Siamo donne, oltre le sbarre c’è di più

“Dal buio della detenzione a questa strana libertà”: il carcere femminile raccontato da Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in carcere”, e un’ex detenuta.

Quando di pensa al mondo delle carceri, si immagina una realtà buia, fredda, che crea inquietudine anche solo a immaginarla. Le sbarre dividono nettamente due mondi, non solo a livello fisico. È proprio quel senso di inquietudine che spinge a fare semplificazioni, a pensare che da una parte ci sia il bene e dall’altra il male, da una parte i giusti, dall’altra gli sbagliati. Eppure, in quelle strutture di cemento circondate di mura alte oltre cinque metri e filo spinato, c’è un’umanità che merita di essere considerata.

Errare è umano, pagare il proprio debito con la giustizia è doveroso, riprendere in mano la propria vita è un diritto. Uno dei modi per tornare a vivere è lavorare. Abbiamo intervistato Luciana Delle Donne, ex dirigente di banca e creatrice della prima banca online d’Italia, nonché del progetto “Made in carcere”, e Lory Proietti, ex detenuta, oggi volontaria all’Isola Solidale di Roma, per capire il mondo del carcere dai due lati delle sbarre.

Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in carcere”

Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in carcere”: “Il lavoro fondamentale per abbattere la recidiva”

Uno sguardo ai numeri può certamente aiutare a inquadrare l’entità del fenomeno.

Secondo i dati del ministero della Giustizia, in Italia gli istituti esclusivamente femminili sono soltanto cinque: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca, mentre sono cinquantadue le sezioni femminili negli istituti maschili. Secondo gli ultimi dati dello stesso dicastero, al 22 novembre 2020 erano 53.723 le persone effettivamente presenti in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 50.553 posti, ai quali vanno sottratti più di 3.000 posti non disponibili.

Al 31 ottobre erano 33 i bambini con meno di tre anni presenti in carcere con le loro madri. I detenuti sono soprattutto uomini. La proporzione di donne detenute sul totale è notoriamente molto bassa: nel 2019 è del 4,4%, in particolare del 4,2% per le italiane e del 4,8% per le straniere. Le donne carcerate, circa 2.400, sono costrette a una duplice sofferenza: vivere in piccoli spazi prevalentemente all’interno di istituti maschili e affrontare le difficoltà burocratiche per cercare un riscatto attraverso il lavoro.

Per queste donne, infatti, studiare o lavorare in carcere è spesso l’unica possibilità per non disperare e avere ancora una speranza di riscatto. La situazione in Italia, come racconta Luciana Delle Donne, non è però omogenea.

“In Italia c’è un orientamento generale che punta alla crescita delle persone, a far vivere cioè il periodo di sospensione della libertà come un periodo rieducativo e non punitivo, ma questo varia da carcere a carcere. Per quanto riguarda il lavoro, nel nostro Paese, specie al Nord, c’è una grande attenzione nel voler costruire e fornire strumenti di lavoro e crescita per le persone detenute. Al Sud cambia tutto, sono rarissime le occasioni di lavoro in carcere, tranne alcuni casi dove ci sono progetti finanziati dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dalla Cassa delle ammende.”

“In generale nelle prigioni ci si concentra soprattutto su laboratori artigianali, di industriale c’è poco. Si lavorano le campagne, ci sono le falegnamerie, c’è la ceramica, il tessile. Le grandi aziende, come quelle che realizzano componentistica, si insediano all’interno del carcere creando una vera e propria filiale, con un lavoro organizzato e sistematico.”

Da leccese lei però non è rimasta a guardare.

Lavoro con le carceri da quindici anni. Abbiamo reso in qualche modo attraente il modello di economia riparativa e rigenerativa grazie al progetto “Made in carcere”, che realizza cose belle all’interno di questi contesti di estremo degrado ed emarginazione. Il lavoro che svolgiamo ha fatto sì che la parola carcere stessa diventasse un mondo visibile, perché prima era una realtà che nessuno voleva vedere. Noi ci siamo dedicati al tessile in particolare in Puglia (Lecce, Taranto, Trani e Matera in Basilicata), e al cibo, che trattiamo in particolare nelle carceri minorili. L’agricoltura spesso serve al fabbisogno stesso dei detenuti.

Quanto incide il lavoro nell’abbassare la recidiva?

Il lavoro remunerato abbatte la recidiva del 70% circa. Dalle indagini sulle centinaia di persone che hanno avuto un percorso attraverso “Made in carcere” è emerso che non hanno commesso più reati. L’80% delle persone che non lavorano invece commette nuovi reati, e torna a essere un costo per la comunità pari a circa 60.000 euro l’anno. In generale, tra le donne c’è meno recidiva rispetto agli uomini. Spesso le donne sono complici di mariti e compagni nei reati, proprio perché mancano loro indipendenza e autonomia economica e sono costrette dal degrado e dall’emarginazione a compiere crimini. Per questo è importante creare autonomia tra le persone borderline, fornendo loro formazione e strumenti per diventare autonome. Questo conferma anche che un ruolo di governance per le donne è proficuo per la comunità.

Si può parlare di speranza anche attraverso il lavoro?

Spesso la speranza viene alimentata proprio dal lavoro, che gratifica, dà benessere. Il lavoro crea valori intangibili. Ci piace infatti parlare di BIL, Benessere Interno Lordo, e sviluppare una filosofia della seconda opportunità. Il lavoro ha anche la funzione di far riconciliare il detenuto con la comunità, acquisendo nuovi valori come la cultura del bello, valorizzando le capacità individuali e spingendo verso l’indipendenza economica. Sono fondamentali le iniziative inside-out. Il carcere può essere una palestra di vita e dovrebbe servire più a quelli che stanno fuori che a quelli che stanno dentro. Quando vai a vedere quanto soffre un detenuto stai attentissimo al tuo comportamento. Ci deve essere però un accompagnamento all’uscita. Il detenuto si sente invisibile, sente di non valere niente, di essere un numero, e per rientrare nella società civile deve trovare il modo di reinserirsi e riacquisire una certa normalità.

Uscire dal carcere in piena pandemia: “Dal buio della detenzione a questa strana libertà”

Una normalità che la pandemia ha però stravolto completamente. Lo racconta Lory Proietti, che dopo quattro anni di detenzione è uscita, trovando però un mondo che non si aspettava.

“Uscire con tutta la gente che aveva la mascherina sul viso e molti negozi chiusi è stato di grande impatto. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Ero confusa. Quando sono arrivata e ho visto le ceneri di papà, che è morto mentre ero rinchiusa, ho pianto. Poi però mi sono fatta forza. Non avevo mai visto il mondo così in crisi, con questo distanziamento che non ti permette di avere un contatto con gli altri, di dare o ricevere un abbraccio. Sono passata dal buio della detenzione a questa strana libertà.”

Come descriveresti la situazione che hai trovato in carcere?

All’inizio mi sono sentita impaurita, poi però sono stata ben accolta, ho trovato un lavoro, ho cominciato a frequentare la scuola. Posso definire positivo il mio percorso, ho imparato molto. Sono stata in carcere da giugno del 2015 a dicembre 2020; mi manca un anno, che faccio svolgendo lavori utili con una sorta di affidamento alla struttura dell’Isola solidale, dove ho conosciuto un’insegnante che nel tempo è diventata una sorta di seconda mamma e ho trovato anche l’amore. In carcere mi stavo diplomando, mi manca il quinto anno che è rimasto in sospeso causa COVID-19. Il livello di vita all’interno delle prigioni è molto basso, le criticità sono molte, gli spazi sono piccoli, non c’è sufficiente attenzione medica. Per noi transessuali gli ormoni sono fondamentali, e abbiamo dovuto lottare per averli. Il carcere dove sono finita è una struttura maschile, ma in un reparto per transessuali con cinque celle per venti persone.

Il carcere può davvero avere una funzione riabilitativa?

Dipende dalla persona. Il percorso all’interno è molto duro. All’interno del carcere hai il sostegno del SerT, ma la psicologa e l’educatrice le vedi una sola volta l’anno. Servirebbe un’assistenza più continuativa e mirata alla persona. Invece c’è un grande sovraffollamento. Io per fortuna ho sempre lavorato facendo le pulizie negli ambulatori e negli uffici interni, e anche le mie compagne hanno lavorato. Il pomeriggio studiavo. Se quando esci vuoi riprendere in mano la tua vita lo puoi fare, come sto cercando di fare io. L’importante è non farsi prendere dalla depressione, altrimenti è la fine.

Quanto hanno contato per te lavoro e formazione durante il periodo detentivo?

Umanizzare l’esperienza detentiva è molto importante. Stando dentro è difficile pensare al futuro, sei in un mondo a parte, devi trovare una grande forza di volontà e il lavoro e lo studio ti riempiono le giornate. Col tempo impari a cogliere i piccoli gesti di umanità tra detenuti, ma anche tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, che spesso ci davano davvero un supporto psicologico anche solo con una battuta, raccontandoci qualche aneddoto della vita al di fuori delle sbarre, aiutandoci a non pensare al posto buio dove eravamo. Oggi mi sento una persona migliore. Auguro a tutti un percorso ben fatto, che faccia lavorare su se stessi e aiuti a riscoprire tante cose belle nella vita. Appena riapriranno i pub potrò andare a lavorare in un esercizio che accoglie ex detenuti e mi ha offerto un posto. Sono molto proiettata nel futuro.

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