subito finito nel dimenticatoio.
Non chiamatelo telelavoro: perché il “lavoro agile” piace di più ai media
Nello scenario giornalistico attuale è tornato di grande diffusione il lavoro agile, quello che il ministro Renato Brunetta ha revocato dal 15 ottobre per gli statali, che devono tassativamente tornare in ufficio per garantire maggiore efficienza alla macchina della pubblica amministrazione. Peraltro l’accordo quadro sul telelavoro nella pubblica amministrazione esiste dal 23 marzo 2000.
Di agile il lavoro a distanza ha solo la caratteristica atletica di chi, stando a casa davanti a un computer, deve fare i salti mortali per conciliare vita privata e vita lavorativa, tra bambini da accudire, cellulare che consente la reperibilità h24 e incombenze varie da incastrare in un orario fluido, in cui gli spazi sociali esterni sono tutti da conquistare. E magari, visto che chi è agile è anche sciolto e scattante, nei media mainstream si aggiunge il tema della riduzione di salario per chi rimane a lavorare da casa. Un flusso di lavoro “smart” sveglio, intelligente, che non si ferma mai.
La scelta delle parole per descrivere un fenomeno non è mai neutrale, perché evoca differenti scenari nella mente dei destinatari del messaggio. Agile evoca un contesto semantico riferibile al mondo dello sport, alla scioltezza della performance agonistica, a uno scarso inquadramento gerarchico. Telelavoro e lavoro da remoto ormai sembrano essere termini quasi in disuso nella narrazione dominante che pone al centro il punto di vista degli imprenditori, i quali per caratteristiche reddituali e organizzative presentano una posizione dominante rispetto ai lavoratori loro sottoposti.
Un tema niente affatto secondario, visto che in Italia erano circa quattro milioni i lavoratori in smart working nel secondo trimestre del 2020, pari al 19,4% del totale, a fronte del 4,6% nel secondo trimestre del 2019, con un bel risparmio per le tasche di un imprenditore se il tema della narrazione dominante diventa la concessione di una tipologia di esecuzione del contratto di lavoro più diffusa e legittimata in altri contesti nazionali.
Il mito scalcinato della flessibilità
L’Italia, dove nel dibattito pubblico si parla di un salario minimo che ancora non esiste, è ai penultimi posti in Europa per livello di sviluppo salariale, con il potere d’acquisto calato del 4,7% tra il 2010 ed il 2017. La stagnazione salariale non sembra essere un tema di rilievo nell’agenda politica nazionale, peraltro in un periodo in cui il conto energetico sale di percentuali a doppia cifra, con ripercussioni facilmente immaginabili per i costi dei differenti settori produttivi.
Riferendosi ancora al campo semantico dello sport, a fare il pari con agile c’è la parola flessibile. Già dai tempi della legge Biagi, da cui è nato quel sottobosco di alcune decine di tipologie contrattuali in vigore nel Belpaese, la flessibilità è sempre richiesta al dipendente, quasi mai al datore di lavoro. È il dipendente che cambia mansione, o direttamente datore di lavoro.
il lavoro flessibile si dovrebbe utilizzare per situazioni eccezionali o di carattere temporaneo e contingente. L’accezione di “flessibile” si applica purtroppo anche alla retribuzione, e a una serie di caratteristiche del rapporto lavorativo subordinato che a parità di mansione sono differenti rispetto a chi presenta un contratto a tempo indeterminato. Il pensiero va al popolo silenzioso dei somministrati, gli ex interinali, che nel 2020 erano 1.043.000.
“A fronte del calo delle attivazioni totali, pari a -19,2%, si osserva un decremento delle attivazioni dei contratti in somministrazione pari al 25,7%”, si legge nel rapporto sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, “che coinvolge la componente femminile (-28,0%) in misura maggiore di quella maschile (-23,7%). La distribuzione percentuale per classe di età mostra che nel 2020 le attivazioni in somministrazione si concentrano in misura maggiore nella fascia under 25 (21,9%) e nelle classi di età 35-44enni (21,3%) e 45-54 anni (18,8%)”.
In amore il triangolo non porta bene; nel lavoro si è cambiata denominazione, ma la sostanza del lavoro provvisorio resta immutata. Basti pensare che si vietava “l’interposizione di manodopera” con il decreto 1.369 del 1960, concetto ribaltato dalla costituzione del contratto di somministrazione di lavoro. La somministrazione, infatti, sancisce il triangolo tra agenzia, lavoratore e azienda utilizzatrice, ribaltando il paradigma dominante datore di lavoro-dipendente e introducendo l’intermediazione di un terzo per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per questa ragione nella stessa azienda, tra somministrati e dipendenti che svolgono le stesse mansioni, a volte non c’è lo stesso trattamento. Ad esempio in edilizia il lavoratore con contratto di somministrazione non ha diritto all’indennità di mobilità, né a trattamenti speciali di disoccupazione.
Un manifesto delle parole del lavoro come vaccino contro la narrazione dominante
Fanalino di coda non poteva che essere il lavoro accessorio, quello a carattere occasionale, che non fa guadagnare più di 7.000 euro nell’anno solare. Il richiamo semantico è a qualcosa che orna, abbellisce, è quasi superfluo, dunque passa facilmente in secondo piano. Eppure questa tipologia di lavoro si può applicare ai servizi, quali commercio, turismo, ambito domestico, ristorazione, persino agricoltura.
La rappresentazione linguistica di un fenomeno sociale o di un fatto contribuisce alla percezione e valutazione complessiva nell’opinione pubblica; pertanto, la responsabilità nella scelta dei vocaboli non è secondaria. La narrazione prevalente del lavoro, dei temi della fortuna di avere un’occupazione, della concessione di diritti già previsti, del punto di vista dominante dell’imprenditore, del Reddito di Cittadinanza che non favorirebbe l’impiego di chi lo percepisce, trova sostanza nella scelta delle parole che formano i testi narrativi dei media,
Gli operatori del settore dovrebbero averne maggiore consapevolezza, aprendo un dibattito pubblico che potrebbe portare a un manifesto delle parole del lavoro, per costruire testi maggiormente performanti e rispettosi dei parametri di notiziabilità. Questo per smentire, come scriveva Bukowski, che “la schiavitù non è mai stata abolita, si è semplicemente estesa a tutti i colori della pelle”, a causa della narrazione dominante.
L’articolo prende spunto dal panel “Aziende che non trovano lavoratori”, che puoi seguire cliccando qui.
Foto di copertina di Josh Olalde su Unsplash
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