Giuseppe Giordano soffre di mal di terra. Quando cammina sull’asfalto sente che il fondo è troppo fermo, immobile. I palazzi, le strade, i reticoli artificiali. Per lui esiste il di là e il di qua. Lì la Croazia, qui l’Italia. In mezzo il mare Adriatico. Giuseppe Giordano è il comandante dell’Orizzonte, un motopeschereccio della flotta […]
Per competere ci vuole B.R.A.I.N.
È solo un’impressione o la nostra Italia sta pian piano perdendo la capacità del “saper fare” e, contestualmente a ciò, sta pian piano logorando la propria capacità di generare valore? Eppure siamo sempre noi quel Paese che nella creatività, intesa a tutto tondo, è stato un punto di riferimento a livello mondiale. Basti pensare – con […]
È solo un’impressione o la nostra Italia sta pian piano perdendo la capacità del “saper fare” e, contestualmente a ciò, sta pian piano logorando la propria capacità di generare valore? Eppure siamo sempre noi quel Paese che nella creatività, intesa a tutto tondo, è stato un punto di riferimento a livello mondiale. Basti pensare – con un po’ di nostalgia – alla connessione tra design e impresa negli anni ’50 e ’60, e a nomi come Bruno Munari, Vico Magistretti, Achille Castiglioni, Afra e Tobia Scarpa, Enzo Mari, magari in relazione a imprenditori come Adriano Olivetti.
Certo, era un altro mondo ed un altro contesto. Erano anni molto diversi, in cui i mercati esistevano per il semplice fatto che prima non c’erano. Oggi tutto è diverso. Ed è “ulteriormente diverso” dopo la grande cesura del 2009, che ha coinvolto e sconvolto ogni ambito e ogni Paese. Se guardiamo le classifiche relative alla competitività, un recente studio dell’IMD – International Institute for Management Development (IMD) di Losanna posiziona al primo posto gli Stati Uniti, seguiti dalla Cina, al decimo la Germania e al 38° l’Italia, seppur in recupero rispetto al 2014.
Ma cosa significa davvero essere competitivi? Significa forse possedere un solido sistema di imprese? Avere un network finanziario ricco? Poggiare su infrastrutture efficienti? Anche, ma non solo. Alla base di tutto serve la capacità di “generare valore”, che passa – inevitabilmente – dalla capacità di “saper fare”. E quindi di innovare, davvero. Inserendo in modo continuo e progressivo, all’interno dei propri prodotti, contenuti a sempre maggiore valore aggiunto.
Con questo non voglio riferirmi alla mera Ricerca e Innovazione. Ho in mente piuttosto la “Vera Innovazione”, che è decisamente altro. E che dovrebbe essere cosa a sé. È qui che risiede a mio parere un vizio di forma organizzativa, che riguarda probabilmente diverse delle nostre imprese.
In un’azienda industriale, tipicamente, ogni prodotto passa per la funzione R&D Engineering. Un classico binario, su cui vengono convogliate diverse priorità: upgrade delle gamme esistenti, miglioramenti su singoli componenti, design di nuove soluzioni, e via dicendo. E dunque la buona parte del tempo vede l’Ingegneria dedicata allo sviluppo e al miglioramento dell’esistente. Non alla creazione di qualcosa veramente nuovo. All’interno del Rapporto NordEst 2015 si ripercorrono gli ultimi decenni di questa area d’Italia, riconosciuta fin dagli anni ’70 quale “locomotiva” trainante di molta dell’economia della penisola. Lungo la propria analisi Stefano Micelli, docente di Economia delle Imprese a Ca’ Foscari, fissa alcuni punti chiave di “Un nuovo modo di competere”, ovvero: Varietà e personalizzazione, Cultura e territorio come valori, Una nuova combinazione fra analogico e digitale.
Da questo ragionamento è evidente che la competitività passa attraverso un reale cambio di marcia, che consenta di fare un passo in avanti superando le logiche del mero miglioramento continuo dei prodotti esistenti. È necessaria un’organizzazione adeguata che consenta di aprire la mente e di guardare oltre, capitalizzando in modo opportuno le intelligenze. Per dirla con un acronimo, che spesso aiuta a tenere a mente i concetti, ci vuole B.R.A.I.N. = Be Reactive Augmenting Innovation Now.
Come dimostrano i felici risultati di alcune tra le più recenti innovazioni l’unico modo di fare un reale passo in avanti è quello di contaminare le competenze, ma passando dal modo congiunturale (con tradizionali meeting e brain storming) a quello strutturale (con organizzazioni dedicate).
Si pensi ad esempio al progetto Google Glass Luxottica, che unisce design, tradizione e tecnologia. O ancora allo stabilimento di Cameri di Avio Aero, tra i più grandi al mondo concepito per la produzione con l’additive manufacturing (altrove definita “stampa 3D”) di componenti e sistemi per l’aeronautica. Basta poi andare per un attimo oltreoceano e vedere quello che sta avvenendo all’interno di uno degli ambiti più tradizionali, quello dell’agricoltura. Qui il colosso John Deere va ben oltre la progettazione di macchine agricole e punta decisamente verso il dialogo tra uomo e veicolo, con una visione nitida sullo smart farming, attraverso la piattaforma digitale Farmsight, ben consapevole di vivere in pieno nell’era dell’Internet delle cose.
Ma come si può arrivare a questi – e ad altri – risultati simili? Solo con la contaminazione delle menti e delle intelligenze, quindi creando una struttura dedicata composta da persone provenienti da ruoli ed ambiti completamente diversi e complementari: dalla produzione alla finanza, dalla comunicazione alle vendite, all’ingegneria.
Ciò potrà consentire di partire davvero da punti di vista differenti da quelli ovvi e di arrivare a definire concetti nuovi e significativi. Solo in tal modo sarà possibile valutare, ad esempio, il ciclo di vita esteso dei prodotti, oppure di andare oltre la logica costo/prezzo mirando al giusto posizionamento in base alla domanda, oppure ancora di inserire il valore richiesto dal mercato e non da logiche interne al produttore.
In caso contrario continueremo ad avere solo occhiali più belli e più leggeri, ma non intelligenti. E continueremo a produrre assemblando oggetti, ma dal valore sempre inferiore ed ormai ridotti a commodity. E infine continueremo a guidare i nostri veicoli, senza dialogare con la tecnologia che li compone.
Ma il futuro è altro, ed è là che è necessario puntare. Proprio per questo ci vuole brain.
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