Ritardi al lavoro. Cattive abitudini

L’imprevisto è il fattore X che rompe gli schemi e le abitudini quotidiane anche negli ambienti professionali. Può accadere che, si arrivi in ritardo al lavoro per qualsiasi motivo più o meno grave. Quando il ritardo è episodico (4-5 volte l’anno) può essere tollerato. Nel momento in cui diventa una condizione cronica si entra in […]

L’imprevisto è il fattore X che rompe gli schemi e le abitudini quotidiane anche negli ambienti professionali. Può accadere che, si arrivi in ritardo al lavoro per qualsiasi motivo più o meno grave. Quando il ritardo è episodico (4-5 volte l’anno) può essere tollerato.

Nel momento in cui diventa una condizione cronica si entra in un retaggio ricco di cattive abitudini che alimentano la convinzione che tutto sia lecito.

Ritardi e mancata flessibilità

Secondo il sondaggio 2016 di CareerBuilder, effettuato su un campione di 2.600 responsabili delle risorse umane e 3.400 lavoratori, provenienti dal settore industriale, il 29% dei lavoratori (1 su 4) dichiara di recarsi  al lavoro in ritardo almeno una volta al mese. Ben il 16% ammette di non rispettare l’orario di ingresso con cadenza settimanale. Tra le motivazioni più ricorrenti vi è il traffico (49%), il non aver sentito la sveglia (32%), il cattivo tempo (26%) e l’eccessiva stanchezza (25%).

“Ci sono ambienti in cui il ritardo è maggiormente sanzionato, soprattutto nel settore dei servizi. Ed altri in cui c’è una maggiore flessibilità degli orari di lavoro, per esempio nelle strutture formative, scuole ed università” ammette Romano Benini, docente di Sociologia del made in Italy e di Italian fashion industries all’Università La Sapienza di Roma.

Quando è il capo a non dare il buon esempio

Dalle semplici “strigliate” alle lettere di richiamo, fino a provvedimenti disciplinari che possono arrivare alla sospensione e al licenziamento. Un rituale scadenzato da specifici tempi e modi, durante i quali il lavoratore dovrà motivare le proprie negligenze. Il datore prenderà atto della controversia e deciderà se esistono i presupposti per continuare il rapporto di lavoro. A volte  sono gli stessi datori che non danno il buon esempio. Soprattutto se a loro volta non sono controllati da supervisori o responsabili. “Il capo non ha un orario di lavoro rigido. L’organizzazione del tempo di chi ricopre ruoli in una posizione verticistica è sempre molto variabile. Nei piccoli enti pubblici i dirigenti lavorano molto e tengono a far rispettare gli orari. Nelle grandi amministrazioni ciò accade meno frequentemente” dichiara Benini.

La responsabilità è di chi non controlla

Non è tanto la quantità delle ore o l’ossequio degli orari quanto la qualità della performance e l’organizzazione del lavoro che fa la differenza” racconta il sociologo. Una posizione contro corrente rispetto al retaggio culturale che considera la puntualità un fattore importante nella valutazione dell’efficienza. Di contro, la convinzione stereotipata che il posto di lavoro, soprattutto nel pubblico impiego, sia un diritto acquisito. Una tendenza che incide sull’appiattimento dell’interesse a svolgere nel modo migliore le proprie funzioni. “Quando il merito e la qualità della performance non è riconosciuta si legittima anche la tendenza a non essere puntuali” spiega il sociologo.  “La responsabilità è di chi, ai vertici aziendali, non controlla e non verifica le irregolarità riferisce Benini. Ma anche di chi non riconosce e gratifica il lavoro svolto.

Il lato chiaroscuro del ritardo

Angelo Boccato è uno psicologo del lavoro e docente a contratto di Sociologia all’Università di Padova. Secondo lui, esistono due tipologie di motivazioni per cui si arriva in ritardo, una di ordine positivo e l’altra negativa. “Tra i caratteri positivi vi è la generosità intesa in senso laico. Arrivo in ritardo perché mio padre e mia madre hanno bisogno di me, ma faccio gli straordinari per recuperare il tempo perso. E magari, con lo stesso spirito altruistico, aiuto i neoassunti ad inserirsi nell’ambiente lavorativo. Tra le qualità negative invece vi è la scarsa motivazione a svolgere il proprio lavoro” svela Boccato.

Lavoratori poco incentivati trascurano il rispetto delle regole

Il vero problema non sono gli orari, ma i weekend lunghi e le giornate di malattia. In Italia, inoltre, non c’è una cultura della performance, un sistema premiante la qualità del lavoro che disincentiva la cattiva organizzazione del sistema di vigilanza” precisa Benini. Il mancato rapporto tra premialità, controllo ed incentivi alla performance crea un sistema in cui tutto è concesso. “Nelle aziende forti sul privato la regola è che il capo arrivi prima dei dipendenti. Nelle aziende pubbliche invece arriva parecchio tempo dopo i suoi dipendenti, ma si trattiene anche oltre l’orario di lavoro. Il suo operato va valutato non in relazione ai ritardi, ma in rapporto ai risultati conseguiti” riconosce il sociologo. E in quest’ottica incoraggiante si riuscirebbero a prevenire anche le situazioni legate all’assenteismo.

Il badge, uno strumento discutibile

Nell’occhio del ciclone mediatico sono finiti i casi dei vigili urbani assenti per malattia durante la notte di Capodanno. Oppure, il caso dei “furbetti del cartellino” nelle amministrazioni pubbliche (Municipi, Asl, Ospedali etc.), dove vige l’abitudine di far timbrare il proprio cartellino dal collega. Il badge è uno strumento introdotto nel 2012 ma attivato solo nel 2016. Avrebbe dovuto rappresentare un sistema di monitoraggio solo sulle entrate e le uscite dei dipendenti. In realtà registra tutti gli spostamenti del lavoratore, dentro e fuori l’azienda. Per questo motivo, è stato oggetto di numerose contestazioni sulla sua legittimità, persino riconosciute da una sentenza della Cassazione. Un atto (n. 9904 del 13 maggio 2016)  che riconosceva in giurisprudenza il reintegro sul posto di lavoro di un dipendente licenziato. L’installazione dello strumento non era stata “concordata con le rappresentanze sindacali, né autorizzata dall’ispettorato del lavoro” precisa la Consulta. E quindi annullava “ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore”.

La carenza dei trasporti non è l’alibi perfetto, ma la pura verità

Tra le giustificazioni più frequenti che il lavoratore adduce al ritardo vi sono le carenze infrastrutturali del sistema dei trasporti. “La scusa che non è passato l’autobus non vale nella piccola provincia, ma è comprensibile nelle grandi città” giustifica Benini. Autobus, treni, metropolitane che non rispettano gli orari di linea contribuiscono a rendere difficile la mobilità. E anche prendere l’auto diventa un’impresa se il rischio quotidiano è di rimanere imbottigliati nel traffico. “In questi casi i datori di lavoro riescono ad essere comprensivi con i loro dipendenti perché vivono sulla loro pelle la medesima situazione” sottolinea lo psicologo Boccato.

Costi aziendali: quali ricadute

Arrivare in ritardo al lavoro ha un costo economico e produce un impatto negativo in termini di spese aziendali. Facendo un ragguaglio si può calcolare per l’azienda un danno di 25-30 euro per ogni ora di lavoro persa. Ad essi si aggiungono tutti i costi indiretti che non è possibile quantificare perché sono variabili. Senza contare che nell’era della web reputation basta una minima inadempienza e il danno di immagine diventa esponenziale. Una défaillance che, però, potrebbe essere facilmente colmata se in Italia ci fosse un maggiore coinvolgimento del fattore umano.

Arrivare in ritardo è una mancanza di rispetto

“Si arriva in ritardo perché non si ha rispetto nei confronti dei colleghi e dei clienti. Ci sono, poi, ritardi legati a problemi logistici e all’impossibilità di conciliare tempi ed impegni familiari con quelli professionali. Se ad un certo orario devo portare mio figlio all’asilo, non potrò mai essere alla stessa ora in ufficio. A quel punto la tabella di ingresso e di uscita dal lavoro dovrebbe essere concordata con il datore già in fase di selezione del personale per capire quali sono le disponibilità di orari e venirsi incontro” rivela Boccato. In tal senso, è importante che ci sia un rapporto interpersonale sereno tra dipendenti, datori e responsabili di coordinamento. Un rapporto teso tra colleghi potrebbe compromettere il lavoro di squadra. L’ideale sarebbe riuscire a non alimentare la contrapposizione tra chi è “ritardatario” e chi “spacca il minuto“.

L’impatto sociale nell’ambiente di lavoro

Un pessimo rapporto tra colleghi rischia di compromettere la performance lavorativa, a causa di situazioni di stress emotivo. Il lavoratore che è addirittura in anticipo può rivendicare la sua precisa diligenza, facendo pesare la mancanza di scrupolo di chi non riesce ad organizzare il proprio tempo con minuziosa scansione. Minore attenzione, rischio maggiore di errori, minore analisi dei dettagli e mancata soddisfazione del clienti che in tal caso si rivolgerà alla concorrenza. Questi sono i fattori che risucchiano il lavoratore in un vortice di demotivazione sempre maggiore. “In tal caso è importante che nell’ambiente di lavoro ci sia un dialogo costruttivo per avere modo di spiegarsi e di capire cosa non funziona nel rapporto. A volte è sufficiente spostare di ruolo il lavoratore o dargli delle mansioni più funzionali alle sue competenze per incentivarlo a rispettare orari e scadenze” conclude lo psicologo.

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