Minorenni eppure vere e proprie star del web, con milioni di follower, che guadagnano grazie alle aziende e ai social media. In assenza di una legge ad hoc, in Italia i baby influencer rischiano di avere un’infanzia e uno sviluppo psicofisico rovinato. Con il placet dei genitori
Naufraghi digitali
Che cos’è la digital literacy, e come si sta muovendo l’Europa per l’alfabetizzazione digitale dei suoi cittadini? Le diverse generazioni coinvolte condividono problemi simili.
“Il naufragar m’è dolce in questo mare”, declamava Giacomo Leopardi. Le interpretazioni di questo verso hanno sempre indicato come il naufragare nel mare sia una metafora dello smarrimento, una deriva che può avvenire quando ci si perde nei meandri della mente.
Chissà se la Commissione europea ha considerato questo riferimento umanistico quando ha scelto di rappresentare gli otto livelli di padronanza di ciascuna delle 21 competenze digitali che compongono l’European Digital Competence Framework (quadro europeo delle competenze digitali), noto anche come DigComp, con la metafora dell’Oceano Digitale, nella brillante illustrazione impreziosita da molti riferimenti nautici e marini.
L’Europa della digital literacy: le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente
Come detto, il quadro europeo delle competenze digitali è il principale strumento di analisi e indirizzo con l’obiettivo di migliorare la competenza digitale dei cittadini europei. Oggi essere digitalmente competenti significa che le persone devono avere competenze in tutte le aree del DigComp. Il rapporto chiamato DigComp2.1 presenta l’elenco aggiornato di 21 competenze nelle quali dobbiamo appunto nuotare, surfare, navigare, senza naufragare.
Da circa vent’anni – se consideriamo la diffusione della rete internet e il suo matrimonio con la telefonia cellulare attraverso lo smartphone – o da circa cinquanta – se consideriamo anche la democratizzazione dell’informatica e del suo strumento principale, il personal computer – stiamo convivendo con gli strumenti e i processi dell’acquisizione delle competenze digitali, anche definita come digital literacy. Ove per literacy intendiamo non solo la capacità di apprendimento, ma anche il saper usare con familiarità e in modo responsabile le tecnologie digitali (dispositivi, programmi e ambienti in rete) nella vita quotidiana, nello studio e nel lavoro.
La competenza digitale è una delle otto competenze chiave per l’apprendimento permanente indicate dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del dicembre 2006, ribadite e annualmente aggiornate sino al maggio 2018: “4. La competenza digitale presuppone l’interesse per le tecnologie digitali e il loro utilizzo con dimestichezza e spirito critico e responsabile per apprendere, lavorare e partecipare alla società. Essa comprende l’alfabetizzazione informatica e digitale, la comunicazione e la collaborazione, l’alfabetizzazione mediatica, la creazione di contenuti digitali (inclusa la programmazione), la sicurezza (compreso l’essere a proprio agio nel mondo digitale e possedere competenze relative alla cybersicurezza), le questioni legate alla proprietà intellettuale, la risoluzione di problemi e il pensiero critico (RACCOMANDAZIONE DEL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA 22 maggio 2018 ‘relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente’)”.
Digitale, quali competenze?
L’Agenzia Italiana per il Digitale (AgID) ha dato seguito, delineando nel 2017 la roadmap per l’accrescimento delle competenze digitali dei cittadini italiani. Le competenze da raggiungere sono così suddivise:
- competenze digitali specialistiche, proprie dei professionisti di settori specifici;
- competenze digitali di base, utili a tutti i lavoratori;
- competenze di e-leadership, cioè relative all’utilizzo di tecnologie in qualsiasi organizzazione per fare innovazione digitale nel proprio settore di mercato.
Tutto questo impianto testimonia l’attenzione che le istituzioni stanno ponendo sul tema della digital literacy, soprattutto indirizzando i pensieri ai giovani come destinatari delle nuove competenze e ai contesti di lavoro, uno dei frangenti in cui esercitarle. In entrambi i casi è evidente che il mero utilizzo degli strumenti digitali e delle loro principali applicazioni non implica affatto la capacità di possedere, di esercitare e di accrescere le competenze digitali.
Anzi, a ben vedere la crescente diffusione dei dispositivi smart e la loro facilità di utilizzo e accessibilità rende sempre più superficiale la consapevolezza della complessità della tecnologia, delle competenze necessarie e delle implicazioni trasversali anche patologiche. Se volessimo continuare nella metafora marina, sarebbe come se imparassimo a nuotare sempre meglio, anche inventando nuovi stili, ma senza avere la percezione del dove stiamo nuotando e della profondità dello specchio d’acqua in cui nuotiamo.
Questione di accessibilità. Nativi e nascituri digitali
Focalizzando il ragionamento sui giovani, indipendentemente dalla lettera che li identifica (x, y, z e alfa), questa dinamica ha due effetti.
Il primo è quello dell’accessibilità: si sta abbassando notevolmente l’età del primo accesso. Oggi i bambini con meno di due anni sono la prima generazione di esseri umani che sostituisce il ciuccio con lo smartphone. Accedono con grande dimestichezza a contenuti video, giochi, app più o meno educative. Hanno competenze base, specialistiche e di interazione con l’oggetto pari se non superiori a quelle di un adulto. Sono nel percorso della digital literacy in modo automatico e inconsapevole, stanno sovrapponendo i percorsi di emergent literacy (la conoscenza di un bambino delle capacità di lettura e scrittura prima che imparino a leggere e scrivere le parole) a quelli digitali.
Sempre più, nel corso di questi anni, i bambini diventano lettori e scrittori esperti di testi digitali e non. Le conoscenze, le abilità e le comprensioni dell’alfabetizzazione emergono sempre meno attraverso interazioni socioculturali con strumenti non digitali (ad esempio, libri stampati su carta) e sempre più con strumenti digitali (ad esempio, tablet touch screen), sempre meno stimolati dalla relazione umana e sempre più caratterizzati da un percorso di apprendimento non guidato, fatto da un’esplorazione autonoma seguendo tentativi di interazione e di gesti appresi in modo seriale, automatico, come lo swipe, il click e lo scroll, che sostituiscono il sistema simbolico dell’apprendimento.
La pervasività del digitale per le nuove generazioni
Il secondo effetto è quello della pervasività, ovvero la quota tempo e la dipendenza che le giovani generazioni hanno nei confronti degli strumenti digitali, delle loro applicazioni e dei loro contenuti. Molte sono le statistiche che ci danno uno spettro della “dipendenza”, soprattutto da smartphone, per minuti e ore di utilizzo, per le migliaia di tocchi giornalieri e per le crisi di produttività a seguito di distrazioni. Senza dimenticare le patologie di cyber bullismo e isolamento.
Non voglio addentrarmi in un’area di discussione sulle abitudini e sulle regole di utilizzo. Voglio concentrarmi sull’aspetto più interessante per il tema del lavoro della “banalità della tecnologia”, parafrasando la nota espressione. I nati dal 1995 in poi sono cresciuti con uno smartphone in mano, sono su Instagram da quando andavano alle medie e non hanno ricordi di un mondo senza internet (Twenge, 2018). Il telefono cellulare rappresenta, già per i Millennial nati tra il 1980 e il 1994, un’estensione fisica e cognitiva di persone che, considerando mediamente cinque anni di università, stanno entrando nelle aziende.
Come sostiene il prof. Giuseppe Riva dell’Università Cattolica di Milano (2019, 2014) “è come se le nuove generazioni avessero in più, rispetto alle precedenti, il potere della vista a raggi X di Superman (…) in quanto per loro l’uso della tecnologia è trasparente, diretto e immediato”, sviluppando così una predisposizione all’apprendimento per intuizione e a un modello di relazione senza filtri e senza regolamentazione emotiva, secondo un’incapacità di percepire le reazioni nell’altra persona. Questa minore capacità di regolazione emotiva porta i nativi digitali a prediligere emozioni sperimentate attraverso la tecnologia (…) che possono scegliere quando e dove sperimentare senza dover imparare a controllarle” (Riva, 2019).
Gen Z, tutte le aziende li vogliono, ma poche li trattengono
È innegabile che questa generazione, la Generazione Z, è la prima vera nativa digitale a entrare nel mondo del lavoro, oltre che portatrice di un impegno e un’attenzione per l’uguaglianza, la diversità e l’inclusione superiore rispetto a chi li ha preceduti, e questo anche nel momento in cui valutano nuove opportunità di lavoro. Ciò forse preoccupa le aziende più della loro propensione alla tecnologia, visto che i contesti di lavoro e le dinamiche relazionali interne dovranno evolvere radicalmente.
La Generazione Z non ha mai conosciuto un mondo senza internet. Il suo approccio alla tecnologia, alle informazioni, alle connessioni, come abbiamo visto, è scontato. Di questo le aziende dovranno tenere conto, e dovranno adeguare gli strumenti di comunicazione e di lavoro adottando le piattaforme e le opportunità che permettano a queste nuove risorse di accedere rapidamente alle informazioni e di stabilire connessioni virtuali, non solo mentre sono impegnate in dinamiche di lavoro.
Considerando che una parte di loro è stata e sarà assunta da remoto, che per diversi sarà la principale modalità di lavoro, le aziende dovranno porre molta attenzione ai processi di onboarding, perché sebbene posseggano un’ottima confidenza con l’utilizzo della tecnologia hanno bisogno di un supporto per capire come capitalizzare questa dimestichezza nei processi lavorativi.
Molte generazioni, divari simili
Le aziende assumono sempre più risorse native digitali che presentano una digital literacy professionale non propriamente allineata alle esigenze di competenze tecniche di base, specifiche e di e-leadership, ma ricca degli elementi di dimestichezza, utilizzo e interazione. Questo a testimoniare che il divario di crescita delle competenze non è solo da destinarsi ai programmi di re-skilling o di up-skilling delle risorse “migranti digitali”. Anzi, i nativi e i migranti presentano i medesimi divari e il medesimo percorso di crescita delle competenze digitali, come ben delineato dalle istituzioni europee e dall’AgID. E non è certo grazie all’assunzione di risorse che sono capaci di scrivere un messaggio senza guardare la tastiera, o che con grande facilità sono in grado di girare un video con gli effetti speciali su TikTok, che l’azienda diventerà più digitale e accelererà il processo di digital transformation.
Le aziende oggi sono impegnate a identificare e a gestire le preferenze e i comportamenti di tutte le generazioni che sono presenti al loro interno. L’ingresso della Generazione Z nelle risorse aziendali comporterà anche l’accelerazione del cambiamento e dell’evoluzione delle dinamiche del lavoro stesso. Prima fra tutte la dimestichezza e la presenza assidua proprio della tecnologia in ogni processo aziendale e in tutti i modelli di relazione, sia formali sia informali, incrementando così il dibattito e la decisione sull’etica e la collaborazione tra l’uomo e la tecnologia.
Rappresenta una grande opportunità di innovazione della cultura, delle attitudini e delle dinamiche che caratterizzano un’azienda. In attesa che nelle aziende arrivi la Generazione Alfa, quelli che oggi sanno tutto di YouTube Kids, aspettando che imparino a parlare e, speriamo, anche di nuotare nell’oceano digitale.
Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.
L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.
Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.
Leggi anche
Analizziamo l’obiettivo della neonata PNRR Academy, che formerà i responsabili della sicurezza incaricati di supervisionare i cantieri pubblici: nuove possibilità di verifica sui subappalti, ma architetti e ingegneri esclusi dal ruolo. Parlano l’ingegnere Pierluigi Gianforte e il presidente di Fondazione Inarcassa Franco Fietta.
Diagnosi a distanza, ma non solo. Il digitale sbarca nel mondo della sanità: quali conseguenze per il Servizio sanitario nazionale, e che rischi corrono sanitari e pazienti?