Nella condizione di Em Mohamed e di suo figlio vivono migliaia di famiglie di rifugiati siriani, iracheni, palestinesi e afghani. Il lavoro sottopagato e clandestino in cambio di pochi spicci. Le minacce continue. Nessun tipo di tutela e considerazione.
In Medio Oriente quello della Giordania non è affatto un caso isolato. In Turchia, Paese dove il settore del tessile rappresenta una delle punte di diamante dell’economia locale, la situazione dei lavoratori sfruttati è un fenomeno strutturato e diffuso su tutto il territorio. I siriani presenti ufficialmente sono oltre tre milioni e mezzo, e molti di loro riescono a ottenere di lavorare solo in modo clandestino. Migliaia sono anche minori che non vanno a scuola per via della mancanza di documenti regolari. Il fenomeno non riguarda solo i siriani, ma tutti quei migranti e rifugiati che si trovano in territorio turco e non riescono a ottenere documenti e permessi, né di conseguenza contratti di lavoro.
Samira e le sue due figlie, di dieci e dodici anni, sono originarie di Homs, città siriana devastata dai bombardamenti della guerra che è tutt’ora in corso. Il marito di Samira è scomparso dopo essere stato fermato a un posto di blocco e da nove anni di lui non si sa più nulla. Le figlie lo conoscono solo in foto. Dopo essersi rifugiata per anni a Kahramanmaras, una città turca di frontiera, vivendo prima in una sorta di baracca, poi in un alloggio più dignitoso, Samira è stata costretta a fuggire di nuovo con le figlie verso Istanbul, dopo il terribile terremoto del 6 febbraio scorso.
“Dalla Siria mi sono portata dietro solo alcune foto e il mio vero tesoro, le mie figlie e la mia professionalità come sarta, che mi ha permesso di lavorare e pagare l’affitto. Gli aiuti che riceviamo come rifugiate ci bastano appena per un po’ di spesa e per le cure mediche. Mia figlia Rawan soffre di asma e ha difficoltà di deambulazione, e non avendo i documenti in regola sono costretta a pagare le visite e i farmaci”, racconta.
Nella città epicentro del sisma la giovane mamma siriana ha fatto diversi lavori, sempre senza contratto né stipendio, ricevendo una paga settimanale in nero. Dalle pulizie di case e ambulatori al lavoro come aiuto cuoca, non sapeva mai dove lasciare le bambine e a volte se le portava dietro, finché non veniva mandata via proprio per questa ragione. Samira ha anche subito molestie sessuali da parte di un medico a cui teneva pulito lo studio, che l’ha minacciata più volte di denunciarla come clandestina se avesse parlato. Così ha cercato di trovare un lavoro nel settore in cui lavorava in Siria, quello del confezionamento e del ricamo di abiti da sposa e da cerimonia.
Non è passato molto tempo e un laboratorio artigianale, dopo un periodo di prova, ha accettato di farla lavorare. Viene molto apprezzata, ma ogni volta che ha chiesto di essere messa in regola, anche per poter finalmente ottenere i documenti per sé e per le figlie, ha ricevuto un diniego, e le è stato risposto che la porta di uscita è sempre aperta. Così lavora per poche lire, dodici ore al giorno, e a volte si porta alcuni lavori a casa, così anche le sue figlie iniziano ad aiutarla e la più grande impara a cucire i bottoni.
Aumentano le commissioni, ma la paga è sempre misera, e anche il lavoro della figlia viene pagato una cifra ridicola. “Se chiedo di ottenere un contratto e una paga dignitosa mi minacciano di mandarmi via perché sono clandestina. Non posso ottenere i documenti perché anche l’affitto che pago per il monolocale dove viviamo lo pago in nero, a una cifra che vale un affitto in un appartamento certamente più dignitoso. Mi sento continuamente ricattata”.
Dopo il sisma e la devastazione delle case e delle fabbriche di Kahramanmaras Samira perde di nuovo tutto, ed è costretta a fuggire verso Istanbul. Qui trova accoglienza per un periodo da una famiglia di rifugiati siriani, finché non ricomincia a lavorare. Samira parla solo davanti alla fotocamera smontata e si assicura che il registratore sia spento; ha il terrore di essere riconosciuta e di subire un’espulsione. Ha paura soprattutto per la figlia malata.
“Le mie figlie mi motivano, e anche quando mi sento disperata non mollo per loro. Il problema è che nemmeno qui mi fanno un contratto, e con il lavoro di oltre dodici ore al giorno pago appena l’affitto. Ora cuce anche la maggiore delle mie figlie, che non va a scuola perché senza documenti. Tutto in nero, sempre sotto la minaccia di essere denunciata e rimpatriata. A volte mi dicono che devo ringraziare perché mi fanno lavorare. Come se fosse un regalo. Io mi sto consumando gli occhi e la schiena e so di essere brava in ciò che faccio: non chiedo la carità, solo la correttezza e il rispetto. Non posso di certo rivolgermi a un sindacato, né fare denunce. Se davvero mi rimpatriassero temo che potrei essere uccisa. In Siria non ho più nulla e ho paura”.