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C’era due volte in America
La rielezione di Donald Trump, quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, non è un’allucinazione di massa: al centro c’è una visione del lavoro che è anche l’identità (anacronistica) di uno Stato
Secondo un vecchio adagio statunitense, gli americani pensano democratico e votano repubblicano: nella loro testa si dipingerebbero volenterosi di estendere a tutti libertà, ricchezza e diritti; nel segreto delle urne però una buona parte di loro sceglie di votare l’ennesimo conservatore, sempre maschio e non per caso, ché il partito repubblicano non ha mai candidato una donna per concorrere alle elezioni presidenziali.
Per quanto strano, il meccanismo è reale. Una sua dimostrazione plastica si trova nel primo confronto della tornata elettorale del 2000, in cui si fronteggiavano il democratico Al Gore e il repubblicano George W. Bush, il primo compassato e preparatissimo, il secondo figlio di una famiglia di politici di lungo corso, indegno figlio di padre omonimo, considerato an oaf – “un idiota” – da diversi componenti del suo stesso partito. Durante il dibattito, Gore snocciola dati su dati e argomenta con metodo tutto ciò che afferma; Bush boccheggia, e quando l’avversario smette di parlare commenta: è tutta fuzzy math, “matematica confusa” che alla gente non interessa. Lo ripete per quattro volte nel corso del dibattito. Mesi dopo, vince le elezioni: se quei numeri non li capisce un candidato presidente, pensano i suoi potenziali votanti, avrò ben diritto a non capire neanch’io.
Il primo cambiamento, 24 anni dopo, sembra avvenuto proprio in questo campo: “In tanti, nell’America del 2024, non si vergognano più di pensare e votare repubblicano”, e men che meno di sostenere il candidato più impresentabile della storia statunitense, Donald Trump. “È la differenza più vistosa rispetto al 2016”, ci dice Maico Campilongo, ristoratore nella Silicon Valley e fondatore del marchio Terùn, a Palo Alto; i supporter del tycoon si sono fatti più sfrontati. Inoltre, tra i democratici della democraticissima California, dove non mancano comunque i repubblicani, serpeggia da tempo un’idea inquietante: “Se Trump dovesse vincere sarebbe come un vaccino, perché dopo questo quadriennio non potrà più essere rieletto”. Come a dire, in un modo o nell’altro la sua era finirà, e non potrà fare troppi danni. “Ad ogni modo io parlo dalla Silicon Valley, che è una terra parecchio avulsa dalla presenza di un presidente o di un altro, molto più avulsa che altri Stati”.
Così, Trump ha vinto, dopo una campagna elettorale che forse più di ogni altra si è combattuta anche sul piano del lavoro. È fin troppo facile dare dei cretini ai suoi elettori, o peggio ancora leggere nel suo successo chissà che magnetismo che porta i cittadini americani verso il male, perché il supporto che ha ricevuto non è affatto un evento di superficie. Al contrario, poggia su fenomeni socioeconomici colossali, originati dalla frattura tra due ere.
A volte ritrump: il paladino della middle class e le promesse sul lavoro
Work è stata la parola più ricorrente nei programmi elettorali di democratici e repubblicani.
Non a caso, la prima referente per entrambi i partiti è la middle class, quella classe media socialmente intraducibile che vive per lavorare e per spendere i suoi guadagni, alti abbastanza da condurre una vita agiata, ma insufficienti per accedere allo stile di vita delle élite. È da questo ceto che ha la sua prima origine il successo di Donald Trump: ferita dalla crisi del 2008, impoverita dallo spostamento a Est dello scenario economico globale, la classe media americana ha sentito vicina la sua estinzione – o, peggio, la povertà. I messaggi semplicistici di Trump dal 2016 le hanno fornito ciò che cercava: dei nemici (gli immigrati, la Cina, il parassitismo dei Paesi NATO) e delle soluzioni per riottenere i suoi privilegi. Poco importa che fossero prive di fondamento.
A una società affamata di lavoro, timorosa di perdere il benessere e la corsa dell’economia globale, Trump ha promesso occupazione: riportare la manifattura negli States, alzare i dazi sulle importazioni (10% per gli amici, 60% per i nemici, leggasi: la Cina), deportare milioni di immigrati (che anche negli U.S.A. “ruberebbero” il lavoro, o ruberebbero punto e basta), tagliare le tasse per gli imprenditori (e financo detassare le mance); il tutto mutilando la spesa pubblica su educazione e sanità. Lavorate, gente, lavorate: cura e tutela, nella sua America, vanno guadagnate. Ma in un Paese che da oltre un secolo esalta la produttività individuale e collettiva come solo modo per dare senso all’identità dei suoi cittadini, una promessa simile è tutto ciò che molti elettori vogliono sentire.
Così, negli anni, è avvenuto uno dei cambiamenti più clamorosi nella storia elettorale americana: tra chiusure e delocalizzazioni, la classe operaia, che fino all’altro ieri sosteneva convinta Obama, ha cominciato a votare repubblicano – a votare Trump.
Il miliardario antisistema è l’eroe di chi dovrebbe detestarlo
La leva principale del personaggio trumpiano, però, ha un’altra origine, ed è incorniciata dal secondo dibattito tra Trump e Clinton, nel 2016. In quell’occasione, incalzato sulla sua evasione fiscale, il tycoon ha ribaltato l’argomento denunciando la corruzione del sistema, e lo ha fatto dal pulpito più credibile: quello di chi l’aveva usato per arricchirsi, come lui – che nell’autodenunciarsi si diceva pronto a smantellarlo – e come i finanziatori occulti della sua avversaria; a suo dire i democratici non avrebbero fatto nulla per colpire “le élite”, come nulla avevano fatto negli anni precedenti, perché ci erano legati a doppio filo.
A Trump è riuscito di recitare due parti in commedia, sia il ricco che Robin Hood, il miliardario antisistema disposto ad ammettere che la sua fortuna derivi da una serie di storture che lui, bontà sua, sarebbe disposto a raddrizzare. Un argomento con due implicazioni: la prima è che sia abbastanza capace da conoscere e sfruttare le scorciatoie dell’imprenditoria (e quindi, in potenza, di “governare la nazione come un’azienda”), la seconda è che i ceti più bassi della popolazione, i poveri e gli impoveriti, quelli esclusi da ogni ascensione sociale, non abbiano colpe. Il difetto sta nelle sovrastrutture della nazione, nel contesto, nelle congiunture; non in loro. Un concetto giusto innestato su presupposti sbagliati, utile a chi lo brandisce per mantenere privilegi e immunità attraverso la promessa di toglierli ad altri. Non a caso, sul carro di Trump è salita anche una delle figure più ambigue del capitalismo mondiale: Elon Musk.
Da questo assunto fondamentale e dai suoi corollari, fatti di verità parziali, deformazioni e bugie pure e semplici, il consenso di Trump si è esteso alle classi sociali più svantaggiate e alle minoranze (in particolare afroamericani e latini), cioè a tutti coloro che, in teoria, avrebbero di più da temere da un suprematista bianco (si fa per dire), rappresentante della ricchezza più inveterata del Paese.
Da lì il trumpismo si è propagato come il fuoco nei territori delle corn, rust e bible belt, le tre cinture che tengono su le braghe a un’America ipertrofica con il lavoro nei campi, ciò che resta dell’industria pesante e la cristianità ortodossa; ambienti terrorizzati dal cambiamento che hanno visto in Trump la promessa di un ritorno a un’età nota, e in lui una sorta di messia, unto sì, ma di abbronzante.
L’assalto a testa bassa all’informazione, l’unico organo in grado di avversare questa retorica, completa il quadro: una delle tendenze più diffuse del populismo 4.0 assume con Trump una dimensione fenomenologica, in cui i fatti e le opinioni si mescolano, le menzogne utili diventano alternative facts, e le notizie scomode fake news.
In questa spirale che si autoalimenta l’unica fonte affidabile percepita dai seguaci di Trump è lui stesso, e ogni autorità esterna viene destituita di potere. La giustizia lo condanna? È perché temono che, una volta eletto, faccia “saltare il banco”. Le celebrità gli danno contro? Sono dei privilegiati che non dovrebbero permettersi di dire agli altri cosa fare. Gli ex collaboratori ne dicono peste e corna? È perché lui li ha licenziati (you’re fired!) per incapacità, cosa che “i democratici non fanno”.
La pochezza dei dem: “Temevamo che con Harris si finisse alla terza guerra mondiale”
A fronte di tutto questo, va considerata la pochezza dei suoi avversari, dal declino cognitivo di Joe Biden alla mediocrità di Kamala Harris, una privilegiata di sistema che non è mai stata in grado di rappresentare le minoranze pur facendone parte almeno sulla carta, e con uno spiacevole passato autoritario nei suoi trascorsi da Procuratrice generale della California. Harris aveva il compito non facile di distinguersi da Biden senza rinnegarne l’operato, obiettivo che non è riuscita a raggiungere.
“Harris non ha fatto niente per differenziarsi da Biden, ha dato prova di forte ipocrisia sulla posizione palestinese e non ha avuto un’idea propria di che cosa fare sull’economia. La sensazione era che votando Harris saremmo finiti dritti alla terza guerra mondiale”, racconta a SenzaFiltro Rob Dolci, manager italiano con cittadinanza americana, negli States da un quindicennio. “Trump invece ha puntato molto sulla cessazione dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente. Per fortuna si è reso conto di non poter fare tutto da solo, per cui ha messo in squadra Gabbard e Kennedy, due ex democratici molto ben visti da chi è più moderato. Nonostante i media dicessero il contrario, il sentimento che si percepiva parlando con la gente era di certo più a suo favore”.
Sui manifesti lei era Kamala dove lui era Trump, secondo quell’espediente che chiede di essere chiamati per nome per creare una confidenza posticcia. Nei programmi elettorali la situazione era ben diversa.
Il programma democratico di Harris è un documento di 82 pagine, curato e ricco di dati, grafici e pianificazioni; tutta fuzzy math in confronto alle 16 facciate di quello repubblicano, impaginato in modo elementare e pieno di suggestioni stringate quanto vaghe. I democratici avevano un piano credibile che puntava sulle piccole e medie imprese e alla de-escalation delle tensioni commerciali con l’Oriente: non è servito, e non ha raccolto il favore della categoria a cui più si rivolgeva – i lavoratori.
Certo, che all’interno del programma dem il nome di Trump sia citato per ben 135 volte non deve aver aiutato. Lo stesso avviene sul sito di Harris, che dedica un’intera pagina a contestare le intenzioni del tycoon, e lo chiama in causa una volta ogni due occorrenze del nome della candidata. Al contrario, sul sito (e sul programma) repubblicano, di Harris non compare neppure l’ombra.
La domanda, a questo punto, diventa quali saranno gli effetti dell’elezione di Trump. “Qui in America continuano a dire che l’economia farà faville, ma sarà vero per i più ricchi, non per la classe media”, prosegue Dolci. “Si spera che Trump continui con la politica di reshoring della produzione di tecnologie; è da vedere se Kennedy riuscirà a fare anche solo una parte minima di ciò che ha promesso sulla salute, visto che gli Stati Uniti hanno un’aspettativa di vita inferiore di dieci anni rispetto all’Europa, però pagando il doppio – le conseguenze di considerare la sanità un mercato e i malati dei clienti. La mia speranza personale è che si recuperi il rispetto per le istituzioni, che abbiamo perso dai tempi dell’avvicendamento tra Bush e Obama. Questo sempre che Trump non subisca altri attentati, o non venga perseguito per i suoi processi pendenti di qui a gennaio, cosa ancora possibile. In entrambi i casi, rischieremmo uno stato di forte tensione sociale”.
Le paure degli ex padroni del mondo
Trump non è l’autore di tutte le divisioni statunitensi, e di certo non è il nemico d’America. Gli U.S.A. si trovano nel mezzo di cambiamenti globali che li comprendono solo in parte, e che con buone probabilità segnano l’avvisaglia della fine al loro ciclo di egemonia, fenomeno a cui sono condannate tutte le civiltà di tutte le epoche. Il centro del mondo si sta spostando, in un processo economico e geopolitico destinato a provocare sconvolgimenti sociali presso chi, come gli States, ha goduto di un’economia dominante e si è strutturato per incarnare un modello produttivo che non ce la fa più.
Di fronte a questo scenario, gli scontenti e le fratture si manifestano in maniera indipendente da governi e presidenti. Trump li ha cavalcati a suo vantaggio, e per altri quattro anni l’America gli ha dato ragione: lo specchio di una nazione impaurita che si chiude in se stessa, affidandosi al secondo mercato interno più grande del mondo per accentrare la sua ricchezza, e battendo i pugni sul tavolo del commercio internazionale per spremere ogni dazio possibile.
Un Paese, insomma, terrorizzato all’idea di essere meno ricco o di finire in gabbia, escluso dal benessere che si è conquistato perlopiù con le cattive. Proprio come il suo presidente.
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Photo credits: donaldjtrump.com
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