L’antidoto contro le bufale sta in ognuno di noi

È una primavera strana, indecisa, come l’umore di Guido Guerrieri, quando inizia questa vicenda. Avvocato penalista, messo all’angolo dalla separazione dalla moglie, è calato in un periodo intento a riflettere sulla propria esistenza. Guido tende a chiudersi in se stesso e, come interlocutore preferito, ha il sacco da boxe che pende dal soffitto del suo […]

È una primavera strana, indecisa, come l’umore di Guido Guerrieri, quando inizia questa vicenda. Avvocato penalista, messo all’angolo dalla separazione dalla moglie, è calato in un periodo intento a riflettere sulla propria esistenza. Guido tende a chiudersi in se stesso e, come interlocutore preferito, ha il sacco da boxe che pende dal soffitto del suo soggiorno ma, a smuovere questa situazione, arriva improvvisamente un cliente fuori dal comune: un giudice nel pieno di una folgorante carriera, suo ex compagno di università, sempre primo negli studi e nei concorsi, che si rivolge a lui perché lo difenda dall’accusa di corruzione mafiosa, la peggiore che possa ricadere su un magistrato. Quasi suo malgrado, l’avvocato si lascia coinvolgere dal caso e a poco a poco, lacerato dalla tensione tra regole formali e coscienza individuale, nonostante l’evidenza dei fatti, perde lucidità.

La fiducia nel linguaggio condiviso

In questo schema circolare sono evidenti non solo la competenza tecnica, relativa specialmente al processo penale, la conoscenza dei meccanismi d’aula e del modello legale, attraverso cui si amministra giustizia in Italia, ma viene esposto il dilemma psicologico che si ripropone continuamente a noi, come all’avvocato Guerrieri, protagonista simbolico che ci rappresenta tutti: nell’esercizio della ricerca delle informazioni e dell’interpretazione dei fatti, nella loro scrittura professionale, deve prevalere la procedura o la “Verità”?

La risposta è ambigua: come l’artista di Fitzgerald, citato nel romanzo, Guido, la persona, “ha due idee opposte in testa e riesce a credere a entrambe contemporaneamente“. Si fida dell’amico-cliente e, in un susseguirsi di episodi a tratti drammatici e a tratti comici, riesce a venire a capo della storia, ma non ne è felice: scopre che il magistrato aveva ricevuto davvero dei soldi, tra l’altro li aveva depositati in una banca svizzera per evitare qualsiasi forma di tassazione in Italia, e li aveva ricevuti proprio dal gruppo di indagati per mafia. Di fronte alla domanda esplicita dell’amico, se questi fossero invece l’oggetto della corruzione per cui era stato processato, il magistrato risponde fiero che i soldi erano stati un regalo e, per legge, lui aveva potuto accettarlo ma senza che questo infierisse sul suo giudizio e sulla decisione finale, in quanto anche senza omaggio la sua decisione sarebbe stata la stessa.

“Oggi la scrittura professionale è per lo più un esempio negativo di imprecisione e di oscurità. Scrivere bene, in ogni campo, ha infatti un’attinenza diretta con la qualità del ragionamento e del pensiero. Implica chiarezza di idee da parte di chi scrive e provoca in chi legge una percezione di onestà”. A scrivere così è Gianrico Carofiglio nel breviario di scrittura civile, Con parole precise, mentre si riallaccia al suo romanzo del 2014, La regola dell’equilibrio in cui si narra proprio la storia del magistrato protagonista di un caso di corruzione. Si rivolge così a tutti coloro che si occupano di scrittura nella vita, dal settore del diritto e della politica, a quello della comunicazione aziendale e del giornalismo per riflettere sul valore delle parole scelte e usate, quotidianamente da tutti, senza alcuna forma di equilibrio, in un gioco di telefoni senza fili che distorce la realtà dei fatti, se non la inventa del tutto.

“Come sosteneva Calvino, cercare di pensare d’esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile. Il male da estirpare è l’approssimazione”: è così che inizia la storia della trilogia di Einaudi che, attraverso le vicende di Guido Guerrieri, romanza l’esercizio professionale della ricerca della verità.

I nomi oscuri di chi si occupa di Digital

L'antidoto contro le bufale
Ciò che osserva Carofiglio sull‘importanza di utilizzare un linguaggio chiaro, coerente e comprensibile ci aiuta a riflettere non solo sui settori tradizionali in cui questo concetto si applica, ma anche, e soprattutto, su quanto accade in maniera fortissima nei settori emergenti che, se da un lato hanno ancora poca definizione per fisiologia, dall’altro già speculano su tale mancanza di forma. Figlie dellinnovazione del lavoro, molte aree dell’attuale mercato digitale usano etichette astratte, poco comprensibili, mix di latinismi e inglesismi, creando un nuovo linguaggio di nicchia fatto di concetti tecnici che, però, non servono a spiegare, a chi non si occupa della stessa materia, in che cosa consista una data professione né in che modo un certo professionista potrebbe effettivamente essere d’aiuto a un’impresa.

I nostri stessi colleghi, giornalisti esperti di lavoro digitale, o comunque web writer con la passione per l’innovazione, dicono che oggi fare il digital strategist è sicuramente il miglior lavoro che si possa fare ma, a leggere cosa sia e cosa faccia un digital strategist, viene il dubbio anche a una persona che fa questo stesso lavoro. Chi scrive non si interessa di conoscere approfonditamente ciò di cui parlerà, né controlla le fonti, non assume atteggiamento deontologico, non conosce affatto le regole abc della scrittura professionistica, come se sul web non si fosse tenuti a rispettarle.

I lavori del futuro sono anche quelli del web developer, del data scientist o del network engineer, che sono alcuni dei nuovi modi di chiamare i vecchi informatici, giornalisti e ingegneri. E fin qui tutto bene. A volte, però, avviene un’auto-attribuzione di competenze, background culturali, esperienze che fanno nascere nuovi lavoratori.

La prima bufala è dietro l’angolo: qualcuno magari ha scritto un blog e si è automaticamente definito nel proprio CV “content editor” o “digital content”, posizioni che non esistono, come anche grammaticalmente suggeriscono le parole messe insieme a caso: cos’è un editore del contenuto? Oppure, potrebbe essere attributo a una persona il “contenuto digitale”? In ogni caso, questi “content editor” scrivono quotidianamente commenti, blog post, articoli ed è plausibile pensare che, anche quando collezionano like e approvazioni, abbiano potuto copiare e incollare informazioni prese qua e là per ricucirle con una dose eccessiva di retorica dell’internet fatta di titoli da 100 caratteri sensazionalistici, molte domande e risposte definitive dagli altrettanto numerosi punti esclamativi.

Quale sia la seconda, più grossa, bufala tra lo scritto e lo scrivente è il lettore che, a posteriori, potrà deciderlo, purché impari a riconoscere, differenziare e difendersi da questi contenuti e da chi li produce.
Se pensavamo che il maggior pericolo delle bufale online provenisse da software o da account fake, che in rete si divertono a diffondere notizie provocatorie, gossip infondati e scandali politici, allora siamo lontani dalla compressione del fenomeno.

“Nel dilagare di articoli e discussioni intorno a come contrastare le bufale online, tra proposte di regolatori istituzionali della rete e mito dell’autoregolazione, tra giurie e tribunali, rimane ancora molto in sottofondo il tema della capacità di pensiero critico in rete. E che invece dovrebbe avere la priorità massima”, argomenta sullo stesso tema Nello Iacono, spingendosi a ragionare anche sulle iniziative che dovrebbe prendere la PA per ostacolare la diffusione di fake-news.
Ecco, allora, il nostro vero compito qual è: guidare gli altri nel cammino sul web, dar loro la chiave di comprensione di questo glossario strampalato, tradurglielo e semplificarlo, che essi siano lettori, imprese, professionisti di altri settori, perché hanno il diritto di comprenderci e decidere se seguirci o incaricarci di aiutarli a usare il digitale per il proprio business.

Un esperimento di social journalism come “antidoto”

Non solo bufale: proprio dal giornalismo online arrivano anche le soluzioni. Una buona idea da curi trarre ispirazione, sia come operatori che come lettori, è Newsela, un “antidoto” di social journalism nato per riscrivere ai bambini le notizie con cui ogni giorno i media bombardano anche loro, senza che essi siano preparati a filtrarle. Così, il gruppo sperimentale di Newsela, inizialmente formato da insegnanti e volontari ma poi estesosi anche a circa 140 giornalisti freelance che hanno trovato in questa formula una nuova risorsa, ha deciso di riprendere queste notizie, selezionarle, spiegarle al pubblico dei piccolini attraverso una formula linguistica più semplice, alla loro portata, con l’obiettivo che essi non solo possano effettivamente leggere le news, ma anche comprenderle. Molte classi statunitensi hanno iniziato a utilizzare questo strumento con l’obiettivo di stimolare la lettura dei giovani studenti e sembra che la voglia di tornare a farsi protagonisti dei contenuti che circolano e che parlano della nostra società, della nostra attualità, stia tornando a molti altri.

La riflessione è questa: è la lingua utilizzata, che sia giuridica, che sia medica, che sia giornalistica o appartenente a qualsiasi altra professione, a racchiudere in sé, più di ogni altra, i vizi dello scrivere male come conseguenza del pensare male, diventando esempio di un’ “antidemocratica bruttezza” , detta con le parole di Carofliglio.

“Ciascuno di noi dovrebbe prestare una cura disciplinata della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello (apparentemente) passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo. Anche perché solo parole che rispettino i concetti, le cose, i fatti possono rispettare la verità”, commenta su Il Blog del Mestiere di Scrivere, Luisa Carrada. Carofiglio vuole mostrarci come si può e si deve scrivere in modo più semplice e comprensibile. Sapere come fare può aiutare tutti noi a scrivere meglio, ma soprattutto fa cadere il velo della falsità e mostra per quella che è la lingua che utilizziamo “per lavoro”, una lingua sacerdotale e stracciona in cui formule misteriose e ridicole si accompagnano a violazioni sistematiche della grammatica e della sintassi.

Il senso è che, sulla scorta di questi esempi, il vero e unico antidoto contro le bufale online, comunque, restiamo noi, la parola che vogliamo leggere a nostra volta, cioè quella limpida e rispettosa delle parole e delle idee. L’appello è non rassegnarsi e pretendere che i rappresentanti di ogni categoria ci parlino con una lingua trasparente e precisa.

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