Posso permettermi un praticante?

La domanda è volutamente provocatoria. Quello del praticantato negli studi professionali è di fatto un fenomeno percepito come uno dei modi più semplici per procurarsi manodopera a bassissimo costo. Fino a pochi anni fa, addirittura a costo zero. Il periodo di praticantato, obbligatorio per tutti coloro che aspirano ad accedere a una delle cosiddette professioni […]

La domanda è volutamente provocatoria. Quello del praticantato negli studi professionali è di fatto un fenomeno percepito come uno dei modi più semplici per procurarsi manodopera a bassissimo costo. Fino a pochi anni fa, addirittura a costo zero.

Il periodo di praticantato, obbligatorio per tutti coloro che aspirano ad accedere a una delle cosiddette professioni intellettuali, è il requisito essenziale per poter sostenere l’Esame di Stato, superato il quale si potrà entrare a far parte del mondo delle libere professioni. Scelta che comporta l’iscrizione al relativo Ordine, con gli obblighi che ne conseguono: l’apertura della Partita IVA, il pagamento della quota annuale, la sottoscrizione della polizza assicurativa, il pagamento dei contributi alla cassa di previdenza di categoria (almeno per la quota minima), la formazione continua, l’aggiornamento.  Costi certi, pagamenti obbligatori, scadenze fisse.

Di lavoro, di guadagni, di successo, se ne parlerà in seguito. C’è tempo. Così, almeno, si immagina; l’importante è aver appreso un mestiere.

La realtà è ben diversa.

La durata del praticantato

È stato veramente utile quel periodo di praticantato? È stata davvero una pratica professionalizzante? C’è stato abbastanza tempo per formarsi al lavoro? Si può gestire uno studio in totale autonomia? La risposta dipende dalla professione scelta.

Con gli ultimi provvedimenti legislativi, il periodo di pratica è stato ridotto a 18 mesi per gran parte delle professioni intellettuali (commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro).

Un tempo troppo breve per imparare veramente un mestiere, che richiede non solo competenze tecniche ma anche capacità relazionali e organizzative. Non basta più sapere cosa fare, come farlo, dove andare, a chi rivolgersi, classiche domande a cui trovare la risposta più adatta in base al contesto e alle circostanze. È necessario sapersi confrontare con un mondo del lavoro sempre più digitalizzato che impone la conoscenza e l’uso delle piattaforme telematiche.

Nelle professioni contabili, poi (commercialista, consulente del lavoro, tributarista), il nuovo periodo di pratica non consente neanche di completare tutti gli adempimenti di ordinaria amministrazione, che nel nostro Paese hanno inizio il 1° gennaio e terminano con la presentazione delle dichiarazioni annuali, il 30 settembre dell’anno successivo. Una durata di 21 mesi che supera quella della pratica, e rende difficile garantire al praticante una formazione adeguata, considerato anche che i professionisti devono far fronte ai molteplici adempimenti richiesti dal legislatore, con scadenze perentorie che rendono l’agenda fitta di impegni ravvicinati e spesso sovrapposti.

Lavoro in cambio di formazione: la questione dei compensi

Altro aspetto delicato del praticantato è la natura del rapporto. Tra praticante e professionista non si instaura un rapporto di lavoro: la causa giuridica del contratto è lo scambio tra la formazione, impartita dal professionista, e l’attività che il praticante svolge ai fini dell’apprendimento.

Fino a pochi anni fa questo periodo formativo era gratuito, per tutti i praticanti di tutte le professioni. Un eventuale compenso, anche un semplice rimborso spese, era rimesso esclusivamente alla volontà del professionista o dominus. Eppure i praticanti, dopo un breve periodo iniziale, venivano (e vengono) adibiti allo svolgimento di attività lavorativa vera e propria. Non solo, ma in molti casi le ore trascorse in studio vanno ben oltre le venti settimanali previste per la pratica. Soprattutto nei periodi in cui sono concentrate le scadenze dei principali adempimenti, i praticanti vengono coinvolti nelle attività di studio anche a tempo pieno, sempre nella stessa logica di scambio formazione-lavoro.

Attualmente alcuni ordini professionali, come ad esempio quello dei Consulenti del Lavoro, stabiliscono l’obbligo in capo al professionista di corrispondere al praticante un “compenso forfettario, anche a titolo di rimborso spese” non inferiore a 500 euro mensili, ma i primi sei mesi restano gratuiti. A queste condizioni è innegabile il fatto che tanti professionisti, approfittando dell’avvicendamento dei praticanti, abbiano tratto considerevoli benefici dalla loro attività lavorativa gratuita.

Non deve poi essere trascurato il fatto che il praticantato non riguarda solo i giovani. Ci sono sempre più casi di praticanti oltre i 40 anni, spesso fuoriusciti dal mondo del lavoro non per loro scelta ma per crisi aziendali e conseguenti licenziamenti. Donne e uomini che tentano un reinserimento, come lavoratori autonomi, anche per la maggiore flessibilità che possono proporre ai potenziali datori di lavoro.

Assumere un praticante è solo questione di convenienza?

Decidere di aprire il proprio studio a un praticante non richiede solo una valutazione di tipo economico, ma anche e soprattutto onestà intellettuale. Il dominus deve valutare se sarà in grado di rispettare il patto formativo tra lui e il praticante, chiedendosi se avrà il tempo, le capacità e il metodo per trasmettere con efficacia le competenze necessarie al futuro professionista. È un compito arduo, difficile da svolgere e assai complesso da realizzare.

Ma non basta. Terminata la pratica e conseguita l’abilitazione, il dominus dovrebbe continuare a svolgere il ruolo di mentore, per sostenere l’inserimento del neo-professionista nel mondo del lavoro, sia che ciò avvenga come dipendente, associato, professionista singolo.

In questo contesto, le prospettive per i praticanti non sono un granché.

Solo a chi ha la fortuna di incontrare un professionista particolarmente avveduto potrà essere proposto un vero e proprio contratto di lavoro part-time anche in costanza di praticantato, cosa legalmente ammessa. Avranno così la possibilità di colmare, in un colpo solo, il gap della mancanza di tempo per la formazione e la pochezza o addirittura assenza del rimborso spese minimo, con la concreta prospettiva di consolidare la propria posizione, una volta ottenuta l’abilitazione professionale.

Forse gli unici a potersi davvero permettere un praticante sono i grandi studi professionali, soprattutto in questo periodo di crisi. Per tutti gli altri il rischio è di trovarsi su una strada in salita, dove dovranno dedicarsi ad attività spesso banali e ripetitive e accontentarsi anche del minimo rimborso spese, se e quando previsto. Con l’ulteriore prospettiva, alla fine del percorso, di vedersi sostituiti dal nuovo praticante, fresco di studi.

Avanti un altro. Per il resto, le faremo sapere.

(Photo credits: https://unsplash.com/@helloquence)

CONDIVIDI

Leggi anche

Il Jobs Act ha ucciso il mobbing?

Nel nostro Paese se ne inizia a parlare negli anni Novanta, con circa un ventennio di ritardo rispetto a Canada ed Europa. Il mobbing, termine usato nell’opinione comune per designare comportamenti discriminatori o vessatori sul luogo di lavoro, è un fenomeno molto dibattuto, soprattutto in passato, quanto scarsamente o per nulla disciplinato: in Italia non […]

Internazionalizzare un’Italia che non parla inglese

È nella ricerca di un nuovo gioco di forze tra pubblico e privato che l’Italia potrebbe mettersi in corsa sui mercati internazionali. Serve però essere onesti e guardare ad alcuni conflitti culturali interni, invisibili agli occhi della politica e dell’informazione. L’Italia è un paese che non parla inglese, basterebbe già solo questo per comprendere a […]