Turn over esasperato e saccheggio dei somministrati: analizziamo le ragioni del primo sciopero nazionale dei lavoratori Amazon del 22 marzo, con testimonianze di ex dipendenti e sindacati.
“Prendersi cura di chi cura”: educatori in sciopero nazionale
13 novembre 2020, gli educatori incrociano le braccia: “Noi sottopagati e a cottimo, nelle coop logiche clientelari. Vogliamo l’internalizzazione”. E nel frattempo gli utenti subiscono disservizi.
Salute, salario e dignità da rispettare al cento per cento, senza più scuse o attese. Una richiesta che tuona con voce capillare quella che funge da titolo dello sciopero nazionale degli operatori e delle operatrici sociali previsto per venerdì 13 novembre, con presidi in numerose città italiane, e a Montecitorio. Lo sciopero è indetto da SGB Sindacato Generale di Base, ADL COBAS sindacato, SIAL COBAS, COBAS Lavoro privato e promosso da una nutrita rete di realtà e collettivi di varie regioni italiane.
L’iniziativa è il risultato di un vaso ormai traboccato da tempo sul fronte di una situazione che per gli educatori e le educatrici è diventata insostenibile. Pagati 9 euro lordi all’ora e a cottimo, con incarichi a singhiozzo, preda di un sistema di servizi esternalizzati attraverso appalti al ribasso che ledono dignità, salario e lo stesso servizio educativo.
La pandemia da coronavirus, e le numerose strumentalizzazioni che l’hanno attanagliata, ha dato il colpo finale a una dinamica intrisa di fragilità da anni. Durante il periodo del contenimento numerosi operatori del settore si sono trovati con stipendi dimezzati o addirittura pari a zero. Di conseguenza è stata tranciata una parte di servizi: a farne le spese bambini e ragazzi con disabilità e le loro famiglie, oltre a un diritto fondamentale come quello dell’inclusione.
Le principali responsabilità vengono attribuite al sistema dell’esternalizzazione dei servizi sociali in mano alle cooperative. Sul podio dell’attenzione dello sciopero svetta una parola in particolare: internalizzazione. Operatrici e operatori sociali chiedono, senza mezze misure, di essere assunti direttamente dagli enti pubblici, così da scardinare le derive tossiche di mancate tutele. Questo determinerebbe il requiem delle cooperative e una rivoluzione copernicana del settore. Parliamo di un disagio che non conosce confini, e proprio per questo abbiamo voluto interpellare tre voci del settore appartenenti a zone diverse d’Italia.
Da Roma con un pugno di sabbia in mano: “Il consiglio comunale non ha votato la delibera per l’internalizzazione”
“Non possiamo più andare avanti così, la situazione è troppo critica e calpesta totalmente la nostra dignità”, commenta Luisa Callà, assistente educatrice culturale e referente del comitato A.E.C. di Roma, tra i promotori dello sciopero.
A scottare sono soprattutto la delusione e l’amarezza nei confronti dell’esito subìto dalla delibera per l’internalizzazione presentata dalla realtà stessa. Il 16 ottobre scorso l’attuale maggioranza del consiglio del Comune di Roma si è infatti astenuta dal votare tale delibera.
“Non si sono voluti prendere la responsabilità e questo è vergognoso. La politica, a livello sia locale che nazionale, non può più lavarsene le mani: il problema è troppo grave. Per la delibera avevamo raccolto 12.000 firme. Ci sono educatori senza stipendio o pagati una miseria, se la scuola chiude noi restiamo senza occupazione. Diversi operatori stanno abbandonando il settore per fare un altro lavoro. Tutto questo dopo anni di formazione, aggiornamenti e anche tanti sacrifici”. E sottolinea: “Va compresa l’importanza della nostra figura professionale perché lavoriamo quotidianamente per l’inclusione di bambini e ragazzi con disabilità”.
Voi educatori chiedete di essere assunti direttamente dagli enti pubblici. Come vi spiegate questo atteggiamento di delega da parte di essi, visto che questo passaggio per loro comporterebbe probabilmente un risparmio sul fronte economico?
Se pensiamo che i comuni pagano le cooperative 20 o anche 25 euro netti all’ora mentre in tasca nostra ne arrivano 7 circa, sì, sarebbe un risparmio. Il problema è che temono la responsabilità: la gestione diretta del servizio preferiscono delegarla ad altri.
Restando sulla questione dei pagamenti, la differenza tra ciò che viene pagato dai comuni e quello che intascate voi educatori come viene utilizzata dalle cooperative?
Per sostenere le spese di segreteria e gestione, così dicono, ma non c’è mai chiarezza. E non sappiamo che fine abbiano fatto i fondi messi a bilancio dal Comune di Roma per le attività educative!
Che cosa vi hanno risposto?
Che li hanno utilizzati per altri servizi, ma non ci dicono quali. Vorremmo saperlo, noi e magari anche i cittadini, visto che si tratta di soldi pubblici.
Educatori in Lombardia: tagli alle risorse e disagi con effetto domino
Ci spostiamo in Lombardia dove ci confrontiamo con Matteo Maserati, educatore, che ci conferma come le lacune del sistema attanaglino senza sconti anche il Nord Italia. Maserati è delegato sindacale di SIAL COBAS e punta subito il dito contro gli appalti al ribasso, definendola una problematica strutturale che colpisce con effetto domino nel periodo della pandemia: “Sono stati operati dei forti tagli sulle risorse, e quindi sulle possibili prestazioni da erogare”, spiega.
Maserati denuncia anche la questione della mancata tutela della salute di molti operatori a causa della carenza dei dispositivi di prevenzione a loro forniti. “Le condizioni di lavoro determinano anche la qualità del servizio”, riflette, evidenziando quanto il problema possa poi minare l’alleanza tra le figure degli educatori e le famiglie che ricevono il servizio stesso.
Da non dimenticare infine la rivendicazione degli articoli 47 e 48 del decreto Cura Italia: “La dicitura vaga è stata strumentalizzata dagli enti pubblici per sospendere o pagare parzialmente i fondi messi a bilancio per le nostre attività”. E ancora: “Il divario tra i servizi gestiti a livello pubblico e quelli esternalizzati è estremo, e il caso lampante è il diverso trattamento ricevuto dalle figure degli insegnanti rispetto a quelle degli educatori fin dall’inizio del contenimento”.
Emilia-Romagna all’avanguardia nei servizi sociali? La realtà mostra il contrario
L’Emilia-Romagna è considerata da sempre una tra le regioni più all’avanguardia sul fronte dei servizi cooperativi e sociali ma i fatti sgretolano senza sconti quello che possiamo definire ormai un luogo comune.
A darci la sua testimonianza è Rosella Chirizzi, educatrice attiva nella manifestazione del 13: “Ci tengo a dire che questo sciopero ha uno slogan comune perché il problema riguarda tutta Italia. Anche sul territorio bolognese siamo pagati a cottimo, e le cooperative hanno l’atteggiamento di multinazionali che fanno profitto su servizi riguardanti il welfare, gli immigrati, i disabili: una vera contraddizione”.
Riguardo alla gestione dei soldi erogati dagli enti pubblici e ricevuti dalle cooperative afferma: “Vengono per lo più usati per sostenere l’apparato amministrativo di queste ultime, spesso caratterizzate da un bacino clientelare fatto di parenti e amici di chi le gestisce”. Non mancano casi emblematici: “A Bologna è stato vinto un appalto di ben 64 milioni di euro da utilizzare nell’arco di cinque anni per servizi di assistenza scolastica. Tanti soldi, ma la paga degli educatori rimane la stessa. A vincerlo sono state due grosse cooperative del Piemonte e della Lombardia”.
Non dimentichiamo infine un tema spinoso che divide l’opinione pubblica e che rappresenta una ferita aperta. I mesi scorsi le famiglie che hanno figli con disabilità hanno per la maggior parte dei casi denunciato, con tanto di petizioni, come spesso gli interventi didattici e educativi a distanza risultassero inutili e addirittura controproducenti per la loro situazione. Con SenzaFiltro abbiamo raccolto numerose testimonianze, e in quanto giornalisti non possiamo glissare su questioni reali e scomode facendo finta che non ci siano.
Rosella, al di là dei fondi messi a bilancio, qualora la situazione si ripetesse, come giustificare l’utilizzo futuro di fondi pubblici nel caso di servizi non attivati o considerati inutili?
Noi siamo lavoratori e dobbiamo essere pagati lo stesso, anche se il servizio non è attivo.
E che cosa si può rispondere ai comuni che devono comunque rendere conto agli utenti lasciati senza servizi?
Mi dissocio da eventuali lamentele. Se i servizi non vengono attivati è colpa degli enti erogatori che non li hanno riorganizzati, non di certo nostra!
Per dovere di cronaca, specifichiamo che diversi educatori i mesi scorsi si sono rifiutati di prestare servizio di assistenza scolastica, cosa diversa da quella domiciliare, nelle case degli utenti definite da loro stessi non sicure dal punto di vista della tutela della salute. Altri educatori invece hanno caldeggiato per primi questa soluzione, confermando come esistano diverse reazioni all’interno del settore stesso. Rosella conclude:
Quello che si dovrebbe fare è mettere a disposizione spazi pubblici già sanificati, tipo scuole o aree comunali, in cui fare attività in presenza. I dirigenti scolastici però rifiutano questa soluzione per non prendersi la responsabilità. In ogni caso, l’errore è stato mettere le famiglie contro gli educatori.
In copertina lo sciopero nazionale degli educatori del 13 novembre 2020, a Roma.
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