A Napoli si parla binario

Nelle ultime settimane sto ricevendo tantissime richieste per andare a raccontare quello che chi mi invita definisce rinascimento napoletano. Io non lo so se si chiama così e se è o sarà per davvero un “rinascimento”. Lo vedremo poi. So però che me lo stanno chiedendo in tanti, a Napoli e fuori. E so anche […]

Nelle ultime settimane sto ricevendo tantissime richieste per andare a raccontare quello che chi mi invita definisce rinascimento napoletano.

Io non lo so se si chiama così e se è o sarà per davvero un “rinascimento”. Lo vedremo poi. So però che me lo stanno chiedendo in tanti, a Napoli e fuori. E so anche che da quando faccio questo mestiere le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) non sono mai state così centrali nella vita della città nella quale sono nato io e nella quale sono nati i miei figli.

 

La Napoli digitale

Napoli è una città nella quale storicamente si sono parlati diversi linguaggi: quello dell’arte, quello della musica, quello della cultura, e molti altri ancora. Oggi a Napoli si parla – e tanto – anche binario, il linguaggio delle macchine. E si parla binario perché oggi Napoli è centrale in quella che un po’ tutti avevano già definito “rivoluzione digitale” e che oggi, anche sotto la spinta del piano Industria 4.0 varato dal precedente governo, va più correttamente sotto il nome di “trasformazione digitale”. Si parla di trasformazione in quanto la rivoluzione non riguarda solo il settore dell’ICT, bensì interessa sempre più tutti gli ambiti e i settori applicativi, quali ad esempio quelli della finanza, dell’automotive, dell’agroalimentare, dell’aerospaziale, della salute e del farmaceutico, dei beni culturali e del turismo, della manifattura e della logistica, dell’energia, che si stanno letteralmente “trasformando” a causa dell’impatto del digitale.

Il perché oggi a Napoli, città con una tradizione incredibile, si parli il linguaggio dell’innovazione e del digitale dipende da un diversi motivi. Innanzitutto dalla volontà di un po’ di persone che, in vari ruoli, sono volute uscire dalla dicotomia e dalla contrapposizione “tradizione contro innovazione”, cosa frequente in tutto il nostro Paese, ma che dove le tradizioni e la storia sono ancora molto sentite e praticate – come a Napoli – finisce per esserlo ancora di più. Queste persone lo hanno fatto in un territorio dove spesso, anche per continue e contingenti questioni, il quotidiano non permette di concentrarsi sugli aspetti di visione strategica. Dove il vecchio mondo fatica a dare risposte, e al contempo il nuovo fatica ad arrivare. Lo hanno fatto, quindi, nell’unico modo che c’è per cambiare le cose: cambiandole.

 

Il ruolo dell’università nel rinascimento napoletano

Napoli è la sede dei cinque atenei della Campania, tra cui l’Università di Napoli Federico II, che è l’Università pubblica più antica del mondo ed è oggi tra i più grandi Atenei italiani, nonché l’Ateneo più grande del meridione. Un Ateneo che, forte della sua tradizione e conscio delle sfide poste dal cambiamento, non ha avuto paura di cambiare e ha investito sull’innovazione. Lo ha fatto dando significato a questa parola, che corre il rischio di perdere il suo significato a causa di tutte le volte in cui la si nomina a sproposito. Se si vuol dare significato alle parole si deve investire sui fatti, e a Napoli si è deciso che non ci sono fatti più concreti delle infrastrutture da un lato e delle persone dall’altro.

Un fondamentale fattore di innovazione è stato l’investimento nella realizzazione di un luogo fisico, il polo tecnologico e campus universitario di San Giovanni a Teduccio (che è stata indicata come una best practice anche per l’utilizzo dei fondi comunitari), nel quale far coesistere didattica, ricerca e trasferimento tecnologico. Nel polo sono presenti i laboratori universitari pesanti del CESMA, l’Hub di Banca Intesa, il primo incubatore certificato del Sud (Campania NewSteel), le iniziative del Co-Innovation Hub con CISCO e dell’hub dell’innovazione e dell’imprenditorialità di TIM Wcap Napoli, e tante altre iniziative con sedi e sportelli di aziende a elevato contenuto tecnologico.

L’altro fattore cruciale è stato l’investimento sulla risorsa più importante che abbiamo in questo Paese: i nostri giovani e la loro formazione. E ciò è stato fatto con un’innovazione della didattica, per stare al passo coi tempi, aggiornando notevolmente i percorsi formativi, soprattutto quelli legati alle tecnologie (che in accordo a quanto visto a livello nazionale, e in alcuni casi superandone le medie, ha visto un’impennata di studenti iscritti nelle aree ingegneristiche e tecnologiche). Innovazione nelle modalità di erogazione della didattica e innovazione nella creazione di percorsi formativi, al passo coi tempi e in collaborazione con le aziende, come la IoS Developer Academy (in partnership con Apple), la DIGITA Academy (in partnership con Deloitte Digital), il Salesforce Developer Bootcamp (in partnership con Deloitte Digital e Salesforce), la FS Mobility Academy (in partnership con Ferrovie dello Stato).

Quando il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Lewis Eisenberg, parlando dei rapporti economici tra Stati Uniti e Italia, ha voluto citare tre esempi di importanti investimenti statunitensi in Italia, ha citato nell’ordine la IoS Developer Academy, la DIGITA Academy e l’insediamento Boeing in Puglia. L’ambasciatore americano quindi, scegliendo tre soli esempi per presentarsi all’Italia, non ha avuto dubbi e ha selezionato tre iniziative del Sud, due delle quali a Napoli.

 

Innovazione a Napoli: la Vesuvio Valley

Quello che è successo a Napoli, quindi, è qualcosa che ha dato non solo forma e sostanza alla parola innovazione, ma anche significato al termine di “ecosistema dell’innovazione”: oggi basta visitare il campus di San Giovanni a Teduccio per vedere che cosa significhi nel 2018. Nel luogo dove prima si producevano le conserve di pomodoro della Cirio oggi si fa didattica, ricerca e trasferimento tecnologico senza più orizzonti di spazio e tempo. Sono infatti tantissimi gli studenti stranieri che frequentano le Academy, così come sono tantissime le aziende dei settori più disparati che hanno ripreso a guardare a Napoli come luogo su cui investire grazie al capitale più importante per un’impresa: quello umano.

Oggi Napoli è al centro di una forte attenzione da parte di grandi aziende che, in controtendenza nazionale, vengono al Sud e a Napoli ad aprire sedi per i loro progetti di mercato. Al tessuto di piccole e medie imprese già operanti nel settore dell’ICT si stanno aggiungendo grandi gruppi, spesso internazionali. Come ad esempio la multinazionale Deloitte Digital che – anche in virtù delle attività svolte nell’ambito della DIGITA Academy – ha deciso di aprire una sede in città per progetti su temi tecnologici quali blockchain, robot process automation, cyber security, Internet delle cose, cloud computing, big data e intelligenza artificiale.

Ma non c’è solo Deloitte Digital. C’erano già state Accenture e la fabbrica software di TIM, e sugli stessi temi sia il colosso giapponese NTT Data sia Almaviva Digitaltec (del Gruppo Almaviva) hanno recentissimamente fatto piani di investimenti e crescita in città. Insomma, innovando e investendo si è creato un positivo effettobandwagon” grazie al quale oggi molti player di mercato non vogliono essere fuori da quest’area che molti hanno già definito come la “Vesuvio Valley”, anche a causa delle numerose startup innovative (per il numero delle quali Napoli e la Campania occupano i primi posti nazionali) che stanno nascendo e che stanno provando a beneficiare di questo effetto di “sistema”.

 

L’effetto contagio dell’innovazione

Tutto questo sta facendo succedere tanto altro, ma soprattutto sta favorendo il ritorno di chi, laureatosi a Napoli in un passato più o meno recente, è stato costretto a lasciare la città e la Campania per mancanza di opportunità lavorative di qualità. Oggi molti di loro stanno finalmente tornando, o ci stanno provando. Hanno finalmente la possibilità di poter confrontare offerte lavorative di qualità nella città nella quale vorrebbero tornare a vivere e dalla quale sono dovuti andar via non per scelta, ma per necessità. Perché andare via è una cosa buona, e oggi dovremmo farlo tutti; ma doverlo fare perché costretti è ben altra cosa. Ed è in questo modo che, dopo aver investito per anni sui nostri giovani e averli visti per anni costretti a partire, oggi possiamo anche noi beneficiare di questo investimento, affettivo ed economico, e far sì che anche loro con la loro professionalità e le loro competenze, possano contribuire allo sviluppo del territorio. Territorio che ne ha maledettamente bisogno.

E allora sarà davvero un rinascimento se da un lato questi processi saranno messi a sistema, diventando la normalità e non un hype di questo momento storico, e dall’altro se tutto ciò sarà in grado di contaminare la società e l’economia locale meglio e più rapidamente di come si è provato a fare con altro in passato.

Io non solo lo spero. Io ci credo.

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