Profughi sfruttati dal tessile: chi perde tutto non guadagna niente

“Se chiedo un contratto mi minacciano di mandarmi via perché clandestina”: storie di profughi siriani taglieggiati dal settore dell’abbigliamento, dalla Giordania alla Turchia

Dei profughi siriani sfruttati nel settore tessile lavorano alla macchina da cucito

Secondo un report di Business and Human Rights Resource Centre (BHRRC), i rifugiati siriani sfruttati nel settore del tessile in Turchia sarebbero oltre 650.000, tra cui anche minori. Il documento, basato su una ricerca sul campo iniziata nel 2017, che ha coinvolto 37 brand del settore dell’abbigliamento, ha rivelato che, mentre alcuni marchi come New Look, Next e SuperDry con sede nel Regno Unito, nonché l’etichetta spagnola Zara, sono stati giudicati in grado di intraprendere azioni sufficienti contro lo sfruttamento, altri hanno mostrato poche prove di azione per fermare lo sfruttamento dei rifugiati e hanno fornito informazioni insufficienti.

Tra i marchi con pratiche discutibili e risposte limitate figurano Aldi, Arcadia Group (che ospita marchi britannici come Topshop e Dorothy Perkins) e la catena di supermercati britannica Asda. Altre aziende, tra cui i marchi tedeschi Hugo Boss, New Yorker, Mexx e s.Oliver, nonché il marchio britannico River Island, non hanno risposto del tutto al sondaggio del BHRRC.

“Alcuni marchi di alta moda hanno fatto progressi nella protezione dei lavoratori, ma troppi, come Aldi, Asda e Topshop, sono molto indietro”, ha detto in una nota Phil Bloomer, direttore esecutivo del BHRRC. Dato che la maggior parte dei lavoratori è priva di permesso di lavoro, il Business and Human Rights Resource Centre ha affermato che molti rifugiati sarebbero esposti a un rischio maggiore di abusi.

Hikmet Tanriverdi, presidente dell’Associazione degli esportatori di abbigliamento di Istanbul, che rappresenta circa tre quarti degli esportatori di abbigliamento della Turchia, ha affermato che i lavoratori rifugiati siriani in possesso di permesso di lavoro sono protetti dalleleggi molto severe” del Paese sul lavoro. Tanriverdi ha anche definito “eccezioni” i casi di abusi, nonostante i numeri dicano il contrario.

Secondo Human Rights Watch (HRW) gli abiti prodotti in Asia, Europa orientale e altre parti del mondo “trovano la loro strada” nei negozi di Paesi come Stati Uniti e Canada; quindi, il problema non è localizzato e riguarda una forma di sfruttamento che coinvolge anche gli acquirenti finali. Secondo Human Rights Pulse (HRP) sono i lavoratori in Bangladesh quelli meno pagati al mondo, e spesso guadagnano meno del salario minimo stabilito dal loro stesso governo.

“I rivenditori di moda hanno la responsabilità sociale d’impresa di garantire la parità di trattamento all’interno della catena di fornitura; tuttavia, non sempre sono conformi”, si legge in un report di agosto 2020. Le fabbriche spesso sovraccaricano i propri dipendenti per ottenere profitti con rapidità. La campagna Conscious Challenge afferma, ad esempio, che “il 94% delle fabbriche cambogiane ha esaminato le violazioni delle norme sugli straordinari e ha scoperto che una fabbrica ha licenziato quaranta lavoratori per essersi rifiutati di fare gli straordinari”.

A infierire un ulteriore colpo al settore c’è stata la pandemia da COVID-19. Milioni di lavoratori dell’industria tessile, soprattutto in Asia, hanno perso il lavoro in conseguenza della crisi sanitaria. Secondo Care, un’organizzazione globale che mira a “salvare vite umane, sconfiggere la povertà e raggiungere la giustizia sociale”, il numero di lavoratori licenziati o sospesi ha continuato ad aumentare per almeno due anni.

Giordania, profughi siriani sfruttati e taglieggiati

Em Mohamed abita in una casa al terzo piano in un vecchio palazzo di Amman. Fuori dal portone di casa si sente il rumore della macchina da cucito che lavora. Seduto a cucire c’è suo figlio, Mohamed, un uomo di trent’anni con disabilità mentali di cui si si occupa da sola da quando il marito è morto sotto le bombe in Siria. In Giordania vivono nella condizione di rifugiati, e il loro status pone molte limitazioni rispetto all’inserimento nel mondo del lavoro regolare.

Grazie a una piccola associazione di volontariato Em Mohamed ha ricevuto una macchina da cucito per realizzare e vendere alcuni capi e guadagnarsi da vivere, arrotondando il magro sussidio destinato ai profughi di guerra. All’inizio lavorava da sola, poi si è accorta che il figlio era curioso, e così gli ha insegnato come si usa quell’apparecchio che “produce un rumore che lo rilassa”.

“Non immaginavo che gli sarebbe piaciuto, né che diventasse capace di realizzare un prodotto finito; invece mi ha stupito”, racconta la donna, che in Siria ha perso tutto quello che aveva e che non accetta di vivere di assistenzialismo. “Sto pensando al dopo di me, quando non ci sarò più. Vorrei che mio figlio fosse in grado di mantenersi ed essere indipendente. Il cucito gli ha cambiato la vita, ma nessuno lo assume regolarmente”, aggiunge commossa.

Em Mohamed ha cominciato a portare i lavori realizzati da lei e dal figlio al vicino mercato all’aperto, e tra i numerosi turisti che attraversano le stradine coi sampietrini molti si fermano e acquistano da lei. Alla gioia di poter lavorare e guadagnare subentrano presto le pressioni di chi, nel suq, si accorge della sua presenza e le fa capire che non è gradita. Così cambia zona, ma ogni volta viene mandata via. Una guerra tra poveri tra rifugiati e cittadini autoctoni.

La vita di Em Mohamed cambia quando viene contattata da un’azienda della capitale che, visti i suoi lavori, le commissiona il confezionamento di corredi da sposa: lenzuola, tovaglie, tende, asciugamani ricamati e altro. Lavora a casa per giorni insieme al figlio, felice di quel lavoro, anche se non si è parlato di contratto e non è stata concordata l’entità del pagamento. Il giorno della consegna del primo corredo arriva la delusione. La persona che l’ha contattata le propone un pagamento che copre appena il costo delle stoffe e della corrente e le lascia pochi dinari, poi le ricorda che lei lavora in modo clandestino, e che se non le va bene ci sono altre persone pronte e prendere il suo posto. La donna resta molto amareggiata, ma ha bisogno di quei pochi soldi, e soprattutto non vuole togliere al figlio quella che è diventata una motivazione di vita.

Mi sento sfruttata, umiliata. I tempi di consegna sono stretti, i lavori sono molti, ma ogni volta che provo a chiedere un trattamento più giusto vengo minacciata persino di essere denunciata perché lavoro senza licenza”.

Dalla Siria alla Turchia, poche lire per dodici ore di lavoro al giorno: “Mi minacciano di rimpatriarmi”

Nella condizione di Em Mohamed e di suo figlio vivono migliaia di famiglie di rifugiati siriani, iracheni, palestinesi e afghani. Il lavoro sottopagato e clandestino in cambio di pochi spicci. Le minacce continue. Nessun tipo di tutela e considerazione.

In Medio Oriente quello della Giordania non è affatto un caso isolato. In Turchia, Paese dove il settore del tessile rappresenta una delle punte di diamante dell’economia locale, la situazione dei lavoratori sfruttati è un fenomeno strutturato e diffuso su tutto il territorio. I siriani presenti ufficialmente sono oltre tre milioni e mezzo, e molti di loro riescono a ottenere di lavorare solo in modo clandestino. Migliaia sono anche minori che non vanno a scuola per via della mancanza di documenti regolari. Il fenomeno non riguarda solo i siriani, ma tutti quei migranti e rifugiati che si trovano in territorio turco e non riescono a ottenere documenti e permessi, né di conseguenza contratti di lavoro.

Samira e le sue due figlie, di dieci e dodici anni, sono originarie di Homs, città siriana devastata dai bombardamenti della guerra che è tutt’ora in corso. Il marito di Samira è scomparso dopo essere stato fermato a un posto di blocco e da nove anni di lui non si sa più nulla. Le figlie lo conoscono solo in foto. Dopo essersi rifugiata per anni a Kahramanmaras, una città turca di frontiera, vivendo prima in una sorta di baracca, poi in un alloggio più dignitoso, Samira è stata costretta a fuggire di nuovo con le figlie verso Istanbul, dopo il terribile terremoto del 6 febbraio scorso.

“Dalla Siria mi sono portata dietro solo alcune foto e il mio vero tesoro, le mie figlie e la mia professionalità come sarta, che mi ha permesso di lavorare e pagare l’affitto. Gli aiuti che riceviamo come rifugiate ci bastano appena per un po’ di spesa e per le cure mediche. Mia figlia Rawan soffre di asma e ha difficoltà di deambulazione, e non avendo i documenti in regola sono costretta a pagare le visite e i farmaci”, racconta.

Nella città epicentro del sisma la giovane mamma siriana ha fatto diversi lavori, sempre senza contratto né stipendio, ricevendo una paga settimanale in nero. Dalle pulizie di case e ambulatori al lavoro come aiuto cuoca, non sapeva mai dove lasciare le bambine e a volte se le portava dietro, finché non veniva mandata via proprio per questa ragione. Samira ha anche subito molestie sessuali da parte di un medico a cui teneva pulito lo studio, che l’ha minacciata più volte di denunciarla come clandestina se avesse parlato. Così ha cercato di trovare un lavoro nel settore in cui lavorava in Siria, quello del confezionamento e del ricamo di abiti da sposa e da cerimonia.

Non è passato molto tempo e un laboratorio artigianale, dopo un periodo di prova, ha accettato di farla lavorare. Viene molto apprezzata, ma ogni volta che ha chiesto di essere messa in regola, anche per poter finalmente ottenere i documenti per sé e per le figlie, ha ricevuto un diniego, e le è stato risposto che la porta di uscita è sempre aperta. Così lavora per poche lire, dodici ore al giorno, e a volte si porta alcuni lavori a casa, così anche le sue figlie iniziano ad aiutarla e la più grande impara a cucire i bottoni.

Aumentano le commissioni, ma la paga è sempre misera, e anche il lavoro della figlia viene pagato una cifra ridicola. “Se chiedo di ottenere un contratto e una paga dignitosa mi minacciano di mandarmi via perché sono clandestina. Non posso ottenere i documenti perché anche l’affitto che pago per il monolocale dove viviamo lo pago in nero, a una cifra che vale un affitto in un appartamento certamente più dignitoso. Mi sento continuamente ricattata”.

Dopo il sisma e la devastazione delle case e delle fabbriche di Kahramanmaras Samira perde di nuovo tutto, ed è costretta a fuggire verso Istanbul. Qui trova accoglienza per un periodo da una famiglia di rifugiati siriani, finché non ricomincia a lavorare. Samira parla solo davanti alla fotocamera smontata e si assicura che il registratore sia spento; ha il terrore di essere riconosciuta e di subire un’espulsione. Ha paura soprattutto per la figlia malata.

“Le mie figlie mi motivano, e anche quando mi sento disperata non mollo per loro. Il problema è che nemmeno qui mi fanno un contratto, e con il lavoro di oltre dodici ore al giorno pago appena l’affitto. Ora cuce anche la maggiore delle mie figlie, che non va a scuola perché senza documenti. Tutto in nero, sempre sotto la minaccia di essere denunciata e rimpatriata. A volte mi dicono che devo ringraziare perché mi fanno lavorare. Come se fosse un regalo. Io mi sto consumando gli occhi e la schiena e so di essere brava in ciò che faccio: non chiedo la carità, solo la correttezza e il rispetto. Non posso di certo rivolgermi a un sindacato, né fare denunce. Se davvero mi rimpatriassero temo che potrei essere uccisa. In Siria non ho più nulla e ho paura”.

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