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Roberto Monti: “Leader non è manager. Nelle aziende serve una spinta verso l’ignoto”
Intervistiamo l’ex presidente di IKEA concept, oggi amministratore delegato di Arper: dalle ragioni del successo del colosso svedese alla provincialità di molte aziende italiane, che cominciano a manifestare problemi di visione sul lungo termine
Alto e robusto, con gli occhiali rotondi quasi sempre fermi sulla fronte; camicia chiara e pullover sulle spalle, legato basso sul petto. La prima cosa che colpisce di Roberto Monti non è l’aspetto o l’abbigliamento, ma il suo accento marcatamente nordeuropeo, che tuttavia si coniuga a un lessico ricco e acuto.
Monti è cresciuto in Svezia da padre italiano – ematologo – e madre svedese – psicoterapeuta. Dopo una gioventù dedicata alla pallamano e agli studi di relazioni internazionali, entrò in IKEA. Con una carriera fulminante scalò l’azienda fino a diventare presidente di IKEA concept, ovvero fino a guidare lo sviluppo del brand nei punti vendita di tutto il mondo.
Nel 2022 è diventato amministratore delegato di Arper, azienda trevigiana che produce sedute, tavoli e complementi di arredo di alta gamma, e che oggi conta 280 dipendenti e 16 showroom in giro per il mondo.
Lei viene da un’esperienza di alto livello in una multinazionale: che cosa l’ha spinta a misurarsi con una dimensione più ristretta e locale?
In Arper ho visto qualcosa di fondamentale ma che non si può misurare: il potenziale. Anche se ora l’azienda è cresciuta molto, sia come giro d’affari che a livello di persone, si respira ancora un’aria di audacia, di spinta verso qualcosa di nuovo. E poi amo la dimensione relazionale, il fatto che sia possibile e anzi necessario parlare e conoscere tutte le persone che fanno parte dell’impresa; toccare con mano i materiali, poter contribuire ai progetti. Questo non lo puoi davvero fare in un’azienda corporate. Io sono cresciuto in una cittadina svedese, piena di studenti universitari: per me è sempre stato naturale, anzi essenziale stare con le persone, ascoltare le idee, confrontarsi. È lì che c’è la vera crescita.
Piccolo può essere bello?
Dipende da cosa si intende con “piccolo”. Se diventa un pretesto, una scusa per rimanere dove si è, a curare il proprio orticello chiudendosi nelle tradizioni e nelle proprie idee, allora no, non è bello per niente. Ma può essere bello se si conserva e si sfrutta la dinamicità, il senso di comunità, la motivazione che si ha in una piccola organizzazione. Ecco, io per esempio credo che IKEA debba molto del suo successo proprio a questo: alla sua capacità di mantenere sempre, anche nella sua dimensione di multinazionale, un approccio locale, basato sulle persone.
In Italia manca una spinta all’internazionalizzazione?
Diciamo che permane una certa cultura locale; l’idea di sentirsi soddisfatti nel riuscire ad affermarsi nel proprio spazio e nel proprio luogo di nascita. Ma d’altronde questa è stata la grande forza dell’impresa italiana: l’intraprendenza artigiana, la capacità di adattamento e la voglia di affermarsi sul proprio territorio. Punti di forza che però, come dicevo prima, a volte diventano limiti. Il paradosso è che quando gli italiani vanno all’estero sono dei grandi esploratori e innovatori. Se restano in Italia, invece, anche quando riescono a crescere è come se spesso rimanessero in una mentalità più ristretta, più politica, meno di visione.
Questo lo si vede anche nella gestione delle persone?
Forse, ma non vorrei generalizzare troppo. Dirò però questo: in Italia c’è una grande attenzione allo specialismo, alla capacità tecnica. D’altronde, è da secoli un Paese di borghi e di artigiani, in cui non ha molto senso saper fare molte cose, dal momento che è facile trovare qualcuno che sa fare meglio di te una specifica cosa e ti puoi rifornire da lui. In questo modo ci si dedica solo ad alcune attività e lavorazioni, riuscendo spesso a raggiungere livelli di qualità molto alti. Però si corre anche un rischio: quello di perdere il potenziale, cioè la capacità di innovare, di muoversi tra le righe.
Come si può evitare questo rischio?
Imparando a riconoscere il potenziale, ad avere una visione di insieme, a guardare al futuro di lungo periodo, e credendo nelle persone. Io per esempio quando fui chiamato da IKEA, giovanissimo, non avevo nessun interesse verso i mobili e il design; ero tutt’altro che uno specialista. Ricordo che per tre-quattro ore di colloquio, anche in presenza del fondatore Ingvar Kamprad, mi fu chiesto dei miei valori e di come avrei visto il futuro di IKEA. Il mio curriculum, il mio passato, non gli interessava. E così dopo pochi anni già gestivo budget da svariati milioni di euro. Se all’inizio avessi saputo tutto quello che avrei dovuto sapere per quel ruolo, probabilmente io per primo non avrei accettato di svolgerlo.
La selezione in Italia pare ancora molto lontana da questo approccio.
Sì, anche se non bisogna confondere i piani: è ovvio che se mi serve un operaio specializzato devo partire dal curriculum, dall’esperienza e dalle qualifiche. Ma se mi serve un manager, un amministrativo, allora devo concentrarmi sulla persona più che sui titoli. Ma questo lo puoi fare se ti organizzi per tempo, se crei e difendi un succession plan, cioè un piano per lo sviluppo presente e futuro della tua dirigenza. Così attrai e trattieni le persone, perché le leghi a un progetto di medio-lungo termine. Mi sembra invece che diverse aziende italiane tendano a riempirsi di contabili e manager.
In Italia si è parlato a lungo di “passaggio generazionale”, ma spesso questo concetto è stato tradotto come il passaggio di consegne da padre a figlio ai vertici dell’impresa.
Di nuovo, probabilmente per via di quella mentalità locale per cui l’azienda viene percepita come qualcosa di famiglia. E può anche esserlo, certo, ma non come presupposto immutabile. Molto dipende, inutile negarlo, da dove si nasce e da chi. Io per esempio sono nato in una famiglia “multinazionale”, con i genitori che aprivano anche ospedali nella giungla africana; ho dedicato buona parte della mia giovinezza alla pallamano, fino a che un giorno un allenatore mi ha chiesto se volevo fargli da assistente, e lì ho cominciato a capire cosa vuol dire essere leader. Insomma, il contesto ti forma, ma proprio per questo chi ha più possibilità di influenzare il contesto ha il dovere di uscire dal seminato e provare strade nuove.
È questa la vera funzione del leader?
Direi di sì. Un leader è molto diverso da un manager. Un manager appunto gestisce l’esistente; cerca di renderlo efficiente e si concentra sulle risorse. Un leader invece cerca di lanciare una comunità in spazi sconosciuti; lavora sul futuro più che sul presente e sul passato, e si concentra sulle persone più che sugli strumenti. Ecco, proprio le persone sono la parola chiave: un leader vero deve sempre starci in mezzo, parlarci, conoscerle, imparare da loro. Solo così, infatti, sarà poi seguito quando indicherà la direzione verso l’ignoto.
Oggi si parla molto di valori, di vision, di mission e della loro importanza per un’impresa: ma come possono diventare qualcosa che non siano solo belle parole?
Ecco, vede, secondo me su questo spesso c’è un’incomprensione. Si pensa oggi che se un’azienda non è “green”, se non ha certe certificazioni o non fa certe azioni di responsabilità sociale non ha valori. Ma non è vero: anche una piccola azienda artigiana ha dei valori. Il punto è: questi valori sono in linea con quello che l’azienda fa? E, ancora di più, le persone che ne fanno parte li conoscono, questi valori, questi obiettivi di lungo termine? Li condividono? Se i valori dichiarati non sono quelli reali, oppure sono calati dall’alto senza coinvolgere le persone, allora servono al massimo per fare bella figura a qualche evento o sul sito.
La chiave è concentrarsi sul lungo termine?
E l’integrità. Sui propri valori non bisogna mai fare compromessi. La responsabilità, la coerenza quando si fa business sono fondamentali; solo così infatti si è davvero sostenibili. E la sostenibilità, oggi, per un’impresa è tutto.
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