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Sostenibili come zecche, forse meno
In economia si chiama sinergia l’unione muscolare di varie attività produttive ed organizzative finalizzata ad una maggiore efficienza, per risultati economicamente più vantaggiosi. La sinergia somma le forze per scaturire maggiori potenze, occupazioni, posizioni di dominio. È un modo di preparare la battaglia, è il mondo delle armi. Anche in natura esistono gerarchie e dominanze, […]
In economia si chiama sinergia l’unione muscolare di varie attività produttive ed organizzative finalizzata ad una maggiore efficienza, per risultati economicamente più vantaggiosi. La sinergia somma le forze per scaturire maggiori potenze, occupazioni, posizioni di dominio. È un modo di preparare la battaglia, è il mondo delle armi.
Anche in natura esistono gerarchie e dominanze, scontri e domini, ma si registrano anche dinamiche d’altro genere. È il caso del rizoma. La sua caratteristica è quella di sviluppare autonomamente nuove piante anche in condizioni sfavorevoli. Jung usò il rizoma in relazione alla natura invisibile della vita: si sviluppa sotto terra, mentre ciò che appare dura solo una stagione, e poi cessa, senza che per questo il flusso vitale si interrompa. La metafora del rizoma fu adottata anche da Deleuze e Guattari per definire un tipo di ricerca fatta per multipli, senza punti di entrata e uscita definiti e senza gerarchie interne. La concezione rizomatica del pensiero si contrappone alla concezione arborescente che procede gerarchicamente e linearmente, per categorie dualistiche. Il pensiero rizomatico, invece, è in grado di stabilire connessioni produttive in qualsiasi direzione.
In biologia si chiama simbiosi il processo che indica i vari modi di convivenza tra organismi di specie diversa, animali o vegetali. È spesso una collaborazione mutualistica, basata sull’integrazione, non sulla somma, su un nuovo equilibrio che scaturisca dalla collaborazione, a vantaggio reciproco. È il linguaggio di condivisione: il fine non è nel dominio, ma nell’equilibrio, è crescita senza scontro.
La sfida che ci si pone oggi, in relazione alla (in)sostenibilità ambientale, è di passare da una visione sinergica ad una simbiotica, valorizzando il rizoma nel rapporto con le risorse ed anche con le attività di impresa.
Le azioni sostenibili sono state basate su incentivi e finanziamenti, sono relativamente poco a vantaggio della società e dell’ambiente. Appena cessano quelle forme di sostegno, decadono le principali motivazioni pratiche, diventano secondarie quelle etiche: la sinergia tra finanza, tecnologia, intenti virtuosi, sembra non funzionare, la sostenibilità subisce il peso del costo o del ridotto ricavo. C’è sempre un lato della bilancia che è in perdita. Questa forma di pensiero lineare, arborescente appunto, basata sulla crescita a breve, evidente e non sulla vita continua che c’è sotto, sta manifestando i propri limiti; piace solo a chi ne ha vantaggio, gli interessi multi-nazionali. È urgente trovare altre dinamiche di pensiero che nascano dalla lettura della realtà come forme sistemiche nelle quali ogni componente ha un proprio vantaggio.
Il millennio iniziato sta vedendo la necessità di una progettazione economica basata sul bios, di una bio-economia.
La sostenibilità è solo sociale, non può essere ambientale
Lo studio dei rapporti che connettono animali e uomini alle condizioni fisiche esistenti sulla superficie della Terra accompagnò il sorgere delle scienze dell’uomo nel XIX secolo. Il fine primario di quegli studi era ispirato ad una idea di sostenibilità sociale ed economica: la specie umana, per sopravvivere, doveva trasformare gli enti naturali in risorsa, in cibo, metalli, masse dominabili e lavorabili. Lavorare significava trasformare gli equilibri naturali (climatici, idrici, boscosi, territoriali) in valori consumabili e scambiabili, in energia sfruttabile. È così che in modo totalizzante, con investimenti e quantità mai neanche pensate prima, ogni possibilità d’uso della Terra e dei suoi costituenti è stata messa a valore: gas, idrocarburi, metalli leggeri e pesanti, specie animali e vegetali, aria, fuoco, vento.
Nei primi anni del ‘900 von Uexküll (etologo, biologo, zoologo) teorizzò l’idea che gli organismi abbiano diversi umwelten (mondi circostanti), pur condividendo lo stesso spazio intorno (ambiente). Ogni organismo dà una forma al proprio umwelt quando interagisce con il mondo. Ogni essere vivente opera in un mondo correlato rispetto agli altri mondi-ambienti. La femmina gravida di zecca si posiziona su un ramo ed attende il passaggio di un animale, quando uno stimolo olfattivo le suggerisce di lasciarsi cadere, un organo sensibile alla temperatura le fa capire se è caduta su un animale. In quel caso attraverso il tatto, sceglie uno spazio di pelle nuda e conficca in profondità la propria testa per succhiare il sangue. Una volta sazia, si lascia cadere, depone le uova e muore, concimando la propria piccola parte di mondo. Vivere, per la zecca, significa entrare in relazione con altri animali, con altri sistemi-mondo, traendone valore ma non distruggendolo. È la relazione il fine e la possibilità della sua vita.
Dove la scienza classica vedeva un unico mondo, comprensivo di tutte le specie viventi disposte gerarchicamente ed autonomamente, von Uexküll vide un’infinita varietà di mondi collegati fra loro. Introdusse la dimensione del sistema (aperto) dinamico.
L’ambiente, con lui, diventa più un luogo di modificazioni e di processi, che non una questione di essenze, di modelli statici e di concetti separati, gerarchici, descrivibili per autonomie.
Nel 1973 Arne Næss (filosofo e matematico) affermò che “il diritto di vivere di tutte le forme (di vita) è un diritto universale che non può essere quantificato”. Nacque l’ecologia profonda e, con essa, l’urgenza di considerare la separazione uomo-natura come una forzatura del pensiero.
Sei anni dopo, Hans Jonas (filosofo tedesco-americano) contribuì a fondare la bio-etica e, attraverso il principio di responsabilità, ci spiegò che ogni gesto dell’uomo deve prendere in considerazione le conseguenze future delle proprie scelte: “io non temo gli abusi dovuti a malvagi interessi di potere, temo invece coloro che amano l’umanità, e che sognano un grandioso miglioramento della specie”.
Quel principio, con classico riduzionismo politico, diventò di precauzione alla Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite, Rio de Janeiro1992. Un tentativo di fissare qualche regola, di delimitare (morbidamente prevenire il degrado) i confini tra interessi privati multi-nazionali ed interesse pubblico inter-nazionale. Le lezione che questi contributi sembrano darci è che l’unico territorio realmente sostenibile sia quello economico. D’altra parte finche l’ambiente sarà un peso da sostenere sono le stesse parole a dirci quanto il problema non sia risolvibile.
Abbiamo industrializzato la natura
Nel ‘900 ci siamo a abituati a pensare la Terra come un deposito di risorse, capace, oltretutto, di aggiustarsi, di ripararsi e rigenerarsi autonomamente.
In effetti, da milioni di anni, il pianeta rimastica ogni guaio, assorbendo ogni evento entropico o antropico. 66 milioni di anni fa masse straordinarie di metano si liberarono in atmosfera dal fondo degli oceani, innalzando la temperatura media di 5 gradi. Quei 5 gradi in più sono oggi considerati il massimo termico conosciuto dal clima del pianeta nel suo intero e, per questo, è considerato il processo più simile all’attuale riscaldamento globale. Lo ha rivelato, nel marzo 2016, uno studio di ricercatori delle Università di California, di Bristol e delle Hawaii, apparso sulla rivista Nature Geoscience.
L’aumento delle emissioni avvenne in circa 4000 anni, rilasciando tra 0,6 e 1 miliardo di tonnellate di carbonio all’anno. Ora emettiamo in atmosfera circa 10 miliardi di tonnellate l’anno di carbonio. Dieci volte di più. Il cambiamento di temperatura invece avvenne alla fine, nel corso di un ciclo abbastanza (geologicamente) rapido.
Gli ecosistemi in quell’era così lontana ebbero il tempo di adattarsi ai cambiamenti ambientali, con processi di riequilibrio o di evoluzione. L’attuale tasso di emissioni, dieci volte superiore, sembra superare la capacità adattativa degli attuali ecosistemi e delle specie che vi abitano.
La sfida corrente è nell’idea che non possiamo più fare affidamento sulle capacità adattative dell’ambiente: dobbiamo aumentare la nostra capacità di pensare in modo sistemico, siamo chiamati ad una maggiore predittività, ma soprattutto dobbiamo rigenerare, non possiamo più ridurre le conseguenze. Una sola strada sembra possibile: generare (con una figura paradossale, produrre) natura.
Responsabilità, precauzione, difesa, tutela sono i termini con cui, nel secolo scorso, abbiamo tentato di sostenere il peso dell’ambiente, intanto che sottraevamo risorse, spazio, prospettiva.
Nuovi indirizzi di pensiero manageriale
Più del 90% della massa vivente sui continenti è composta dalle piante. Le piante generano semi destinati a viaggiare. Le piante imparano e memorizzano, adattano la propria genetica a ciò che imparano dall’esperienza. Percepiscono, comprendono, secondo 20 diversi parametri chimici e fisici. Comunicano tra loro attraverso segnali chimici di attrazione o di allarme; si aiutano a vicenda quando un simile, in qualche modo connesso, è in difficoltà.
Dobbiamo ripartire proprio dall’idea dell’ambiente come luogo di modificazioni e di processi, L’Italia è, in relazione alla grandezza del suo territorio, tra i paesi al mondo con la maggiore bio-diversità. Biodiversità significa cibo migliore e più vario, una ricca varietà di specie animali, un modello climatico unico ed armonico. La bio-diversità è un processo, è una fonte inesauribile di opportunità economiche se interpretata e messa a valore, non se ingabbiata, ridotta, finalizzata in modo chiuso. La visione industriale, di per sé, implica appiattimento, minore varietà, produzione secondo standard, quindi nel lungo periodo, riduzione di ricchezza. Industrializzare la natura, l’ambiente, è quello che si è tentato di fare. Invertire il flusso è quello che può salvare.
Un bosco fornisce prodotti economici di varia forma, biomasse, radici, funghi, talvolta tartufi, vita animale, ma soprattutto acqua, terra ed aria pulita, paesaggi e culture. L’agricoltura fornisce cibo, ma può anche esprimere, se interpretata come processo di potenziamento della bio-diversità, modelli didattici, turistici, scientifici, culturali. Il lavoro con la natura è soprattutto una questione di diverso modello di organizzazione sociale.
Se alleviamo api perché diano miele, creeremo alveari industriali, arnie che facilitino la raccolta di quella sostanza. Ma le api impollinano e quindi rendono possibile la nascita di molti prodotti alimentari. In una scala di valutazione economica i loro prodotti diretti (miele, propoli ecc) valgono 5, i risultati del loro impollinare (pomodori, zucchine, melanzane ecc) valgono 95. L’industria agricola preferisce non preoccuparsi di questo secondo aspetto e si concentra solo sul primo: il risultato è che, di fronte alla scomparsa delle api, vengono chiamati ad occuparsene solo le filiere sinergiche di lavorazione e vendita del miele.
Verso una nuova economia del vivente
Se la spesa la si facesse nei mercati dei contadini o nelle piccole botteghe metropolitane, invece che nei supermercati che puntano tutto su marche e contenitori colorati, verrebbe trasferita una maggior quantità di conoscenza e di rispetto per i terreni e per la differente qualità dei suoi frutti. In Italia, l’agricoltura è, in anni recenti, l’unico settore che abbia prodotto nuova occupazione giovanile. Così come l’alimentazione di qualità è al primo posto, per crescita dell’export.
I giovani agricoltori, rizomatici, sono connessi e preparati, motivati, conoscono il valore del paesaggio, della terra che può guarire ed ammalare: portano nuovi entusiasmi e speranze di rigenerazione, ma nel presente incontrano sistemi culturali, legali, imprenditoriali, associativi e sociali invecchiati. Perché, appunto, questi ultimi ragionano ancora per sinergie e non per simbiosi. Immaginano di consumare ancora territorio e di costruire grandi alberghi, quando quelli esistenti sono vuoti e gli agriturismi sono pieni.
Il mondo e le economie sono affidati, completamente gestiti da piatti interessi multi-nazionali, la produzione è di massa, per mercati di massa. Ma come scrive su questo giornale Domenico De Masi, mai su questo pianeta c’è stata una massa di cervelli così grande, una intelligenza così diffusa. Se quei cervelli svilupperanno sinergie lineari avremo un ambiente definitivamente devastato, se invece fossero capaci di stare in simbiosi, se collaboreranno integrandosi, avremo produzione di nuova natura.
È tempo di cambiare le categorie, sviluppo non significa più unire le forze per limitarsi a difendere, con precauzione, prudenza, riduzioni di impatto ambientale. Significa all’opposto trarre nuovo valore dall’ambiente, producendo paesaggi e non capannoni, cibo bio-diverso e non scatole colorate mono-sapore. E’ tempo di non modellare la terra in senso industriale, quanto piuttosto di modellare l’industria in senso bio-diverso: fuori dallo standard è la diversità a farsi valore e, con quella, la personalizzazione anche delle esperienze.
Non ci sono da una parte l’economia e dall’altra l’ambiente: l’ecosistema è lo stesso, è unico, complesso ed intessuto. Tra l’Uomo e le Zecche sembra siano dotate di maggior intelligenza queste ultime: sono forse limitate di mondo, ma hanno una chiara idea della necessaria simbiosi con le altre forme viventi e, in qualche modo, se ne prendono cura.
Dobbiamo sbrigarci a coltivare la terra, non i prodotti.
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