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Vulnerabili, non disabili
I servizi per le fasce sociali più vulnerabili vedono il Veneto in testa alle classifiche per qualità, ma la burocrazia rimane il punto nevralgico. Un mondo di bisogni e di opportunità professionali in bilico tra un prima e un dopo crisi, tra mancanza di dialogo fra una realtà che cambia e istituzioni ancora troppo lente, […]
I servizi per le fasce sociali più vulnerabili vedono il Veneto in testa alle classifiche per qualità, ma la burocrazia rimane il punto nevralgico. Un mondo di bisogni e di opportunità professionali in bilico tra un prima e un dopo crisi, tra mancanza di dialogo fra una realtà che cambia e istituzioni ancora troppo lente, sebbene preparate.
Ce ne parla dettagliatamente la dottoressa Antonella Pinzauti, trent’anni di esperienza nel pubblico, attualmente direttore generale della fondazione nazionale MILC. Si tratta di una Onlus, l’acronimo della quale, My International Life Care, ne tratteggia l’obiettivo: sostenere direttamente e concretamente tutte le vulnerabilità e le fragilità dell’individuo, nell’intero percorso di vita delle persone e delle loro famiglie, a livello internazionale.
Per raggiungere l’obiettivo, la fondazione MILC realizza progetti di integrazione e sviluppo di soluzioni innovative, come spazi di accoglienza, interventi di residenzialità, semiresidenzialità e domiciliarità per anziani, prima infanzia, minori a rischio, persone con disabilità, malati cronici, pazienti psichiatrici e care givers, cioè il sostegno a largo spettro dei famigliari che si prendono cura di un congiunto malato o disabile.
Che cosa significa oggi lavorare in questo settore?
Significa sviluppare un’azione su tre fronti: istituzioni pubbliche, privato e volontariato. Queste gambe erano molto solide in Veneto prima della crisi, che ha creato qualche problema. Le piccole e medie imprese, che sono sempre state la forza dell’economia veneta e che sono una realtà tuttora presente, ne hanno molto risentito e come è naturale che sia quando si ha meno, si dà con più oculatezza. Anche in questo però c’è un aspetto positivo: la generosità degli imprenditori è diventata più partecipata, nel senso che se prima si dava con più facilità, ad esempio sotto forma di sponsorizzazione di eventi, donazioni, attività, oggi chi finanzia questo ambito è più diffidente, chiede giustamente riscontri degli effetti della donazione, il che li rende parte attiva del progetto che si fa in un territorio. Si tratta quindi di una sorta di parsimonia costruttiva.
Lei spiega che uno dei ruoli cardine lo gioca il volontariato. Tra l’altro il Veneto detiene il record nazionale di associazioni di questa natura. Un fenomeno molto particolare, che forse richiede anche una gestione straordinaria?
Diciamo che una componente da considerare sempre è il “virus” che spesso attacca il volontariato: il desiderio, da parte di chi lo esercita, di apparire, e non di fare qualcosa per gli altri genuinamente, senza altri fini. Non a caso assistiamo spesso a figliazioni delle associazioni di volontariato, dietro le quali non c’è un ampliamento delle stesse, ma vere scissioni che ne minano lo spirito di base. In questo modo ci si preclude la possibilità di un dialogo credibile con le istituzioni. Il volontariato infatti deve sia avere una funzione educativa – sollecitare il singolo e la collettività – sia essere la voce che fa pesare di più le fragilità. Non può essere solo forza, deve anche dare voce, prendere parte alle strategie e alle politiche; trovare il modo e il linguaggio corretto per parlare alle istituzioni.
Cosa manca oggi nei servizi per le fasce più vulnerabili, sia a livello nazionale che Veneto?
C’è sicuramente bisogno di formazione, di far crescere gli strumenti e le competenze. E soprattutto manca la capacità di cogliere il bisogno di innovazione, in una societa´cambiata a tutto tondo. Faccio un esempio. Un paziente oggi può chiedere di morire a casa, di essere curato da un medico palliativista a domicilio. Ancora: i giovani disabili e i loro genitori criticano oggi quei servizi che precedentemente erano giudicati buoni, come le comunità alloggio e le case di riposo, ambito in cui il Veneto è sempre stato molto attento e all’avanguardia. Questo perché le esigenze sono diverse da ieri e anche gli standard di alto livello finora mantenuti devono essere sconvolti a favore dell’ascolto. Che è poi quello che faccio io oggigiorno a tutti i livelli: ascolto. Cerco di mediare, di armonizzare i bisogni di una parte della società e le opportunità messe a disposizione dalle istituzioni. E dall’ascolto si comprende che oggi alle persone disabili un centro diurno non basta più, non bastano i laboratori occupazionali. Chiedono di “diventare” società, non di essere solo integrati, ma di essere inclusi. Come dire: centri diurni aperti, cioè entrano gli altri ma soprattutto escono i disabili, in una sorta di osmosi. Serve perciò la competenza all’ascolto. Ecco perché siamo tutti chiamati a una svolta, a una co-progettazione, che riduca i tempi di realizzazione degli adeguamenti. Se le istituzioni sono troppo lente, azzoppate dalla burocrazia, accade che quei bisogni verranno soddisfatti solo quando saranno diventati superati. Vecchi.
In una popolazione che invecchia sempre più, sono cambiati anche gli anziani?
Certamente. Finora il Veneto ha dato ottime risposte in questo ambito, infatti ha sempre ottenuto alti accreditamenti, che sono i parametri di valutazione del servizio. Basti guardare, tra gli altri, i servizi messi a disposizione per i malati di Alzheimer che purtroppo sono in continuo aumento in tutto il mondo. Anche in questo è una regione che dedica molta attenzione ai pazienti. Ci sono appositi giardini per loro, con percorsi mappati con colori tranquillizzanti, cespugli con bacche commestibili, situazioni di seduta adatte a loro. Questo sia nel pubblico che nel privato. Piu´in generale, oggi però agli anziani autosufficienti non basta più la residenzialità protetta, la libertà di muoversi nelle case di riposo che li fa sentire comunque ingabbiati. Chiedono una libertà di pensiero, di scelta; ad esempio di sedersi a pranzare con chi vogliono, di vivere in piccoli appartamenti. Ricordiamo il trinomio: abitare-lavoro-dignità. Chiedono un insieme di sentimenti, non solo quattro mura; di potersi relazionare con gli altri se vogliono e di rifugiarsi invece nell’abitare quando lo decidono. E la libertà di relazione è anche quello che chiedono i giovani disabili, nei casi in cui questo è possibile, naturalmente. Tutto ciò però spesso cozza con esigenze organizzative.
Che cosa l´ha portata, dopo trent’anni trascorsi in un ente pubblico, a passare al privato, al no-profit?
Dopo essere stata per tanto tempo il Direttore della Direzione (purtroppo si dice proprio così) dei servizi sociali della Regione Veneto, ho scelto di cambiare interlocutore. Ecco perché oggi sono il Direttore Generale di questa fondazione nazionale no-profit, la MILC, con sede legale a Milano e una sede operativa a Padova. Principalmente a spingermi verso il privato sono stati i tempi di esecuzione. Il pubblico, dovendo giustamente garantire il bene collettivo e gestire la cosa che è di tutti, ha regole più rigide, atte appunto a garantire la cosa pubblica. Col rischio però, come dicevo, di attuare provvedimenti quando sono ormai obsoleti. In fondazione invece i tempi e i modi sono più snelli e rapidi, meno vincolanti. Posso incontrare le parti interessate, mediare, interloquire e aggiornare le strategie di intervento molto più velocemente. I servizi alle fasce più deboli richiedono oggi grande maturità e un forte senso del prossimo. Servono nuove professionalità. Possiamo, ad esempio, fornire in tempi stretti formazione alle badanti, alle assistenti famigliari; possiamo dare assistenza a chi chiede di morire a casa, o a chi chiede un palliativista. Come fondazione cerchiamo di leggere i cambiamenti portando la cultura dell’attenzione e dell’ascolto.
Foto by Matthew Bennett via Unsplash
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