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Basta con la favola dei giovani che non vogliono lavorare
I media tradizionali continuano a rilanciare notizie false su giovani che non avrebbero voglia di lavorare. Neanche i giornalisti ne sono immuni?
Quante notizie false circolano sul mondo del lavoro e della ricerca di un impiego? Tante, non c’è dubbio: non solo nei social network, anche in organi di informazione autorevoli. Con il rischio di demotivare, disorientare e mortificare – magari in un solo colpo – chi cade nella trappola di altalenanti illusioni e disillusioni.
Un esempio è la voce, ripresa a suo tempo da tanti media, sulle presunte resse (e risse) tra aspiranti fruitori del reddito di cittadinanza: si diceva che fossero accorsi davanti agli uffici preposti un istante dopo l’annuncio dell’intenzione di varare il controverso provvedimento. Però la superstar delle bufale in questo campo è quella che spesso porta alla conclusione – nella chiacchierata al bar così come nelle redazioni e nelle stanze della politica – che “i giovani non hanno voglia di lavorare”. Non ne avrebbero voglia nonostante una disoccupazione record – da tempo attorno al 30%, secondo l’Istat – tra gli under 24.
Le aziende che non trovano collaboratori, notizia falsa per eccellenza
È una teoria campata in aria o, per lo meno, superficiale. Però trova “conferma” in valanghe di articoli e servizi televisivi, sfornati ogni qual volta un qualsiasi imprenditore fa sapere che non trova giovani disposti a essere assunti, nonostante incoraggianti stipendi; di solito, subito dopo proliferano editoriali dedicati alla gioventù bambocciona, viziata e impigrita. Ecco un esempio tipico, apparso su un quotidiano importante: “I giovani sono restii ad accettare un’occupazione che li impegni nei week-end, nei festivi e in orari notturni. Inoltre, poco gradite sono anche le posizioni effettivamente pesanti in termini di mansioni, come quelle che si possono trovare in edilizia, agricoltura, allevamento, panificazione, tessile, pulizia e sanità”.
Fatto sta che la presunta informazione, una volta finita sui media blasonati, rimbalza nei social network, in un tripudio di commenti a proposito di un mitico passato, più o meno lontano, in cui i ragazzi lavoravano a testa bassa e ovunque. Quasi sempre si scopre, dopo un po’ e troppo tardi, che la “notizia” non è vera. Oppure si viene a sapere che molte di quelle aziende continuano a cercare i dipendenti entro pochi chilometri dalla sede; o che spacciano per ruoli da supertecnici i posti da stagisti, magari dopo aver incentivato l’allontanamento di persone veramente specializzate, che avrebbero potuto offrire la loro esperienza ai più giovani.
Purtroppo però, quando esce l’ennesima voce sull’imprenditore che vuole assumere ma non ci riesce, troppo spesso vari professionisti dell’informazione non vogliono approfondire. Non si chiedono in che modo quelle aziende cercano i collaboratori; non fanno domande per verificare se le imprese sanno usare il web nelle campagne di assunzione oppure se fanno ricorso soltanto al passaparola, o al massimo a qualche agenzia di lavoro interinale. Sarebbe utile che i giornalisti facessero verifiche sempre, in questo come in altri campi. Anche perché è difficile rimediare in seguito, una volta che la falsa notizia è stata diffusa e il pregiudizio sui giovani è stato servito online.
Colpa del web o dei professionisti dell’informazione?
Per capire come le notizie false riescano a passare per vere bisogna guardare il fenomeno più dall’alto. Prima ammettiamo, a costo di fare sommessamente autocritica, un dato di fatto: fino a qualche mese fa molti di noi, magari forti della sensazione di essere vaccinati almeno sul fronte delle bufale, esibivano sorrisini di compatimento nei confronti di frotte di presunti ingenui pronti ad abboccare all’amo.
L’esperienza della pandemia – nel cui terreno di coltura sono cresciute rigogliose frottole di ogni tipo, dalle cure miracolose al negazionismo, dal complottismo a Nostradamus – ci ha resi tutti meno presuntuosi e più vulnerabili: alzi la mano chi, anche tra i meno ipocondriaci, non ha creduto, magari solo per qualche istante, almeno a una delle menzogne di turno sul fronte del COVID-19.
Dopo questa presa di coscienza, va ricordato che da alcuni anni a questa parte viene molto usata una locuzione in inglese, fake news, per identificare i singoli elementi che contribuiscono alla pandemia di falsità. Significa letteralmente “notizie false” e viene utilizzata con riferimento al mondo dei mezzi di informazione di ogni tipo.
Infatti le informazioni “taroccate” – come abbiamo visto parlando di quelle dedicate al lavoro – imperversano anche su media blasonati di carta e digitali; oltre che su Internet, dove la prateria dei social network consente il dilagare di ogni sciocchezza. A volte le pseudo-notizie sono citate in modo critico; più spesso vengono diffuse a raffica, strumentalmente o inconsapevolmente; talvolta proprio con la complicità, a sua volta più o meno consapevole, dei media composti da professionisti.
Notizie false: la responsabilità non è dei lettori, ma dei giornalisti
Questa premessa è opportuna per comprendere che la dilagante espressione “fake news” è un comodo e generico contenitore buono per tutte le occasioni, a costo di apparire a sua volta una falsità qualora sia utilizzata per nascondere mandanti, esecutori e scopi. Tanto che a questo tema è appena stata dedicata una ricerca svolta da sei ricercatori (con base in atenei di Olanda, Svezia, Austria e Israele), pubblicata recentemente negli “Annals of the International Communication Association”; è intitolata Causes and consequences of mainstream media dissemination of fake news: literature review and synthesis (Cause e conseguenze della diffusione di notizie false da parte dei media professionali di massa: revisione e sintesi della letteratura).
Gli studiosi hanno rilevato che le notizie false pubblicate da siti web “specializzati” in bufale fanno presa in modo diretto su una piccola frazione degli utenti di Internet. Però i dati dimostrano che gran parte della gente apprende da altre fonti le stesse notizie false, e che le divulga online e altrove perché ci crede. Quindi è plausibile che la maggior parte delle persone venga a conoscenza di fake news “non da siti web di notizie false, ma attraverso la loro copertura nei principali organi di informazione” (dalla carta stampata e dai siti ufficiali dei media professionali fino alla radio e alla tv); questi ultimi quindi hanno un ruolo molto importante nella diffusione della disinformazione.
Come ha commentato Pierluca Santoro di Data Media Hub, la ricerca conferma che “i mezzi di informazione tradizionali sono in realtà una parte del problema e svolgono un ruolo un po’ paradossale, a essere magnanimi, rispetto alle fake news e alla loro diffusione”. Eppure sui media leggiamo spesso che “la responsabilità sarebbe dei lettori… per poi spiegare che l’unico antidoto sarebbe quello di pagare i professionisti dell’informazione: giornalisti e giornali”. In poche parole, coloro che dovrebbero verificare e approfondire le notizie spesso travasano sulle loro pagine – reali o virtuali – informazioni false spacciandole per vere; dopodiché si meravigliano se il pubblico ci crede.
Si tratta di uno dei problemi dell’informazione del XXI secolo nei Paesi democratici: il giornalismo professionale sembra non essere più capace di fare rispettare le proprie regole, come invece accadeva con relativo successo in passato. Vale, ovviamente, anche in Italia. E questa circostanza contribuisce a spiegare pure il motivo per cui le fake news imperversano persino sul fronte del mercato lavorativo. Dunque almeno su una circostanza non c’è dubbio: occorre che anche i professionisti dei media (compreso, ovviamente, chi firma questo articolo) si rimbocchino le maniche per garantire maggiore credibilità a un lavoro particolare. Quale? Quello che svolgono loro.
Photo credits: www.rm2.co.uk
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