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Automotive, il mercato chiede l’elettrico e la Puglia non risponde: alla Bosch rischiano in 600
L’Italia non ha ancora un piano automotive per riconvertire la produzione in vista del 2035: così Marelli taglia su Bari e apre un impianto a Colonia. Capiamo perché la questione dello stabilimento Bosch barese ha un’eco continentale con Ciro D’Alessio (FIOM CGIL), Fabrizia Vigo (ANFIA) e Leo Caroli (task force per l’occupazione Regione Puglia).
La transizione energetica è il nuovo incubo dei lavoratori della Bosch di Bari, l’impianto più grande del segmento automotive pugliese con i suoi 1.720 addetti, condiviso con i colleghi della Marelli e degli altri stabilimenti produttivi baresi e pugliesi, da cui vengono fuori motori e parti di motore che non saranno più producibili e commerciabili tra 14 anni.
La Commissione dell’Unione europea, lo scorso 14 luglio, ha reso nota la strategia elaborata per ottenere i risultati climatici fissati – taglio del 55% delle emissioni di CO2 al 2030, rispetto ai livelli del 1990, e neutralità carbonica al 2050 – e propone di ridurre progressivamente le emissioni delle auto nuove fino ad arrivare al 100% nel 2035, rispetto ai livelli del 2021.
A partire dal 1° gennaio 2036, dunque, saranno vendute esclusivamente auto elettriche o a idrogeno. “E a Bari cosa si farà?”, si chiede Ciro D’Alessio, segretario generale della FIOM CGIL barese, già impegnato a gestire la difficile e complessa vertenza Bosch che, ad oggi, minaccia “la fuoriuscita di 5-600 unità”, accomunando il destino dell’impianto pugliese a quello di un analogo sito produttivo francese, ridimensionato dal gruppo tedesco – o, peggio, a quello dei due siti spagnoli chiusi del tutto.
Il mercato premia le auto elettriche, ma la Bosch di Bari resta al palo
In effetti, prima ancora della Commissione UE, a indicare le prospettive dell’automotive è stato il mercato.
“A marzo le auto nuove diesel, per il secondo mese consecutivo, non superano la soglia del 25% di quota, e rappresentano il 24,1% del mercato di marzo e un quarto dell’immatricolato del primo trimestre 2021. Più bassa rispetto ai mesi precedenti anche la quota delle auto a benzina: 31,2% nel mese e 33,3% nel primo trimestre. Le vetture elettrificate rappresentano più di un terzo del mercato (36% nel mese e 33,5% nel cumulato). Tra queste, le ibride non ricaricabili rappresentano il 27,3% del mercato di marzo – superando per il secondo mese consecutivo la quota del diesel – e il 27% dell’immatricolato del trimestre. Le ibride ricaricabili, invece, raggiungono l’8,7% di quota.”
I dati collazionati dall’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica sono chiaramente interpretabili: il diesel è già il passato; l’elettrico è già il futuro. E nel quartier generale della Bosch lo sanno tanto bene da decidere di investire circa 1,5 miliardi di euro nel “nuovissimo stabilimento” cinese di Wuxi “che fungerà da centro operativo per la progettazione e la produzione di componenti, come le celle a combustibile, per le case costruttrici cinesi”, continua D’Alessio. Perché? “Secondo alcune previsioni, entro il 2030 potrebbero circolare in Cina un milione di vetture alimentate a idrogeno”.
Anche in Europa ci sono progetti di transizione energetica marcati Bosch: “Con l’azienda svedese Powercell si sta sviluppando la pila a combustibile, che sarà prodotta su larga scala a partire dal 2022; in Germania stanno portando avanti progetti importanti sull’industrializzazione della cella a combustibile negli stabilimenti di Bamberg, Feuerbach e Homburg”. A Bari? “Mai una risposta sul futuro”.
L’Italia senza “piano automotive”: quali rischi per l’occupazione?
Il timore dei lavoratori è che si possa replicare in peggio quanto è accaduto alla Marelli (ex Magneti Marelli, sempre del gruppo Stellantis), circa 1.300 addetti, dove 688 dipendenti lavorano al motore tradizionale e il resto a quello elettrico. Prima della pandemia l’azienda ha annunciato investimenti per 55 milioni di euro destinati all’espansione delle linee motore elettrico e al rafforzamento di quelle per l’endotermico, indicando Porsche tra i maggiori e più prestigiosi clienti esteri.
“Proprio Porsche, nel bel mezzo della crisi pandemica, ha deciso di cambiare strategia programmando disinvestimenti sul sito di Bari per circa 15 milioni di euro – ricostruisce il segretario della FIOM CGIL – e ha ‘costretto’ Marelli a realizzare un impianto ex novo a Colonia per produrre quanto si doveva a Bari. È la prima volta, a mia memoria, che il cliente decida dove localizzare l’investimento del proprio fornitore.”
È l’effetto della ripresa della concorrenza tra i Paesi dell’Unione Europea, alle prese con le opportunità e le crisi inevitabilmente generate dalla transizione energetica. “Gli obiettivi posti alle aziende produttrici sono molto stringenti – afferma Fabrizia Vigo, responsabile delle Relazioni istituzionali di ANFIA – e in Germania come in Francia esiste già un ‘piano automotive’ realizzato per mettere a frutto gli strumenti nazionali ed europei di sostegno e incentivazione. L’Italia deve adoperarsi subito per definirlo”, e dunque soffre più di altri “la mancanza di un coordinamento tra governi”, indispensabile quando il confronto è con multinazionali che hanno impianti produttivi in più Paesi UE ed extra UE.
“La prospettiva occupazionale è assai critica e il Governo non ha compiuto le scelte necessarie nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, aggiunge Leo Caroli, presidente della task force per l’occupazione della Regione Puglia. “Ora più che mai servono politiche di sviluppo coerenti con quelle degli altri Paesi e dell’UE, giacché in Italia non ci sono più cervelli produttivi”.
Un problema continentale. I numeri della transizione nella filiera automotive
La vertenza barese, dunque, è parte integrante e integrata della più ampia vertenza continentale che interessa 3,7 milioni di lavoratori in UE “addetti a una filiera produttiva – continua Vigo – che se pure fosse interamente riconvertita all’elettrico e all’idrogeno genererebbe la riduzione dello 0,8% delle emissioni di CO2 a livello globale”.
Per comprendere appieno la dimensione nazionale del tema e del problema: la filiera conta 5.546 imprese attualmente operanti che impiegano 278.000 addetti, tra diretti e indiretti, vale a dire più del 7% degli occupati del settore manifatturiero italiano; il fatturato è di 106,1 miliardi di euro, pari all’11% del fatturato della manifattura in Italia e al 6,2% del PIL italiano; la quota di prelievo fiscale è pari a 76,3 miliardi di euro.
Gli obiettivi della Commissione UE erano noti – “la politica non può dire ‘non ce l’aspettavamo’, perché sono anni che lanciamo alert”, sottolinea la responsabile Relazioni istituzionali di ANFIA – e ora bisognerà farci i conti.
Come prevenire la crisi dell’automotive in Puglia (e non solo)
Innanzitutto, bisogna incrementare la produzione: “I nostri impianti immettono pochi veicoli sul mercato”, sostiene Vigo. “Bisogna arrivare almeno a un milione l’anno per reggere la concorrenza”. Quindi, bisogna attuare programmi di riconversione produttiva e occupazionale come quello concordato tra sindacati e Marelli: “Abbiamo attivato il ‘fondo nuove competenze’ – afferma D’Alessio – e procederemo al transito dei lavoratori dall’endotermico all’elettrico sulla base dei movimenti di mercato”.
Infine, bisogna “che il Governo compia scelte nette sull’incentivazione all’acquisto – indica Caroli – puntando tutte o la gran parte delle risorse sull’elettrico e l’idrogeno, quando arriverà; al contrario, le rottamazioni a pioggia magari faranno sopravvivere qualche impianto, ma non produrranno effetti di sistema duraturi”.
E poi ci sono gli investimenti, da programmare e realizzare a breve-medio termine, sull’infrastrutturazione della rete di distribuzione per le auto alimentate elettricamente e con l’idrogeno, lo smaltimento delle batterie e l’approvvigionamento delle terre rare, la formazione specializzata per gli attuali e i futuri addetti.
“Abbiamo bisogno di un centro di gravità permanente in cui coesistano e collaborino istituzioni, aziende e sindacati – ipotizza Leo Caroli – con l’obiettivo di indicare le strategie, quantificare le risorse e programmare le tappe del processo di conversione.”
“C’è bisogno di fare sistema a livello nazionale e settoriale”, concorda Fabrizia Vigo, “altrimenti i territori, come quello barese o pugliese, non potranno cogliere le opportunità che pure ci saranno e non potranno salvarsi nel mercato globale”.
Photo credits: bosch-press.it
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