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Questioni di genere: le aziende si formano
Il lockdown ha cambiato il modo in cui le aziende trattano le questioni di genere. forse. Cosa succede quando quel tipo di formazione viene svolta da un uomo?
(Attenzione: in questo articolo si usa la lettera ə.)
Serviva il COVID-19 per parlare di genere al lavoro?
La domanda vi potrà sembrare strana, ma chi lavora facendo formazione sulle questioni di genere è statə testimone di qualcosa di molto particolare in questi ultimi mesi. Sono impegnato da circa dieci anni nella divulgazione di argomenti riguardo le questioni di genere, e da quasi altrettanti mi occupo di formazione su quegli argomenti in aziende, scuole, università, associazioni private e pubbliche. La risposta alla domanda in esordio va articolata secondo alcuni punti non scontati.
Genere sul lavoro, quando e come se ne parla?
La prima e immediata risposta è “no”: il genere è un tema che ha raggiunto i luoghi di lavoro da molto prima del 2019, e da diversi anni in Italia molte aziende hanno compreso che non si può più evitare un argomento che entra – anzi, fa parte da molto – nell’ambiente lavorativo attraverso diverse modalità, casi, esperienze.
Va constatato infatti che le persone specializzate nel fare formazione vengono “chiamate” ancora soprattutto per due situazioni: quando in azienda c’è stato un caso di molestia, o peggio di violenza che non è stato possibile nascondere nei fatti o nelle conseguenze, oppure quando la struttura centrale dell’azienda, magari situata all’estero, “pretende” che anche i e le dipendenti delle filiali (o i e le dipendenti italianə) siano formatə sulle questioni di genere, sulle leggi in vigore a riguardo, sui regolamenti interni da adottare.
In entrambi i casi l’aneddotica a disposizione è già molto vasta: di solito non solo la presenza di una formazione di questo tipo divide l’uditorio – che sia di dipendenti di grado basso come di dirigenti – in due netti schieramenti, gli entusiasti e gli scettici; sovente questo tipo di formazione è accolto come una sgradevole necessità dettata dai tempi, una specie di “moda” per intenderci, e non per quello che dovrebbe essere: l’occasione per rendere il luogo di lavoro uno spazio meno opprimente per tutti e tutte.
La questione di genere dopo il lockdown: che cosa è cambiato nelle aziende?
È vero però che alla domanda in esordio devo rispondere anche di sì: in effetti dal momento del lockdown di marzo 2020 qualcosa è decisamente cambiato, particolarmente in due aspetti del mio lavoro.
In primo luogo, essere costrette a fare formazione a distanza attraverso strumenti informatici ha fatto scoprire alle aziende che si possono abbattere sensibilmente i costi della formazione stessa. Quando hanno compreso che non mi devono pagare necessariamente trasporto, vitto e alloggio, diverse aziende grandi e piccole hanno incluso la formazione di genere tra le scelte educative per personale e dirigenti.
Non mi illudo che ci sia stata una “illuminazione” sulla necessità di questi argomenti: capisco molto bene che i vantaggi di un ambiente meno sessista e meno oppressivo possono essere compresi solo dopo che certi strumenti cominciano a funzionare, solo dopo che una mentalità più paritaria ha reso evidenti i vantaggi di gerarchie e rapporti di potere più sensibili; se è una banale scontistica a rendere gli argomenti di genere appetibili, non mi formalizzo. È ancora troppo importante diffonderli il più possibile per mettersi a fare questioni di principio.
In più, lo stesso ambiente della formazione a distanza ha facilitato l’emergere di casi spiacevoli, domande imbarazzanti, racconti di molestie, episodi di violenza che probabilmente la classica lezione frontale, o comunque la riunione in presenza, avrebbe impedito. Non è possibile ormai negare che la comunicazione a distanza renda certamente più complicata, se non impossibile, l’empatia tra chi parla e chi ascolta; ma è anche vero, com’è noto anche da tristi fenomeni tipici dei social network, che quella mancanza della “presenza fisica” solleva da molti imbarazzi che caratterizzano la comunicazione dal vivo.
Non può essere un caso che io abbia dovuto adeguare i tempi dei miei moduli formativi, lasciando molto più spazio ai racconti soggettivi nella formazione a distanza; la percezione che questo strumento renda più facile la comunicazione proprio delle situazioni oppressive, imbarazzanti, abusanti quando non violente, mi ha costretto a rivedere la scansione dei miei moduli formativi, lasciando più tempo all’analisi del vissuto soggettivo per farne poi argomento di discussione critica e applicazione delle strategie più opportune. Proprio quello che mi costava notevoli sforzi, spesso dai risultati frustranti, nella formazione fatta in presenza.
L’importanza di essere uomo (e parlare ad altri uomini di genere sul lavoro)
Inoltre mi devo sempre ricordare quanto in tutto ciò conti il mio privilegio di fare questo lavoro da uomo etero. Proprio a causa di quei pregiudizi che chi studia le questioni di genere è chiamatə a combattere, per molte aziende è una “scoperta” che ci siano uomini a occuparsi di queste tematiche.
A questa scoperta si aggiunge la constatazione che non si tratta affatto di una formazione che insegni i modi in cui “non offendere le donne” o i modi in cui “non si devono molestare le donne”; queste sono cose già insegnate da tempo dalle donne ad altre donne, con molta efficacia, non c’è bisogno di ripeterle. Quello che manca ancora nelle aziende è comprendere due cose:
- che la responsabilità, non la colpa, di questi comportamenti è culturalmente maschile, e che quindi sia più che giusto che sia un uomo a raccontare agli altri uomini quanto siano vettori di azioni e linguaggi oppressivi e violenti; da una donna, molto probabilmente, non accetterebbero questo discorso, o lo riterrebbero opportunistico, forzato, parziale, fazioso, per cui tante mie colleghe trovano difficoltà ulteriori a fare questa formazione;
- che l’ambiente di lavoro è già una gerarchia fatta di compiti precisi, capacità documentabili, rapporti formalizzati, quindi qualsiasi altra ingerenza da parte di forme di potere non gradite – sessismo, razzismo, abilismo – fa solo male ai rapporti di lavoro, cioè all’azienda stessa.
Se anche non vogliamo “diventare tutti femministi”, come suggerisce in un prezioso libretto Chimamanda Ngozi Adichie, perlomeno facciamolo per essere più liberə, meno frustratə e – diciamolo anche con un po’ di cinismo aziendale – più produttivə.
Photo by Dainis Graveris on SexualAlpha
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