Il giornale lo fa l’IA? Muore il copia-incolla, non il giornalismo

L’edizione del Foglio generata dall’intelligenza artificiale ha suscitato un certo clamore e una pletora di previsioni nefaste sul futuro del giornalismo, quasi tutte ingiustificate. Fanno bene a preoccuparsi, invece, i passacarte del CTRL+C/CTRL+V

21.03.2025
Il giornale lo fa l'IA: l'edizione del Foglio generata dall'intelligenza artificiale

Il Foglio, cercando di dimostrare qualcosa di non ancora ben chiaro, ha deciso di uscire in edicola con un’edizione interamente realizzata dall’intelligenza artificiale. In queste ore tale trovata ha raccolto applausi scroscianti e spinto le illuminate riflessioni di tanti professionisti e sedicenti opinion leader sui network come LinkedIn: esperti di PR che invitano a valutare l’impatto dell’algoritmo nella creazione di contenuti degli addetti stampa; nuovi scenari futuristici per l’editoria su cui parlare e riparlare e straparlare; rischio di obsolescenza per i giornalisti, ormai prossimi a essere sostituiti dalle macchine.

I mediatori tra l’informazione e l’informato, tanto bistrattati e tanto odiati, unica categoria nell’immaginario collettivo che può competere con il CT della nazionale in termini di persone pronte a spiegargli come fare il suo mestiere, sostituibili come un bigliettaio con l’avvento delle emettitrici automatiche? Va bene. Prima di esagerare (anche se è già successo) è il caso allora di fare un passo indietro e tornare a uno dei classici problemi del giornalismo italiano: quello delle fonti. Rivisto in versione 2.0, 3.0, 4.0.

Per uscire con la sua bella pagina IA, il Foglio quelle informazioni di cronaca da qualche parte deve averle prese, non trovate? Ed è questo il vero, grande tema di quelli che stanno guardando la luna, ma non vedono il dito che preme pigro “genera” sul suo prompt. Tutto per dare a una dispendiosissima macchina (in termini di consumi energetici) l’onere di recuperare informazioni che – udite udite – sono state raccolte da altri giornalisti.

Questo a meno che non esista un’intelligenza artificiale che di mestiere fa il giornalistama quello vero. Quello di agenzia, che si segue tutta la conferenza e nota la frase stonata; che parla con gli avvocati, con le forze dell’ordine, finanche con i criminali per far uscire una storia; che si infila tra gli attivisti di un partito politico e ne evidenzia strane tendenze costituzionalmente riprensibili. Quello che si infila in un’auto con un cappuccio in testa e un rosario in mano per andare a parlare con un latitante in un luogo segreto, per farsi confessare che non c’entra niente con un noto fatto di cronaca. Finanche quello che va a vedersi il film per vedere se è davvero così bello come dice l’ufficio marketing, o va a mangiare in un determinato ristorante per vedere se non è esagerata la presa di posizione del suo addetto stampa.

Supponiamo invece che questo futuro distopico diventi realtà, come voleva ad esempio lo Zuckerberg non trumpiano che sognava di metterci dei visori e farci vivere in un noiosissimo (meta)universo parallelo. In questo futuro distopico i giornalisti non ci saranno più, lontani da Palazzo Chigi, dai tribunali, dalle sale stampa. Dalla strada e dalle persone. Senza quelli che la notizia la creano, la comprendono, la gestiscono, a finire in bocca ad algoritmi assertivi – perché difficilmente saranno dubitativi, addestrati al pensiero critico – sarà tutta una serie di veline che arrivano dalle istituzioni, dai politici, dagli uffici stampa, da polizia, carabinieri, esercito, forestale. Tutti a raccontare la propria versione dei fatti, reimpastati per bene da un algoritmo. con il risultato finale che farebbe impallidire perfino il Minculpop.

Per fare un parallelismo, basti pensare alle forze dell’ordine: quando le telecamere costavano tanto, erano ingombranti e richiedevano operatori in grado di usarle, il giornalismo si faceva in maniera diversa. Perciò, all’epoca, le operazioni di polizia, carabinieri e finanzieri venivano accompagnate spesso da fotografi, videomaker e giornalisti. Ora che con una telecamerina – ma anche uno smartphone – e un po’ di mestiere anche l’appuntato più inesperto può realizzare un video discreto, tale abitudine è andata scemando. Con estrema gioia delle forze dell’ordine stesse, che possono raccontare la storia solo dal loro punto di vista, ma con il rischio di perdere parti fondamentali per descrivere il contesto in tutta la sua interezza.

Estendiamo tale concetto a quanto sta accadendo e prendiamo per assunto che il giornale in IA può funzionare solo se un giornalista umano fa uscire la notizia a cui attingere. Un po’ come ricicciare le agenzie, per intenderci: abbiamo sublimato il copia-incolla, ma a rischiare davvero lo stipendio (sovente basso) è il deskista, che già da tempo era divenuto rimpiazzabile. Insomma, cari editori dell’informazione: usare l’intelligenza artificiale è solo uno sgarbo alla vostra forza lavoro, quella che dovrebbe darvi valore aggiunto e che trattate come se fosse sostituibile.

Tornando invece a quanti collateralmente profetizzano su un’informazione che cambia e sono già pronti a spendersi i loro due centesimi (come dicono quelli bravi su LinkedIn), mi spiace constatare che già da tempo in molti hanno scambiato un nobile mestiere con quella continua fiera della marketta che purtroppo si è appropriata del termine “giornalismo”. Ma il giornalismo è tutt’altro: come in un noto adagio attribuito a Orwell, si tratta di “diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia, il resto è propaganda”. E intelligenza artificiale.

 

 

 

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In copertina: mcblog.it

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