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Arancia metalmeccanica a Fabriano
Percorrendo la strada statale 76 da Ancona a Fabriano, viene da chiedersi come mai Fabriano sia considerata una provincia marchigiana. Il dubbio ti assale ancora più forte quando prosegui in direzione Perugia, superata la galleria che collega l’uscita Fabriano Est con quella Ovest, un tempo “quella della Cartiera”. Ventotto minuti, andando a ritmo moderato, per […]
Percorrendo la strada statale 76 da Ancona a Fabriano, viene da chiedersi come mai Fabriano sia considerata una provincia marchigiana. Il dubbio ti assale ancora più forte quando prosegui in direzione Perugia, superata la galleria che collega l’uscita Fabriano Est con quella Ovest, un tempo “quella della Cartiera”. Ventotto minuti, andando a ritmo moderato, per arrivare nel capoluogo dell’Umbria. Dall’altro lato una serie di cantieri, deviazioni, lavori maestosamente fuori tempo massimo, allontanano sempre di più questa cittadina dalla sua provincia di appartenenza.
Una volta qui era tutta campagna, dice un vecchio adagio. Nel caso di Fabriano è vero, fino a quando la campagna non si è trasformata in industria. Una delle più importanti industrie delle Marche, del centro Italia, e forse anche dell’intero Paese. Se a Falconara (Ancona) c’è un aeroporto, probabilmente è merito dei Merloni. Se Ancona e Roma sono collegate dall’alta velocità, anche. E il progetto della famosa Quadrilatero, la strada che collegherà Ancona a Perugia in un’ora – consentendo ormai ai fabrianesi di arrivare prima al mare o all’Eurochocolate più che favorire lo sviluppo industriale –, era uno dei temi più cari a Vittorio Merloni, che ha potuto contare per tanti anni sul legame con Gian Mario Spacca, Presidente della Regione Marche dal 2005 al 2015, anche lui fabrianese.
La monarchia fabrianese
Tra tutti i poli industriali delle Marche, Fabriano è quello che merita un discorso a sé stante. Perché ci troviamo di fronte a un caso, piuttosto raro, di monarchia industriale. Illuminata, in alcuni casi – la storia di Vittorio Merloni e dall’ascesa della sua multinazionale tascabile, la Indesit, non ha bisogno di endorsement –, ma che ha creato una serie di problemi strutturali e definitivi all’economia della città. “Se Jesi è una repubblica – mi ha spiegato Gian Pietro Simonetti, il più autorevole storico e studioso della città – Fabriano è una monarchia. Un vero e proprio sistema di governo che si è portata dietro un fallimento dal quale adesso è difficilissimo, se non impossibile, uscire”.
Su tutti i dati pesa quello di una disoccupazione giovanile del 30%. Secondo i dati diffusi dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps ed elaborati dall’Ires Cgil Marche, relativi all’anno 2017, si passa, a Fabriano, dai 5.025 dei disoccupati autocertificati al 31 dicembre 2016, ai 3.906 al 31 dicembre del 2017: 2.140 donne e 1.766 uomini. Una disoccupazione che non è destinata ad aumentare semplicemente perché ormai i giovani non si presentano nemmeno più nelle sedi degli uffici di collocamento o nelle agenzie del lavoro. Il dato più preoccupante, infatti, è intangibile: ad oggi a Fabriano non c’è una prospettiva, e la qualità delle competenze (professionali) non è adeguata a una riconversione ad altri settori, compreso il turismo spesso identificato come la panacea di tutti i mali.
Fabriano: metalmeccanici riconvertiti in pizzaioli
La situazione di crisi economica del Paese non consente di richiedere lo status di Zona Economica Speciale, in quanto creerebbe un precedente emulabile da decine e decine di altri territori con distretti produttivi in crisi. Non sussistono ragioni di vantaggio fiscale, contributivo e di costo del lavoro che possano sollecitare un trasferimento di altre produzioni nel territorio. Uno dei più grandi problemi del post Merloni – i fratelli per la cronaca sono tre, Vittorio (scomparso qualche anno fa dopo che una malattia terribile gli aveva impedito di dire la sua sulla cessione a Whirpool), Antonio (Ardo, JP) e Francesco (Merloni Termosanitari) – è quello dell’adattabilità dei lavoratori: per riconvertire delle competenze ci sarebbe stato bisogno di una formazione continua negli anni del boom o di una visione chiara ai primi segnali di crisi.
“A Fabriano – cito ancora Simonetti – gli operai metalmeccanici sono stati riconvertiti a pizzaioli, professionalità nobilissima ma inutile per insediamenti produttivi di tipo industriale”. Va da sé che gli inoccupati fabrianesi presentano un basso livello di occupabilità, perché gli ammortizzatori sociali ne hanno invecchiato le competenze, diminuendone l’attrattività e il potere contrattuale. A questo va aggiunto che la città, complice anche l’emigrazione dei giovani più scolarizzati, presenta livelli di qualità del capitale umano assai lontani dall’accettabile: le relazioni con l’università sono pressoché nulle, sebbene questo sia stato un tempo un polo dell’ingegneria meccanica (legata all’Indesit) e della carta (legata alla seconda industria cittadina, le cartiere Fabriano, che hanno pagato un dazio carissimo con il passaggio dalla Lira all’Euro).
Il Tasso di (de)crescita e la movida
Esiste anche un tasso chiamato Tasso di crescita delle imprese. È un indicatore che segnala il dinamismo imprenditoriale e lo spirito d’iniziativa di un territorio. L’area fabrianese vive una vera e propria moria d’imprese che alimenta un saldo negativo. Ciò dipende da un deficit di cultura d’impresa.
Semplificando, per tre generazioni i fabrianesi hanno ritenuto inutile svilupparne uno proprio (a parte alcuni casi che meriterebbero una menzione come la Gama Movie Animation, società di animazione di Gabrio Marinelli) dal momento che c’era già chi ci aveva pensato per loro: i fratelli Merloni, le famiglie Casoli e Urbani, queste ultime due nel business delle cappe. La crisi dell’industria ha quindi consumato la redditività del settore avanzato di servizi, ridotto all’azione di professionisti e microsocietà che hanno vivacchiato da terzisti – come molte imprese artigiane – grazie a piccole prebende dispensate dalla grande industria.
In compenso negli ultimi anni è esplosa la movida. Bar, ristoranti, locali, persino cinema trasformati in discoteche. Una sorta di deriva ungarettiana, un trend tutto da capire e studiare. È l’allegria dei naufragi, la dimostrazione che la certezza di un salario e la voglia di consumare un pasto fuori casa non sempre vanno assieme. Particolare da non sottovalutare: molti fabrianesi hanno incassato una buonuscita e in questi anni, numeri alla mano, hanno preferito spendere piuttosto che investire. Legittimo.
Il centro storico e la bolla immobiliare
La città non sembra quindi in grado di attirare investimenti perché le figure professionali più evolute tenderanno a non risiedervi. Sul centro storico (bellissimo, caratteristico, si gira in un’ora) grava ancora una scelta: quella della ricostruzione post terremoto del 1997. Quando le abitazioni, in gran parte seconde case, furono ricostruite per ospitare i professionisti che venivano a lavorare da fuori: le famose “figure professionali evolute” di cui sopra, quelle con una grande predisposizione alla spesa. Questi professionisti, spesso soli (vivevano a Fabriano dal lunedì al giovedì per poi scappare a fare il weekend a Roma, Milano, a Cortina o, d’estate, in un luogo di mare), cercavano case piccole e furono accontentati. Risultato: nel centro storico oggi ci sono pochissime case per famiglie e la maggior parte di queste abitazioni sono impossibili da affittare.
Il mercato immobiliare è fermo. Il valore patrimoniale degli immobili privati è in caduta libera per eccesso di offerta e per una vendita massiccia di seconde case finalizzata a evitare un pesante prelievo fiscale sulle famiglie. E se una volta si faceva la corsa a trasformare terreni agricoli in terreni edificabili, oggi si è tornati a fare il contrario. Ma se è vero che un tempo era tutta campagna, è anche vero che questo tipo di competenze, quelle agricole, si sono perse nella notte dei tempi.
La (nuova) impresa fabrianese
Questo è il peso dei vincoli strutturali. Qualsiasi idea e proposta di futuro non può che fare i conti con queste condizioni molto difficili – non impossibili, sia chiaro: la Best, acquisita e riconvertita da Electrolux dà lavoro a circa duecento persone, la Faber è una delle poche aziende che continua ad assumere (sono ben tredici le posizioni aperte questa estate su LinkedIn, alcune anche per figure professionali di rilievo) – e partire da un concetto: Fabriano ha assoluto bisogno di essere reindustrializzata, ma non può essere reindustrializzata perché la crisi ha reso impossibile conseguire condizioni minime di attrattività del capitale. Una verità che comporterà scelte dolorose nei prossimi anni, quando la strada statale 76 sarà pronta fuori tempo massimo e l’effetto “movida” si attenuerà.
Quello sarà il tempo delle scelte: agricoltura, enogastronomia – “non sarebbe ora di consorziare il salame di Fabriano?” – turismo di alta fascia o nuova industria. Sono tutte decisioni che implicano una visione di insieme e una nuova consapevolezza: il re non c’è più, bisogna coinvolgere i giovani nella costruzione di una nuova impresa fabrianese. Un’impresa ardua, durissima, ma non impossibile.
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