Tangentopoli 2.0 e il rischio manette per i manager italiani

In pubblico non lo ammetteranno mai: molti manager che lavorano in Italia si svegliano la mattina col timore di ricevere un avviso di garanzia o, peggio, di essere arrestati. Metto le mani avanti: non leggerete un articolo di attacco alla magistratura (non è questo il luogo né ci sarebbe spazio sufficiente: la questione oltre che cronica è […]

In pubblico non lo ammetteranno mai: molti manager che lavorano in Italia si svegliano la mattina col timore di ricevere un avviso di garanzia o, peggio, di essere arrestati. Metto le mani avanti: non leggerete un articolo di attacco alla magistratura (non è questo il luogo né ci sarebbe spazio sufficiente: la questione oltre che cronica è anche tragicamente politica) bensì una semplice considerazione alla bellezza di 23 anni dalla prima Mani Pulite e mentre, leggendo le cronache giudiziarie degli ultimi mesi (Expo, Mafia Capitale, ANAS, RFI) ci si domanda se non siamo entrati in una seconda Tangentopoli, stavolta più silenziosa.

Questo numero di Senzafiltro si occupa di rischi del mestiere: orbene, parlando a quattr’occhi con molti manager di imprese private che lavorano per e a contatto col settore pubblico, si realizza che nella categoria è maturata la convinzione che a lavorare in Italia si deve scontare un “rischio giudiziario” esattamente come chi va a costruire ponti e strade in Africa sa che potrebbe prendere la malaria. Insomma, un avviso di garanzia prima o poi “te tocca” come direbbero a Roma e allora è meglio sottoscrivere una buona polizza di responsabilità civile con un robusto pacchetto di assistenza legale per garantirsi un penalista adeguato alla bisogna.

Rischio professionale? Evento da mettere in conto come i piloti di Formula Uno quando accendono il motore? Forse sarà anche normale nel resto del mondo capitalista (Russia compresa) che i super-topmanager accettino di correre dei grandi rischi, ma il problema è che in Italia anche le seconde e le terze file oggi dormono sonni poco tranquilli non appena si accende un ventilatore giudiziario che soffia sul settore dove operano. Senza contare poi che i riflettori della stampa si accendono sui big, non sui pesci piccoli e medi. Prendiamo il caso di Silvio Scaglia, l’ex AD di Fastweb incarcerato per  tre mesi nel 2010 per un inchiesta su una presunta frode di IVA e dopo tre anni prosciolto. Scaglia era ricco ed ha potuto permettersi di stare molto tempo senza lavorare e di pagarsi buoni avvocati (tra i 2 e i 3 milioni di euro, ha rivelato) mentre i  suoi ex colleghi compravano pagine di giornali per denunciare la sua innocenza: lui ne è uscito a testa alta e magari l’esperienza ha anche  dato una svolta positiva alla sua carriera, passata dalle telecomunicazioni alle passerelle di abbigliamento intimo.

Ma per ogni Scaglia indagato ci sono in giro tanti Mario Rossetti, il meno conosciuto ex direttore amministrativo e finanziario di Fastweb finito per 100 giorni in galera e 8 mesi ai domiciliari sempre per la medesima indagine: nel libro “Io non avevo l’avvocato” racconta la storia dell’inchiesta che gli ha sfasciato la famiglia e la vita per poi ritrovarsi scagionato. Certo c’è sempre la possibilità di fare causa allo Stato per ingiusta detenzione o errore giudiziario. Anche qui ci vogliono tanti soldi, buoni avvocati e bisogna mettersi a sedere sulla riva del fiume con santa pazienza. Nelle righe del bilancio pubblico il Ministero dell’economia elenca le cifre che lo Stato è costretto a dare ai cittadini vittime di errori giudiziari. Solo per il risarcimento dovuto all’ingiusta detenzione si va dai quasi 40 milioni di euro del 2009 ai 22 milioni del 2014; negli ultimi 20 anni lo Stato ha dovuto pagare a cento cittadini vittime di errore giudiziario nel complesso più di 30 milioni di euro di risarcimento. Gente che magari non è neanche stata arrestata ma si è fatta tutta la trafila nelle aule dei  tribunali dal primo grado alla Cassazione per poi essere scagionata in seguito ad eventi ulteriori che ne hanno rivelato l’innocenza.

Nelle perverse dinamiche delle clamorose e lunghe inchieste che toccano soldi pubblici e imprese private si registra poi un altro fenomeno che solo i diretti interessati arrivano a conoscere: i manager indagati che lavorano nel privato spesso perdono il lavoro quasi subito ma non chi è nel Pubblico. Del resto in Italia la Pubblica Amministrazione non riesce neppure a licenziare chi in mutande timbra il cartellino e torna a casa, senza contare che fino al terzo grado prevale la presunzione d’innocenza. Ma il problema è che al terzo grado bisogna arrivarci con un lavoro e lo stipendio per pagare gli avvocati che, nel caso dei dirigenti pubblici, sono a carico dello Stato.

Come ci ha confermato l’ARAN, l’agenzia per la contrattazione nazionale, esiste per il personale pubblico la possibilità o di avvalersi gratuitamente dell’Avvocatura dello Stato o di vedersi rimborsate le parcelle in caso di legale privato “di comune gradimento”, scelto da subito e che informi l’Amministrazione passo passo durante il procedimento giudiziario. Per avere il rimborso occorre essere prosciolti, il processo deve essere attinente all’attività lavorativa e non deve esserci conflitto di interessi. E che dire poi della macchia che rimane nel CV di chi si è visto recapitare un avviso di garanzia oppure arrestare eppoi scarcerare e scagionare? Non certo una voce invitante per un cacciatore di teste anche se – come disse Sergio Cusani a noi cronisti giudiziari in una delle pause del suo famoso processo a Milano – “Non ho mai ricevuto così tante offerte di lavoro da quando il mio nome è uscito sui giornali”. Ma questa è un’altra storia, altri tempi, altra Italia e forse “altro” mercato del lavoro.

 

[Credits photo: WikiHow]

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