Un nuovo atlante del lavoro lungo la via Emilia

Parlare di lavoro, senza filtro, fuori dagli stereotipi dei luoghi comuni, è un po’ come volersi mettere intorno a un tavolo con un foglio bianco, una matita e tanti colori, e provare a disegnare un nuovo mappamondo. Un atlante degli invisibili ai tempi dei navigatori e delle geo-localizzazioni. Operazione tutt’altro che nostalgica. Nonostante il tema […]

Parlare di lavoro, senza filtro, fuori dagli stereotipi dei luoghi comuni, è un po’ come volersi mettere intorno a un tavolo con un foglio bianco, una matita e tanti colori, e provare a disegnare un nuovo mappamondo. Un atlante degli invisibili ai tempi dei navigatori e delle geo-localizzazioni. Operazione tutt’altro che nostalgica. Nonostante il tema del lavoro sia sempre al centro del dibattito pubblico e di dotte discussioni di conferenzieri, politici e accademici, il rischio che stiamo correndo è che la materia del lavoro si stia come evaporando. La produzione si dematerializza. I lavoratori sono diventati quasi invisibili. I luoghi di lavoro sono diventati sempre più distanti, quasi impermeabili ai nostri sguardi.

L’invisibile non è ciò che non c’è; è ciò che non riusciamo o non vogliamo vedere. Quello di cui avremmo bisogno per aggiornare le nostre mappe cognitive è disegnare un nuovo atlante dell’invisibile. Non basta volgere lo sguardo di cura e attenzione verso chi vediamo tutti i giorni. Bisogna avere il coraggio di scorgere l’invisibile che vive tra le pieghe del reale. Esplorare nuovi spazi di democrazia urbana con occhi sempre nuovi, abbandonando lo status quo di guardiani dei recinti tradizionali.

Se utilizziamo le mappe delle statistiche nazionali, l’Emilia-Romagna è la regione che in virtù dell’export e della tenuta (o come va di moda oggi, della resilienza) dei principali settori industriali (manifatturiero, packaging, automotive, meccatronica, biomedicale, wellness, agroalimentare) costituisce la locomotiva della crescita economica del nostro Paese, con tassi equiparabili a quelli dei principali lander tedeschi. Com’è noto, il nuovo triangolo industriale italiano si è spostato a Nord-Est. Non più Torino-Milano-Genova, ma Bologna-Milano-Verona. Dove il vertice di Bologna si caratterizza per essere la prima città italiana per qualità del lavoro (fonte: I-cityRate) e la seconda area metropolitana per tassi di occupazione (fonte: Istat). Quello che però i dati e le statistiche non ci restituiscono sono le storie, le persone, le realtà che vivono dentro quei numeri. Le loro aspirazioni e le loro difficoltà.

 

Le virtù del “modello emiliano” del lavoro

Le principali virtù del “modello emiliano” possono essere racchiuse in quattro caratteristiche fondamentali. La passione per l’artigianalità, intesa come voglia di fare le cose. Per capire come mai qui sia nata la “Packaging Valley” basta andare a teatro a vedere la Maria dei dadi da Brodo, che racconta la storia di una donna/imprenditrice che insieme al marito, esperto di meccanica, per risparmiare tempo e migliorare la qualità della vita, inventa un sistema per impacchettare il glutammato da sodio (il dado da brodo). Nasce così l’impresa Corazza, che vende macchine impacchettatrici in tutto il mondo. Ima, GD e altri colossi del packaging sono una delle ragioni per cui, non a caso, anche una multinazionale come la Philip Morris decide di aprire la propria sede nell’area metropolitana di Bologna.

La seconda caratteristica che riguarda la produzione in Emilia-Romagna è che le cose qui si fanno insieme. Il Patto per il lavoro siglato dalla Regione Emilia-Romagna nel 2014 tiene dentro le organizzazioni sindacali e quelle confindustriali. Pubblico e privato. Un’idea di sussidiarietà circolare che riunisce le forze produttive e sociali in nome di una competitività territoriale in cui ognuno è chiamato a fare la propria parte. Non è un caso che a Bologna le politiche attive per il lavoro rivolte alle persone più fragili si facciano con la Curia, utilizzando risorse pubbliche e i proventi dei lasciti di una grande multinazionale come la Faac, dentro un progetto che si chiama “Insieme per il lavoro”, in cui si parte dai bisogni delle persone e dai bisogni delle imprese del board per finalizzare inserimenti lavorativi di persone fragili, intervenendo su un fallimento del mercato del lavoro rispetto a persone che altrimenti sarebbero considerate “scarti” improduttivi.

Qui arriviamo alla terza caratteristica fondamentale: l’elemento relazionale, dove il valore del lavoro non può ridursi a un mero fattore produttivo perché le persone sono fondamentali. Il terzo settore, il mondo del volontariato, l’associazionismo sono parte integrande del tessuto sociale e produttivo. Non è un caso che qui, e non altrove, nascano le cucine popolari dedicate ai senza fissa dimora, le social street di via Fondazza o i patti di collaborazione civica per la rigenerazione dei beni comuni urbani. L’imperativo per cui nessuno deve restare indietro è frutto di un modello culturale che reinterpreta il mito jeffersoniano sul valore delle opportunità.

La quarta caratteristica è l’orizzontalità. Orizzontalità significa accoglienza. L’Emilia-Romagna è così. Se guardate bene la cartina delle regioni italiane, l’Emilia-Romagna è l’unica regione orizzontale, sdraiata tra il Nord e il Sud come una cerniera dello stivale. Non è un caso che sia anche l’unica regione in Italia ad avere una via (la famosa via Emilia dei romani) nel proprio nome. Un elemento infrastrutturale che diventa un elemento identitario. Un luogo di passaggio necessario, per chi vuole attraversare l’Italia, che sta cercando di trasformarsi in luogo di destinazione. Del resto, il sistema ferroviario dell’alta velocità e il sistema aeroportuale hanno notevolmente accorciato le distanze, offrendo la possibilità a un luogo di transito obbligato di diventare in un possibile approdo. Turistico e di vita. Punto di attrazioni per migrazioni dal Sud d’Italia e dai Paesi Terzi.

 

Un nuovo atlante del lavoro

Fin qui le virtù hanno disegnato un modello di produzione industriale dove ancora si producono manufatti, beni e servizi, dove il welfare aziendale e la contrattazione di secondo livello sono concertati secondo modelli di governo del conflitto che portano a risultati innovativi. Come dimostra il recente caso della Ducati, nel quale la cooperazione non è solo un pilastro economico, ma un modo di vivere e pensare; dove la collaborazione civica è un’alternativa possibile alla competitività economica.

Un modello tutt’altro che perfetto ed esente da vizi. Un sistema produttivo che tende a ripiegarsi sulla pigrizia della comfort zone rispetto ai modelli regionali italiani più arretrati, piuttosto che a confrontarsi con i modelli europei più avanzati. Un sistema sociale tendenzialmente conservativo, per non dire consociativo. Punte di eccellenza di internazionalizzazione che coprono una diffusa cultura provinciale. Un sistema sempre più longevo e sempre meno giovane con problemi di tenuta del welfare nel medio-lungo periodo. Un territorio dove ormai trovare casa è diventato più difficile che trovare lavoro. Un sistema che ha bisogno di forti investimenti infrastrutturali (Cispadana, Passante, Porto di Ravenna) per crescere e per non rimanere ingolfato dal transito del traffico veicolare e affogato dai livelli di inquinamento dell’aria. Un sistema con più anticorpi di resilienza rispetto al resto d’Italia, ma che risulta ancora fragile rispetto alla competitività territoriale e alla colonizzazione finanziaria delle piattaforme degli algoritmi, che sfruttano le nostre città come luoghi di esecuzione delle prestazioni delle nuove fabbriche digitali.

Per aggiornare le nostre mappe cognitive dobbiamo essere consapevoli che oggi le politiche industriali si fanno sempre più su scala territoriale, avendo particolare riguardo alle dimensioni delle aree urbane metropolitane, e sempre meno per scelte (o per non scelte) di politica industriale fatte dai governi nazionali. In questo contesto, quale ruolo spetta all’ente pubblico territoriale? Non basta fare da facilitatore dell’attività d’impresa o essere chiamati in causa solo per la salvaguardia dei posti di lavoro nei tavoli di crisi aziendale. Un ente pubblico può e deve giocare un ruolo proattivo dentro un sistema di competitività territoriale. Se vogliamo preservare l’originalità del nostro tessuto urbano, evitando la desertificazione dei residenti dei centri urbani e la trasformazione delle nostre città in magnifici sfondi da cartolina per turisti, dobbiamo recuperare la capacità di mettere a sedere intorno a un tavolo le grandi piattaforme digitali (da Airbnb a Booking, da Foodora a JobX) non tanto per concordare un sistema di prelievo fiscale, ma per stabilire standard minimi di tutela e di salvaguardia dei diritti dei lavoratori sotto i quali non si può e non si deve andare.

Per questo abbiamo concluso il primo accordo metropolitano sulla Gig economy: a noi interessa la crescita dell’economia digitale e della sharing economy, ma non a tutti i costi. Non se il rischio imprenditoriale si scarica sui lavoratori attraverso un ritorno al passato del lavoro a cottimo, dove si rischia la vita lungo le nostre strada per lavorare a 5 euro l’ora, senza diritti e senza tutele. Il pubblico può promuovere la diffusione della cultura tecnica e accompagnare percorsi educativi e formativi lungo tutto l’arco di vita delle persone, sapendo che non esisterà più un lavoro per tutta la vita. Investire sulla conoscenza formale e informale perché il pensiero critico, le soft skills e la capacità di apprendimento possono essere chiavi per adattare la forza lavoro a un mercato del lavoro che cambia sempre più rapidamente e sempre più profondamente. Rimuovere quegli ostacoli che ancora oggi esistono in materia di mancanza di accesso al lavoro per i lavoratori più fragili. Colmare il gender gap per promuovere la piena e paritaria partecipazione delle donne (in particolare delle giovani under 35) al mondo del lavoro. Investire nel capitale umano attraverso l’attrazione di giovani talenti con l’università più antica al mondo e facendoli restare qui da noi. Evitare che il tema del lavoro venga schiacciato culturalmente sul tema del reddito, perché solo il reddito dal lavoro rende liberi e consente alle persone di contribuire al progresso materiale della società in cui vive.

Restituire valore al tempo di vita delle persone: questa è la grande sfida che il caso dell’Emilia-Romagna ha davanti a sé nel prossimo futuro. Per raccogliere la sfida della quarta rivoluzione industriale bisogna, da un lato, cercare di rifuggire dalla paura che l’industria 4.0 possa dematerializzare la produzione e far scomparire il lavoro ad alta intensità di manodopera e basso contenuto di conoscenza e, dall’altro, evitare all’opposto la superficialità di pensare che basterà adattarsi alla nuova transizione industriale replicando le ricette del passato. Bisogna arrivare preparati come sistema, consolidando i propri punti di forza e allenandosi a superare gli ostacoli ed i propri punti di debolezza.

Lungo la via Emilia si sta giocando un pezzo rilevante della cultura del lavoro nel nostro Paese. Per questo è strategico aggiornare le mappe cognitive sul mondo del lavoro e disegnare un nuovo atlante: per ricostruire un’idea collettiva di democrazia urbana dove restituire dignità e includere chi ha più bisogno, oltre il muro delle cittadinanze, dentro un destino comune.

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