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Viviana Guarini, psicologa della comunicazione, sull’attesa nell’era di WhatsApp
Oggi non possiamo più attendere: ce lo impongono velocità e immediatezza della comunicazione. Ma un antidoto esiste. La traccia C2 della maturità 2023 svolta da Viviana Guarini, psicologa della comunicazione, copywriter, autrice e formatrice
Dicono che c’è un tempo per seminare
E uno più lungo per aspettare
Io dico che c’era un tempo sognato
Che bisognava sognare
Cantava così Ivano Fossati in una delle più belle poesie che siano mai state musicate. Il tempo che era attesa, semina, raccolta e magia. Il tempo che era quello delle fate, quello del silenzio che si alterna alle parole e al rumore di sottofondo del giorno e che prende la forma dei sogni solo di notte. Il tempo che prima era anche quello della noia per essere finalmente niente, per essere finalmente nessuno, e che adesso invece quando non è produttivo è semplicemente tempo vuoto, angosciante, inutile. Non a caso Bauman, uno dei più grandi interpreti della società moderna, ha parlato del vuoto come dell’emozione del ventunesimo secolo.
Questo è il risultato della Società delle performance (Maura Gancitano, Andrea Colamedici – Tlon 2018) che ci ha reso attori protagonisti, spettatori costanti, performer a tempo pieno. E così quando si smette di performare a scuola si inizia a performare su Instagram, e quando si smette di performare in ufficio si inizia a performare su Facebook.
Anche le vacanze hanno smesso di essere il tempo del riposo e si sono trasformate in meri prodotti della società della performance: le mete sono scelte in base alla loro ambizione instagrammabile e condivisibile con il proprio pubblico virtuale.
Così pure il tempo dell’amore è diventato celere: lo status di fidanzato/a sui social network ci rende coppie di fatto autorizzandoci a una lacerazione profonda che oltrepassa la sfera del privato e “ci fa cadere addosso a vicenda” nella sfera pubblica, distruggendo l’autenticità dell’amore (come ci ricorda Hannah Arendt in Vita activa. La condizione umana). Sembrare innamorati diventa in questo modo più importante del processo di innamoramento stesso, che è fatto invece di tempo, di attese, e quindi di interrogativi.
È questo, infatti, il ruolo più importante dell’attesa: il porsi delle domande intime, profonde e trasformative. Saper convivere con il dubbio e la frustrazione, e con la verità più importante della vita: non è possibile avere tutto sotto controllo. Saper convivere con il dolore del tempo sospeso, in cui tutte le variabili sono possibili. L’attesa incarna questa moltitudine di significati, ma oggi non è più contemplata come una condizione accettabile.
Ritengo, tuttavia, che l’affermazione di Belpoliti “non sappiamo più attendere” sia una conclusione che rischia di essere banalizzata e svuotata di significato. Con il supporto delle tesi qui esposte credo sia molto più corretto sostituire il verbo sapere con il verbo potere: “Oggi non possiamo più attendere”. Non possiamo perché siamo schiavi di una velocità che ci è stata imposta dai signori dell’algoritmo e del turbocapitalismo, che nutrono i loro colossi proprio grazie alla nostra fame di celerità.
Non ce ne siamo accorti.
Non ce ne siamo accorti noi della generazione Y; non se ne sono accorti neanche quelli della generazione dei baby boomer, che di anticorpi avrebbero dovuto averne in abbondanza. E non l’hanno proprio mai conosciuta, l’attesa, i protagonisti della generazione Alpha.
Le doppie spunte blu di WhatsApp sono diventate il ritmo delle nostre giornate, delle nostre scadenze, delle nostre relazioni e delle nostre amicizie. Lavori, relazioni e amicizie oggi finiscono spesso, e in maniera preoccupante, a causa di una doppia spunta blu senza una risposta che rispetti gli standard imposti (scadenza che molto spesso non supera i trenta minuti). Non esiste più il diritto di essere online senza il dovere alla risposta: se si è connessi si ha un obbligo morale tacito, che è quello del feedback immediato.
Non importa che la domanda riguardi la quantità di zucchero che contribuisce a un ottimo liquore al cioccolato fatto in casa o l’invito a diventare il socio di una SRLS: il dovere della risposta immediata non è mai messo in discussione. Tutto è diventato importante e urgente, ma quando tutto è urgente allora niente più è urgente: Eisenhower lo aveva già profeticamente annunciato agli inizi del Novecento.
Siamo schiacciati da un tempo a cui ci siamo sottomessi volontariamente a causa di un ego collettivo ferito, che ha bisogno di non essere mai tagliato fuori, di essere sempre al passo, di essere considerato in ogni istante. Siamo vittime di una ferita narcisistica collettiva che non ci consente mai il tempo dell’attesa, e quindi dell’ozio.
A questo punto della riflessione, che non vuole tendere verso una conclusione nichilista, è fondamentale sottolineare come esistano ancora delle possibilità di salvezza da una strada tracciata che sembra essere diretta verso il dirupo. Questo antidoto si chiama spiritualità.
Spesso si confonde la spiritualità con la religione, ma essere spirituali impone in realtà una disciplina laica: dedicarsi al culto del silenzio almeno una volta al giorno, considerare il respiro il primo maestro di equilibrio, venerare i tramonti, benedire le albe, perdersi nei boschi, annaffiare le piante del proprio giardino.
Ogniqualvolta ci allontaniamo dalla nostra spiritualità ci perdiamo, perché la guarigione profonda necessita di questa inevitabile connessione fisica e non virtuale con l’universo attorno a noi. Tale consapevolezza impone un importante percorso di disintossicazione dalla dipendenza dalla velocità, sostituendo questa droga con il metadone più efficace: la noia.
Concludendo, più che di un elogio dell’attesa, avremmo davvero bisogno di un elogio della noia: un’alleata preziosa, unica, insostituibile, che potrebbe riuscire a medicarci le ferite.
Almeno per un po’.
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