Un progetto dell’UniMoRe avvicina università e lavoro: “Team di studenti realizzano veicoli che poi corrono in campionati internazionali”.
Gli studenti agli insegnanti: “Il dialogo non può essere solo uno scambio di voti”
Le testimonianze di alcune studentesse e di alcuni genitori riguardo la loro percezione del sistema educativo. “Non ci ascoltano: da noi chi non fa religione passa un’ora nell’antibagno o sulle scale”
Si discute spesso di loro, non di rado giudicati o travisati, tirati in ballo nei discorsi “politichesi”, sempre in bilico su visioni stereotipate, sempre a rischio di retorica che fa salpare lontano dalla realtà. Dei giovani se ne parla, sì, ma più come termine o come idea. In carne e ossa a loro si lascia poco la parola, che sia nella politica, nel lavoro o nella scuola. E proprio a partire dalla scuola, invece, vogliamo ridare voce a chi dovrebbe averla per principio, anche se viene ascoltata di rado.
Nel contesto scolastico i giovani sono identificati con il ruolo di studenti e studentesse, nel bel mezzo del dovere e del diritto allo studio, dimenticando che sono fruitori di un servizio, coprotagonisti di un mondo sociale e culturale, persone con pensieri, idee e critiche tutte da scoprire, con buona pace di quell’autoreferenzialità che, insieme a cose indubbiamente positive, alberga purtroppo spesso nella scuola.
Scuola, una studentessa: “Non ci ascoltano: da noi chi non fa religione passa un’ora nell’antibagno o sulle scale”
La prima voce in capitolo che ascolto è quella di Simona (nome di fantasia), 15 anni, che frequenta il liceo delle scienze umane in una provincia della Lombardia. Simona nutre una profonda passione non solo per i libri, ma in generale per i diversi orizzonti del sapere che il sistema scolastico, con i suoi schemi e le sue rigidità, rischia spesso di imbrigliare. La sua è una voce pacata che racconta allo stesso tempo fermezza e voglia, se non necessità, di cambiamento.
Parto subito con il chiederle se nel suo liceo sia previsto un questionario o qualsiasi altro strumento utile per dare un riscontro sul servizio della scuola e sul lavoro degli insegnanti: “Non esiste né per noi né per i nostri genitori”, risponde. “L’unico questionario di restituzione che abbiamo compilato riguardava i rappresentanti d’istituto”.
Simona ci racconta un aneddoto emblematico riguardante il suo liceo. Lei e altri studenti che hanno scelto di non fare religione seguono un’ora di cosiddetta alternativa, e l’organizzazione relativa a quest’ora è un biglietto da visita che dice già tutto. “Non siamo in un’aula ma ci hanno messo nell’antibagno, vicino al lavandino: devo dire che ci va anche bene perché almeno abbiamo le sedie”, racconta con una punta di ironia. “Ci sono altri studenti che l’ora di alternativa la fanno seduti sulle scale”.
Non si poteva trovare di meglio? “Sì, sarebbe stato sufficiente anche fare una convenzione con il locale o il circolo vicini alla scuola: questo avrebbe permesso di trovare uno spazio adeguato. Una soluzione c’è sempre, basta attivarsi per tempo”. E aggiunge: “Quello che colpisce è che non sono mai arrivate delle scuse e non c’è nemmeno la preoccupazione per poter risolvere, come se tutto andasse bene così”.
Simona invece più di una soluzione ce l’avrebbe, ma una voce non ascoltata, o per lo meno non fatta emergere se non per interrogazioni e compiti in classe, è come se non avesse nulla da proporre. Quasi che non esistesse.
A questo proposito mi viene in mente che un questionario a scuola sarebbe utile anche per raccogliere non solo le criticità e istanze degli studenti e delle studentesse, ma anche le loro proposte, perché in fondo sono loro i primi interessati a un miglioramento. Mettere da parte tutto questo è come mandare in frantumi a priori un’occasione preziosa.
Simona ci spiega anche che alternativa nella sua scuola dovrebbe essere una vera e propria materia, ossia educazione al bello. “L’anno scorso mi piaceva perché in quell’ora confrontavamo le nostre idee, quest’anno invece alternativa è semplicemente un’ora dedicata ai compiti. Mentre noi facciamo i compiti, l’insegnante svolge i suoi”.
“Delusa dagli insegnanti e dalla scarsa comunicazione. I voti? Inutili, non mi aiutano a migliorare”
Le chiedo quale sia l’aspetto della scuola che finora l’ha più delusa: “Gli insegnanti”, risponde sicura. “Non parlo solo a livello organizzativo, ma anche della comunicazione tra di loro: è come se non riuscissero a mettersi d’accordo. Penso che la comunicazione sia fondamentale per vivere bene in un sistema di classe, e invece viene fatta passare sottogamba”.
Simona aggiunge: “Più di tutto mi delude la comunicazione che hanno con noi studenti. Li trovo molto inefficaci nel modo di spiegare: continuano infatti a usare il classico metodo frontale, che mette in difficoltà le persone che hanno intelligenze diverse. Ci trasmettono nozioni come se fossimo solo un vaso da riempire dimenticando che siamo adolescenti di 15 anni. Gli insegnanti non sono tutti così, ma la maggior parte di loro ha uno stampo che risale agli anni passati, come se non ci fosse stata un’evoluzione”.
Chiedo a bruciapelo: hai mai avuto la percezione che ai tuoi insegnanti interessi cogliere un vostro pensiero o una vostra riflessione, al di là dell’aspetto didattico? “Alcuni professori un minimo se ne sono preoccupati, ma erano più che altro domande sul metodo da loro utilizzato. Una professoressa ci ha chiesto ad esempio se preferivamo le slide o la spiegazione a voce, niente di più. Non c’è un vero dialogo”.
Che cosa ne pensi invece del sistema attuale dei voti? “Penso sia inutile e senza uno scopo, serve soltanto per mettere qualcosa su carta. Per verificare le capacità servirebbe altro”.
I voti sono e diventano un “peso” per voi ragazzi? “Gli insegnanti danno molto valore ai voti e quindi anche gli studenti sono portati a preoccuparsene”, riflette Simona. “Non è bello sentirsi dire da un insegnante ‘hai preso otto, mi hai deluso’, dopo aver studiato per giorni”.
Che cosa proporresti come alternativa ai voti? “Punterei molto sui lavori di gruppo perché ti formano non solo sugli argomenti, ma anche sulle esperienze che risultano utili al di fuori della scuola per dare una visione più ampia. Il voto, a prescindere dal fatto che sia un numero o una parola, mi sembra poco efficace perché non è costruttivo: non sprona al miglioramento, non mi dice dove e cosa posso fare per migliorare. Questo sì che sarebbe utile”.
La scuola superiore vista dai genitori: “Deumanizzata e solo prestazionale”
L’altra voce che recuperiamo, e che appare spesso stereotipata nelle narrazioni giornalistiche, è quella dei genitori.
Così mi confronto anche con Elena (nome di fantasia), mamma di Simona, attenta da sempre a queste dinamiche, che commenta: “La scuola non costruisce dialogo e relazionalità con i ragazzi, le ragazze e men che meno con le famiglie. I colloqui con gli insegnanti sono un esempio indicativo di questa mancanza di dialogo: ti siedi e dopo pochi minuti il colloquio è finito”. E sottolinea: “Vengono comunicati principalmente gli esiti delle ‘prestazioni’ dei propri figli, ossia i voti che hanno preso nelle verifiche, che il genitore conosce già perché c’è il registro elettronico. Lo studente viene imprigionato in una media di voti come se contasse solo la performance e non i vissuti, le motivazioni, le percezioni di sé e della scuola, che animano emotivamente la persona e che orientano i suoi comportamenti e atteggiamenti. Abbiamo a che fare con una scuola deumanizzata e solo prestazionale: l’importante è funzionare bene, come una macchina”.
Elena di fronte a tutto questo si pone una domanda: “Com’è possibile che un contesto educativo, dove la persona dovrebbe essere messa al centro, non coltivi il dialogo, l’ascolto, l’attenzione al mondo interno degli studenti e una relazionalità profonda con le famiglie?”. Una domanda che rivendica diritti spesso calpestati, e che di certo trova adesione anche da parte di altre persone che nella scuola ci lavorano, ma che evidentemente, allo stesso modo di chi fruisce del servizio, hanno poca voce in capitolo.
La scuola rimandata a settembre: “Non le darei un voto, ma le consiglierei di migliorare”
L’altra voce, pronta a raccontare la sua esperienza nel mondo scuola è quella di Nadia (nome di fantasia), 16 anni, studentessa al liceo artistico in una città della Lombardia, crede fermamente che in ogni percorso di studio “l’arte sia fondamentale per liberare la mente”. E io non posso che darle ragione. Nadia è contenta di questa intervista perché ritiene l’argomento importante: la sua voce ha il suono dell’adolescenza e allo stesso tempo è intrisa di concretezza e consapevolezza, mettendo KO tanti stereotipi su questa età.
Chiedo a Nadia se nel suo liceo siano presenti questionari che diano possibilità di dare un riscontro da parte degli studenti sulla scuola e i suoi servizi: “Non esistono né per noi studenti né per i nostri genitori”, risponde.
Riguardo alla dinamica dei voti afferma: “Credo che non sia un voto a definire la persona, le capacità derivano da altro”. E aggiunge: “Certo, io e i miei compagni di classe ci restiamo male se prendiamo un voto basso che non premia il nostro impegno, ma credo sia normale provare questo. Conosco invece molte persone che puntano sempre al massimo e un sette diventa per loro motivo di grande delusione, tanto da considerarlo un fallimento anche se in realtà non è la fine del mondo”.
Quest’ansia da prestazione secondo te deriva dalle dinamiche scolastiche o più dalla famiglia o da entrambi i fronti? “Io penso che derivi in generale dalla società di oggi, che porta ad avere questa pressione, e allo stesso tempo dalle famiglie che pensano che il voto sia la cosa più importante”.
Se invece tu ne avessi la possibilità, che voto daresti alla scuola, se lo daresti? “Non ci ho mai pensato a questa cosa, è la prima volta”, commenta Nadia. “In realtà un voto non glielo darei, ma le consiglierei di migliorare. Questo sì”.
Studenti e insegnanti, la necessità di un dialogo che vada oltre le prestazioni
Non solo verifiche, ma anche percorsi: la scuola è più un prequel al lavoro, un obbligo, un arricchimento o tutto questo insieme? “Di sicuro da un lato la scuola è un obbligo se penso alle materie che non ci vanno magari a genio”, risponde sorridendo. “Dall’altro ci sono contenuti interessanti che è bello approfondire e che apprezzo molto. In questo liceo sento che ho la possibilità di farlo”. E aggiunge con entusiasmo: “Quest’anno abbiamo avuto la fortuna di avere una prof di inglese che spazia culturalmente attraverso canzoni, libri, poesie e film: questo ci stimola molto”.
Qual è invece l’ingrediente che secondo te manca di più alla scuola pensando alla figura degli insegnanti? “Il fatto di creare un rapporto in cui gli insegnanti capiscano davvero le necessità di noi studenti, e in cui noi studenti allo stesso tempo capiamo le loro”.
Ma da parte di studenti e studentesse esiste questa disponibilità a mettersi nei panni altrui? “Purtroppo non sempre”, chiosa Nadia. “Ci sono infatti insegnanti che trattano male gli studenti, e allora il ragazzo o la ragazza in questione perde la motivazione a cercare un rapporto di questo tipo. La nostra professoressa di inglese invece ci stimola, e questo crea un rapporto diverso”.
Della scuola finora che cos’è che hai apprezzato di più? “La multidisciplinarietà e la possibilità di spaziare culturalmente: questo penso sia davvero importante e utile per noi. Inoltre c’è attenzione al tema del bullismo”.
E invece quello che ti ha più deluso? “Al di là della disorganizzazione nella gestione dei programmi, a pesare è la mancanza di un dialogo con gli insegnanti che vada oltre voti e programmi. È vero che andiamo a scuola per imparare, ma non siamo dei robot: l’umanità non deve mancare mai”.
In un altro momento raccolgo anche il riscontro di Rita (nome di fantasia), mamma di Nadia. Riguardo la sua esperienza, afferma: “Non ho una grande considerazione della scuola in questo momento: come genitore cerco sempre di essere imparziale, ma denoto mancanze organizzative e pedagogiche. Insegnanti e dirigenti sono fagocitati dalla burocrazia e non hanno tempo, e a volte strumenti, per stare in una relazione sana con i ragazzi e le ragazze”. E precisa: “Oggi studi e ricerche ci dicono che se non si lavora prima sulle dinamiche relazionali e di gruppo non ci possono essere buoni apprendimenti. La situazione sociale dei nostri giovani è inoltre complessa, e necessiterebbe di uno sguardo diverso da parte delle istituzioni”.
Photo credits: uilscuola.it
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