Il report firmato da Public Eye e Abiti Puliti mostra dati scioccanti: per le richieste del fast fashion partono venti aerei cargo al giorno, quando i trasporti via nave inquinerebbero quattordici volte meno. Analizziamo i marchi che volano di più
TTIP: le imprese italiane si schierano dalla parte del consumatore
Abolizione di dazi e dogane, abbattimento delle barriere tariffarie, omologazione degli standard legali e commerciali di Europa e Stati Uniti, le due aree economicamente più potenti del mondo. A fronte di tutele ridotte per il consumatore, per la classe lavoratrice e anche per la sovranità nazionale che, secondo i detrattori, sarebbe derogata a favore di […]
Abolizione di dazi e dogane, abbattimento delle barriere tariffarie, omologazione degli standard legali e commerciali di Europa e Stati Uniti, le due aree economicamente più potenti del mondo. A fronte di tutele ridotte per il consumatore, per la classe lavoratrice e anche per la sovranità nazionale che, secondo i detrattori, sarebbe derogata a favore di multinazionali e interessi statunitensi. Il tutto, condito da un alone di segretezza, in termini metodologici e contenutistici.
Insomma, il TTIP — Transatlantic Trade and Investment Partnership — fa discutere e un po’ ovunque, oltreoceano e in Europa, cresce il malcontento contro un accordo che, in apparenza, si prefigge lo scopo di rendere il commercio fra mondo vecchio e nuovo più fluido e penetrante.
Libere merci in libero Stato
Ma andiamo con ordine. In corso di negoziato dal 2013, l’obiettivo del trattato è quello di integrare il mercato europeo con il mercato statunitense, riducendo i dazi doganali e rimuovendo le barriere non tariffarie — le differenze tecniche, normative e procedurali applicate ai prodotti e alla sanità — in una vasta gamma di settori. Negli intenti, la circolazione delle merci sarebbe più libera, il flusso degli investimenti e l’accesso ai mercati facilitato; in futuro, il trattato potrebbe essere esteso a paesi terzi con cui le due parti già condividono accordi commerciali, con lo scopo di creare la più grande area di libero scambio esistente.
Per quale ragione, quindi, il trattato viene visto come una minaccia, se non come un vero e proprio pericolo? Secondo Monica Di Sisto, giornalista, vicepresidente dell’Associazione Fairwatch sul commercio internazionale e sul clima, e fra i promotori della campagna nazionale Stop TTIP: «L’applicazione del TTIP, negoziato in segreto tra la Commissione UE e il Governo USA, mira a costruire un blocco geopolitico offensivo nei confronti di Paesi emergenti come Cina, India e Brasile, creando un mercato interno tra noi e gli Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità non verranno più determinate dai nostri governi e sistemi democratici, ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali».
Sì, perché l’accordo, i cui stadi di avanzamento non sono stati resi pubblici e sono difficilmente accessibili agli stessi europarlamentari che dovranno approvarlo, prevede l’introduzione di due organismi tecnici che, al di fuori del controllo statale, sono chiamati a dirimere le controversie fra Stati e aziende.
«L’Investor State Dispute Settlement — prosegue Di Sisto — è un meccanismo di protezione degli investimenti, che consentirebbe alle imprese di citare i governi, qualora questi introducessero normative: a tutela del consumatore, del clima o della salute e in contrasto con i propri interessi. Inoltre, le vertenze non sarebbero più valutate da tribunali ordinari sulla base della normativa vigente, bensì da un collegio di avvocati commerciali, che giudicherebbero solo sulla base del trattato stesso e sul potenziale danno di uno Stato nei confronti di un’impresa».
E non è tutto. «Un terzo organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council — conclude Di Sisto — un organo dove esperti nominati dalla Commissione europea e dal Ministero degli Stati Uniti competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta, ma anche di ogni contratto di lavoro o standard di sicurezza operativo a livello nazionale, federale o europeo. A propria discrezione, quindi, sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile».
Il lato oscuro del trattato
La critica principale che viene mossa al TTIP è l’alone di segretezza dal quale sembrerebbe permeato. Secondo alcuni, dal punto di vista metodologico, più che contenutistico. «In questo momento è oggettivamente prematuro commentare i contenuti del trattato — commenta Massimo Monti, amministratore delegato di Alcenero, l’azienda bolognese che si occupa della produzione, della trasformazione e della vendita di prodotti biologici, con un volume di affari di 54 milioni di euro nel 2014 — anche perché i contenuti definiti ancora non esistono. Più sensato in questa fase, a mio avviso, è commentare le modalità che caratterizzano la gestione delle trattative, e soprattutto il livello di informazione e di condivisione garantito dai nostri politici. Credo sia fuor di dubbio che i temi esposti siano di estremo interesse pubblico, temi politici nel senso più alto del termine: come tali quindi debbono essere trattati, nell’interesse delle persone e non delle multinazionali, che sempre più ci governano. Non sono un USA detrattore, ma quando si parla di America è bene, su aspetti commerciali, essere molto cauti».
Infatti, il Parlamento europeo, dopo aver votato nel 2013 il mandato a negoziare esclusivo alla Commissione – come richiede il Trattato di Lisbona – potrà soltanto porre dei quesiti circostanziati, ai quali la Commissione potrà rispondere ma nel rispetto della riservatezza, obbligatoria in tutti i negoziati commerciali bilaterali. Nel frattempo non esiste diritto di accesso né di intervento sul testo. Gli stessi governi europei, se vorranno visionare le proposte statunitensi, dovranno accedere a sale di sola lettura presenti nelle ambasciate nordamericane, e non potranno prendere appunti o fare copia dei documenti. Qual è la ragione alla base di questa scelta, ci si chiede, a fronte della tecnicità e della complessità dei testi negoziali.
L’insostenibile inconsapevolezza del consumatore
Il TTIP coinvolge oltre 800 milioni di cittadini e due economie, il cui PIL complessivo corrisponde alla metà di quello mondiale. Certo, le differenze fra Europa e Stati Uniti sono innegabili. Le multinazionali statunitensi metterebbero probabilmente al bando la bistecca alla fiorentina a favore di una fetta di manzo allevato in batteria, mentre i nostri vieterebbero la svendita del prodotto nostrano in versione riveduta e corretta. Parmesan su tutti che, prodotto in barattolo in California si sembrerebbe si chiami italian souding. E dunque, perché e per chi può essere vantaggiosa l’applicazione del TTIP?
«Il principale vantaggio del trattato consiste nel fatto che chi vorrà esportare non sarà più sottoposto ai dazi che gli Stati Uniti applicano ancora oggi per difendere la propria economia”, commenta Vito Gulli, CEO di Generale Conserve, l’azienda genovese che opera nel settore dei prodotti ittici confezionati — D’altra parte, gli svantaggi sono notevoli e riguardano chi, all’interno della trattativa, è poco o non è rappresentato affatto».
Perché si sa, negli Stati Uniti ogni cosa è intensiva. L’obiettivo è sempre la massima resa, il massimo profitto. Ma quali sono i rischi in termini di qualità e di tutela della salute? Secondo dati CDC (Centers for Disease Control, l’organismo deputato al controllo della sanità pubblica negli Stati Uniti) sono circa 128mila i consumatori che ogni anno riportano intossicazioni alimentari; i decessi sono circa 3mila. In Europa il trattamento con anabolizzanti è vietato, ma le leggi possono essere aggirate facilmente e i rischi legati all’abuso di antibiotici sono stati ampiamente documentati: secondo dati Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control) ed Efsa (European Food Safety Authority) sono circa 4 milioni le infezioni da antibiotico-resistenza registrate ogni anno in Europa e sono circa 37mila i decessi. Già nel 2013, le colture transgeniche e biotecnologiche statunitensi superavano i 70 milioni di ettari. La normativa italiana, al contrario, non permette la coltivazione di prodotti OGM ma non ne esclude la commercializzazione, previa evidenza in etichetta se la presenza supera lo 0,9%. Ed ecco un altro punto di attrito fra la legislazione europea e quella statunitense: il TTIP, infatti, potrà impedire l’effettiva etichettatura dei prodotti Ogm, rendendo di fatto il consumatore inconsapevole rispetto al cibo che consuma.
Un rischio ulteriore legato al trattato, dunque, riguarda proprio la consapevolezza del consumatore in termini di dinamiche d’acquisto: «Solo il consumatore — prosegue Gulli — è il soggetto in grado di cambiare radicalmente le cose: attraverso le sue scelte di consumo. Ma con l’entrata in vigore del trattato, questi sarà sempre meno informato, sempre meno consapevole dei propri acquisti. Sarà un consumatore cieco e questo è un vero peccato».
Una terza differenza fondamentale fra il mercato agroalimentare statunitense e quello europeo consiste nel controllo della qualità dei prodotti e nella gestione delle misure sanitarie che ne sono connesse. E, mentre in Europa vige il sistema farm to fork, che monitora e controlla l’intera filiera del prodotto, gli Stati Uniti basano la sicurezza del consumatore sulla prova evidente di una connessione fra intossicazione e alimento. E questa prova decisiva non potrà che essere raccolta attraverso costose analisi a carico dell’intossicato. In caso di evidenze sanitarie e scientifiche poco chiare, il prodotto incriminato rimane quindi sul mercato.
Secondo il darwinismo, non sopravvive il più intelligente o il più forte, ma chi si adatta più velocemente al cambiamento. E gli Stati Uniti, con il sistema degli allevamenti intensivi che rendono i prezzi delle merci decisamente più competitivi, potrebbero vincere sul serio. «Perché dovremmo pensare che gli Stati Uniti, molto più potenti e contrattualmente forti, si dovrebbero piegare alle nostre esigenze?», commenta Monica Di Sisto. Gli Stati Uniti, infatti, sono fra i pochi Paesi che non si sono mai piegati a impegni obbligatori a salvaguardia della salute o dell’ambiente. Qualche esempio? Il Protocollo di Kyoto, appena archiviato anche a causa della loro ferma opposizione
Ma sì nat’ in Italì
Generale Conserve è un’azienda italiana che opera nel mercato dei prodotti ittici confezionati, il cui valore annuo è di circa 1 miliardo di euro. Il segmento più importante, circa il 60%, è rappresentato dal tonno all’olio — il celebre Asdomar — mercato in cui l’azienda si attesta al secondo posto, con un fatturato nel 2012 di 151 milioni di euro. La mission aziendale? È evidente dal claim: un percorso di qualità a 360°. Simile a quello di tante aziende italiane che puntano a una produzione virtuosa e a un modello di lavoro sostenibile. Sulla stampa si è spesso discusso del rapporto fra food e Belpaese e dei rischi e delle potenzialità legate alla tutela del Made in Italy e Generale Conserve rappresenta, quindi, un testimonial d’eccezione in questo senso. Secondo Vito Gulli: «Il Made in Italy si salva con il mercato interno e con la consapevolezza delle proprie scelte di acquisto. La soluzione? Leggibilità, trasparenza, valorizzazione della nostra expertise».
Ed ecco perché, vale infine la pena domandarsi se ed eventualmente come l’applicazione del trattato consentirà la tutela del prodotto Made in Italy. «Il cibo, la nutrizione, deve avere il ruolo che merita nella formazione e nel percorso culturale di tutte le persone di un Paese che voglia definirsi civile — conclude Monti. Sapere è poter scegliere: io credo che chi compri il parmesan non lo faccia credendo di comperare un prodotto italiano; credo che – molto più semplicemente – non abbia alcun interesse ai contenuti di quello che sta per mangiare, non gli importi, gli sia indifferente; credo voglia solo qualche cosa di saporito che soddisfi papille e aspettative sottodimensionate». Si tratta davvero di un’estremizzazione?
[Credits photo: Consumatrici.it]
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