La settimana lavorativa corta approda anche in Italia dopo il successo delle sperimentazioni in Germania e in Francia: “300.000 posti di lavoro in più e produttività in crescita”. L’analisi di Fausto Durante, coordinatore della Consulta Industriale della CGIL e autore del libro “Lavorare meno, vivere meglio”.
“Non pago più l’Iva per pagare l’affitto”: i contratti-trappola dei centri commerciali
In piena crisi i negozi chiudono, ma i commercianti continuano a pagare il canone di locazione, in alcuni casi senza neanche poter rescindere il contratto. E c’è chi si indebita per continuare a farlo, come la storia di Giorgio Serbanescu.
Tanti mesi di chiusura, ma l’affitto si deve pagare lo stesso. È l’amara realtà di molti commercianti, che pur avendo avuto mesi di blocco devono corrispondere comunque la pigione a fine mese. Anche se negli anni i prezzi del mercato immobiliare (e anche quello degli affitti) sono calati, per diversi commercianti tenere fede ai patti è molto difficile. Soprattutto se i loro negozi hanno sede all’interno dei maxi-centri commerciali o degli outlet, con le cui proprietà hanno firmato contratti che non possono essere interrotti prima della loro naturale scadenza.
Oltre al classico canone di locazione si usa la formula dell’affitto del ramo d’azienda, o in alternativa un contratto che impone un prezzo minimo, raggiunto il quale il proprietario (dell’outlet, di solito) chiede una percentuale sui guadagni. Si tratta di accordi pluriennali che difficilmente i negozianti possono interrompere prima del tempo, se non trovando chi è disposto a subentrare rilevandone il negozio.
Chi vi aderisce lo ha fatto negli anni scorsi, attratto dalle possibilità che i centri commerciali offrivano a livello di posizionamento, pubblicità e servizi. Da un lato ci sono gli obblighi di provvedere a rifare e sistemare il negozio ogni tot anni, rimanere aperto in base agli orari del centro stesso e di non poter recedere; dall’altro invece ci sono i vantaggi di godere del passaggio delle migliaia di persone che ogni giorno sfilano nei corridoi di un centro commerciale. Che però nell’ultimo anno sono sempre meno, viste le restrizioni imposte dal COVID-19. Di conseguenza si sono assottigliati anche i guadagni, e onorare i contratti è sempre più difficile.
La pandemia è arrivata quando gli affitti erano in crescita
Secondo il blog specialistico www.soloaffitti.it, dal 2009 al 2019 nei capoluoghi di regione si è registrata una perdita di valore medio dei negozi di circa 200 euro al mese (si è passati da 1.058 euro agli 856).
Si tratta però di un valore frutto di un recupero che già da quattro anni sta coinvolgendo i canoni di locazione. Infatti il canone medio minimo, toccato nel 2015, si attestava a 759 euro con ben un -28,3% di perdita. Il recupero, quindi, è stato sensibile, anche se ancora molta strada si deve fare per tornare alle quotazioni di dieci anni fa.
Chi spera che avvenga il contrario sono i commercianti, che negli ultimi due anni spesso si sono trovati in condizione di non poter pagare l’affitto o di dover rinunciare ad altri pagamenti. Anche per questo tra le misure che il decreto Ristori ha messo in campo c’è la riduzione del credito d’imposta sugli affitti. Si tratta di un’iniziativa che ha l’obiettivo di dare un po’ di respiro a tutte quelle attività che per buona parte del 2020 non hanno mai effettivamente goduto dell’affitto che hanno pagato comunque.
Affitti in calo, ma non basta
Che il settore del commercio sia uno dei più penalizzati dalla pandemia non è certo una novità. Da mesi le associazioni di categoria lanciano appelli alla politica e al governo per chiedere un sostegno, in particolare a quegli esercizi commerciali che vendono “beni essenziali”, laddove ci sono stati i periodi più lunghi in zona rossa.
In un comunicato congiunto tutte le associazioni di categoria hanno sottolineato come “le chiusure nei mesi cruciali dello shopping natalizio di novembre e dicembre nelle zone rosse e quelle dei negozi situati nei centri commerciali, parchi commerciali, factory outlet e assimilati in tutti i giorni festivi e prefestivi di dicembre, su tutto il territorio nazionale, hanno comportato, complessivamente, perdite quantificabili in circa 15 miliardi di euro, considerando tutti i canali distributivi fisici del commercio al dettaglio”.
Oltre ai sostegni per le partite Iva il governo ha proprio voluto aiutare i commercianti dal punto di vista degli affitti. L’ultimo decreto Ristori prevedeva una riduzione del 60% del credito d’imposta per i commercianti che hanno un canone di locazione e del 30% per quanti sono in regime di affitto del ramo d’azienda utilizzato in prevalenza per i negozi all’interno dei grandi centri commerciali, con i quali non è mai semplice rescindere un contratto.
«Mi sono indebitato col fisco per pagare l’affitto»
La storia di Giorgio Serbanescu, un quarantenne di Cantù che aveva un negozio di vestiti all’interno di un centro della grande distribuzione (la Bennet) è indicativa.
«Avevo un negozio di abbigliamento a Cantù in provincia di Como – racconta – dal dicembre 2011. Lo gestivo con mia madre e altre quattro o cinque dipendenti, quando è aperto il mega centro commerciale di Arese, che è tra i più grandi d’Europa. La mia società aveva un contratto di affitto di ramo d’azienda, come si fa nei centri commerciali. Permette al locatario di avere maggiore potere contrattuale.»
Nel gennaio 2019 Serbanescu, vedendo le difficoltà del settore, chiede una riduzione del canone d’affitto. Con l’arrivo della pandemia la sua società (che fa parte di un franchising) vede aggravarsi la propria posizione economica. «Nell’aprile 2020 – dice – ho mandato la mia disdetta per cause economiche, ma mi è stato risposto che non era possibile farlo fino al 2023. Sono stato così costretto a prendere una decisione che non avrei mai voluto, cioè smettere di pagare l’Iva. L’alternativa sarebbe stata corrispondere quasi 9.000 euro al mese, per un’azienda passata da un fatturato di oltre un milione di euro a 700.000.»
Il margine si assottiglia sempre di più e decide così di chiudere il negozio, indebitandosi, perché la società alla quale fa capo il centro commerciale escute una fideiussione che non è coperta, fino a quando non trova qualcuno che subentri nel luglio di quell’anno. Il problema è che i debiti con il fisco permangono. Giorgio rimane senza lavoro, negli ultimi mesi è riuscito solo a trovare un impiego per un mese come autista, ma le sue ex dipendenti sono riuscite a trovare nuove occupazioni.
Per far fronte ai debiti ha chiesto un prestito personale, che non gli è stato concesso anche perché è disoccupato. Paradossalmente, se ci fosse stata la pandemia avrebbe ricevuto una decurtazione dell’affitto e avrebbe potuto ottenere anche la cassa integrazione, che essendo la sua ditta sotto i 15 dipendenti all’epoca gli fu rifiutata.
Non è facile mettere la propria vita in piazza, ma alcuni mesi fa Giorgio aveva persino lanciato un appello al web per una raccolta fondi.
Affitto del ramo d’azienda: il far west dei contratti
La formula ai più non dice molto, ma è una delle più diffuse nei centri commerciali e negli outlet. Si tratta di un particolare tipo di contratto che viene utilizzato per l’affitto di spazi, ma non solo. La legge che lo disciplina lascia la più ampia libertà di stabilire gli accordi tra le parti. Quindi è possibile anche che non sia prevista la possibilità di recedere dal contratto con la normale disdetta, che va comunicata con sei mesi d’anticipo come accade nei normali contratti di affitto commerciale.
Viene applicato di solito nel caso in cui l’immobile (in questo caso il negozio all’interno del centro commerciale) rappresenta esso stesso parte integrante dell’attività, cioè il commercio. La disciplina giuridica, però, è meno stringente di quella che si applica per i normali contratti di locazione, e spesso può riservare delle sorprese a chi si avvicina, attratto dai vantaggi dati dall’avere un negozio in un centro commerciale.
Photo credits: www.ilnotiziario.net
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