Svolta etica nel business delle multinazionali?

A metà agosto di quest’anno, 181 CEO di importanti aziende, quali Apple, Amazon. J.P. Morgan Chase, associati alla storica organizzazione statunitense Business Roundtable, hanno sottoscritto una dichiarazione per la ridefinizione dello scopo (purpose) di una corporation. Questo statement ha destato particolare interesse, perché ne è stata fatta una lettura etica da parte dei media europei. […]

A metà agosto di quest’anno, 181 CEO di importanti aziende, quali Apple, Amazon. J.P. Morgan Chase, associati alla storica organizzazione statunitense Business Roundtable, hanno sottoscritto una dichiarazione per la ridefinizione dello scopo (purpose) di una corporation. Questo statement ha destato particolare interesse, perché ne è stata fatta una lettura etica da parte dei media europei.

Va detto che questa dichiarazione (qui a lato nella sua versione integrale) non è stata un’iniziativa isolata né improvvisa, perché già da tempo si lavorava all’interno dell’OECD/OCSE al grande progetto internazionale B4IGbusiness for inclusive growth – che ha avuto l’ufficializzazione all’ultimo G7 di Biarritz e molta meno evidenza nei circuiti di informazione.

Tornando alla dichiarazione, proviamo ad analizzarla per cercare prove della presunta “svolta etica”.

 

La “svolta etica” delle big corporation, nel dettaglio

La premessa del documento non evidenzia alcun nuovo paradigma, non parla di sostenibilità o di economia circolare, di associazionismo o di cultura, ma conferma che la via per il benessere sia il business fatto in un mercato libero: “We believe the free-market system is the best means of generating good jobs, a strong and sustainable economy, innovation, a healthy environment and economic opportunity for all”.

Non un grande inizio, direi. Ma proviamo ad andare oltre verso quattro passaggi più interessanti:

  1. Nel primo di questi viene detto che la dichiarazione sottoscritta è indirizzata a tutti gli stakeholder, includendo nella categoria anche lavoratori e business partner, e non solo gli azionisti.

Non male questa affermazione! Finalmente anche i lavoratori devono essere considerati parte in causa degli scopi di una corporation.

  1. I CEO ribadiscono poi l’importanza della responsabilità sociale di un’azienda: “Supporting the communities in which we work”.

Questa però non è una novità assoluta. Chi ha lavorato in aziende USA avrà incontrato tale impegno o nel codice deontologico da sottoscrivere all’atto dell’assunzione (a me capitò nel lontano 1989), oppure all’interno delle policy aziendali.

  1. L’attenzione a ragionare sul lungo termine in antitesi alle violente politiche commerciali, finanziarie e industriali tese ad accumulare profitti nel breve termine e nei risultati trimestrali di Borsa: “Generating long-term value for shareholders”.

Non saprei quanto sia etico il contenuto di questa affermazione; tuttavia sentir parlare di lungo termine e non solo più della massimizzazione dei profitti (per gli azionisti) del trimestre è un altro cambiamento da registrare.

  1. Un paragrafo intero è infine dedicato ai lavoratori e collaboratori: “Investing in our employees. This starts with compensating them fairly and providing important benefits (…); we foster diversity and inclusion, dignity and respect”.

Desidero approfondire questo quarto e ultimo punto.

 

Perché sottoscrivere una dichiarazione ovvia?

Mi domando, infatti, se nel 2019 ci sia ancora bisogno di sottolineare che le persone che prestano il proprio lavoro debbano essere trattate con dignità e con una remunerazione equa, che le diversità vengano accettate e considerate fondamentali per il successo aziendale. Insomma, non stiamo parlando forse di princìpi già acquisiti?

Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L’articolo 23 (riprodotto qui a lato) parla del lavoro. Ritroviamo parole simili a quelle controfirmate dai CEO, ovvero dignità, remunerazione equa, condizioni di lavoro soddisfacenti.

Verrebbe da pensare allora che questi CEO stiano ammettendo implicitamente che i princìpi universali sono disattesi nelle loro aziende, se a più di settant’anni dal documento dell’ONU hanno avvertito l’esigenza di sottoscrivere una simile dichiarazione pubblica. A rafforzare questa conclusione giocherebbe la scelta del verbo “we commit”: i CEO non hanno scelto di sottoscrivere un’affermazione del tipo “siamo già attenti alle persone, ma in futuro possiamo fare di più su temi etici”, bensì, solennemente, “ci impegniamo (da adesso in avanti)”.

Ma è giusto parlare di ammissione di colpa rispetto ai temi sociali? Forse no. Sono andato, infatti, a curiosare nel sito www.aboutamazon.com, e l’immagine di Amazon è quella di un’azienda già oggi etica, rispettosa dell’ambiente, dei dipendenti, delle comunità locali; specialmente quelle svantaggiate. Molte altre (big) corporation si mostrano particolarmente attente a questi temi, sia a livello di policy interne che di comunicazione istituzionale.

 

Svolta etica o strategia di marketing?

Ma se le corporation si professano da tempo pubblicamente attente ai temi sociali, allora non c’è una vera svolta etica. Ma se è così, allora perché sottoscrivere questa dichiarazione? Per rivolgersi a chi? Ai propri azionisti, che grazie all’attività dei CEO hanno visto crescere, a volte esponenzialmente, il valore delle proprie quote e che in cambio hanno permesso ai propri capi-azienda di guadagnare anche 250 volte più di un impiegato medio (nel 1989 questo coefficiente era già alto, ma si fermava a 60)?

Forse i CEO – banalizzo – potrebbero aver lanciato ai loro datori di lavoro un messaggio del tipo: “Signori, il mondo sta cambiando, i clienti sono sempre più attenti a come le nostre aziende si comportano rispetto a temi quali dignità, ambiente, inclusione, quindi per stare sul mercato una parte dei profitti dovrà essere investita in reali politiche di social responsibility. Fatevene una ragione”.

O forse la dichiarazione pubblica è rivolta proprio ai consumatori, sempre più interessati a conoscere come le corporation si pongano rispetto ai grandi temi sociali. O infine, forse i CEO basati negli USA hanno semplicemente voluto ribadire di non aver bisogno di organismi internazionali (vedi il citato B4IG dell’OECD) che indichino loro una strada “etica”, perché l’hanno già intrapresa autonomamente. In quest’ultimo caso, però, in ossequio al pragmatismo USA, mi sarei aspettato che venissero dichiarati anche i passi futuri. What’s next? Che so, delle tempistiche, impegni precisi.

Nel complesso, e per le ragioni evidenziate, non mi pare che si possa parlare disvolta etica”, non foss’altro che molte corporation, immagino con l’autorizzazione consapevole dei propri direttori, hanno già implementato programmi per garantire inclusione, rispetto e dignità delle persone. E, ma spero di sbagliarmi, non leggo neanche tra le righe che i CEO si siano impegnati a non delocalizzare più le proprie attività, evitando di chiudere uffici e fabbriche per questioni di efficienza economica: questa sì che sarebbe stata una svolta etica di portata epocale.

In definitiva, mi pare una dichiarazione in chiaroscuro con alcuni punti importanti (dipendenti come stakeholder e focus sul lungo termine), ma altri troppo generici che inducono a interrogarsi sul vero scopo di questo statement pubblico. Abbiamo passato al vaglio alcune possibili risposte; voi ne avete altre?

 

Photo by Riccardo Annandale on Unsplash

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