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Basta Gomorra: l’Albero delle Storie racconta un’altra Scampia
Davide Cerullo, dalla camorra alla ludoteca l’Albero delle Storie: “Qui i bambini possono essere bambini. Scampia ha bisogno di normalità”.
I simboli che si trasformano in gabbia, le persone che li abitano in animali da fotografare, imprigionati dalle sbarre del pregiudizio e di una narrativa sanguinaria che, pur riscuotendo successo anche oltreoceano, nuoce soprattutto a Scampia.
Un urlo dipinto sul cemento – “Le vele non sono uno zoo” – accoglie le persone che raggiungono il quartiere per fotografare i luoghi di Gennaro Savastano e Ciro l’immortale (i due protagonisti della serie tv Gomorra). Per visitare un set nel quale il confine tra finzione scenica e realtà è stato cancellato dalla storia e della televisione.
Io ci sono stato accettando un invito: “Veniteci a trovare”, aveva detto Davide Cerullo a conclusione di un suo intervento a Bologna, durante il quale ha raccontato la sua storia.
Dalla camorra alla bellezza: Davide Cerullo e l’Albero delle Storie
Nono di quattordici figli, cresciuto a Scampia, a 14 anni guadagnava un milione di lire al giorno, a 16 ha avuto la sua prima pistola: “Mi sentivo il padrone del mondo”. Ha venduto morte ed è stato in carcere. Poi una conversione alla bellezza, alla parola come salvezza e riscatto. Dopo un periodo lontano da Napoli è tornato per “pagare il suo debito”, per provare a ridare quello che aveva sottratto. E così ha dato vita all’Albero delle Storie, un’associazione che prova a iniettare normalità nella vita di un quartiere e in quella dei suoi bambini. Ci sono stato, e forse un po’ ho capito.
L’ho raggiunto in un cortile di Via Galimberti, all’ombra di una delle vele. Lui ci aveva parlato di un asinello, Ciro, intorno al quale i bambini stavano ritrovando il sorriso; di una capretta, Vela, nata durante il lockdown; delle piante di limone. Lo aveva fatto con enfasi, ma si sa, “anche l’inferno dantesco è più adrenalinico del Paradiso”. E così, com’era prevedibile, la storia del Davide spacciatore era stata più calamitica di quella dell’uomo.
Insieme a lui ho trovato due ragazze, socie dell’Albero delle Storie e mamme. “L’Albero è una boccata di aria fresca”, mi hanno raccontato, “di libertà. La scuola qui latita, le famiglie spesso non possono offrire impalcature solide. Qui i bambini sono liberi perché possono scegliere cosa fare”.
Perché lo fate?, gli ho chiesto. “Per noi stesse, ma non come un qualcosa di egoistico. Lo facciamo perché ci fa stare bene.”
Una fattoria in mezzo al cemento: “Qui c’era il degrado, ora siamo una famiglia”
Sono circa trenta i bambini che frequentano la ludoteca, anche se è impossibile stabilirlo con certezza visto il costante aumento dei numeri. Il più piccolo ha 8 mesi, il più grande 14 anni. Nessuno di loro paga niente. La struttura, che è diventata una scuola all’aperto per i ragazzi e un luogo di crescita e ritrovo anche per i loro genitori, si sostiene grazie ai singoli contributi delle persone. “C’è chi porta il mangime per gli animali, chi qualcosa per noi”, mi ha detto Davide. “E poi le donazioni”.
“Ci piacerebbe avere il supporto di qualche figura più specialistica”, hanno aggiunto le ragazze. “Capita che vengano bambini anche vittime di violenza, ad esempio, ma noi non siamo professionisti in materia. Parteciperemo a dei bandi prossimamente, l’associazione è troppo giovane per farlo ora, e speriamo di poter essere ancora più incisivi.”
La nostra chiacchierata è stata poi interrotta da un anziano signore che abita nel palazzo di fronte la sede dell’associazione. Davide me l’ha presentato come un poeta. “Prima che arrivassero loro – mi ha detto il signore quando abbiamo iniziato a parlare – qui era uno schifo, un degrado totale. Ora c’è bellezza”. Poi ha guardato Davide, gli ha chiesto se quello che doveva prendere lo avrebbe trovato al solito posto. Davide ha annuito e lui, girato l’angolo, è tornato dopo pochi secondi con una bustina di uova in mano, ha salutato ed è andato via.
“È bello questo rapporto”, ho detto. “È sempre stato così?”. “All’inizio no”, mi hanno risposto. “Eravamo la TV vivente, il Grande Fratello del palazzo. In base ai nostri spostamenti si affollavano le finestre di persone che ci guardavano con un misto tra curiosità e incredulità. Poi hanno capito quali erano le nostre intenzioni, ora siamo una famiglia”.
Tante associazioni, pochi cambiamenti
Eppure a Scampia, circa ottantamila abitanti, ci sono quasi cento associazioni che, seppur con sfumature diverse, cercano tutte di affrontare lo stesso problema. “Tante associazioni, così come tanti narratori, non vogliono che le cose cambino davvero”, ha detto Davide. “Tengono molto a mantenere ben distinto quel confine tra assistenti e assistiti. In fin dei conti se i secondi venissero a mancare loro che cosa farebbero?”.
Il cortile dove stiamo parlando è un’area a forma di elle all’interno della quale sorge una piccola casetta in legno. “Capita – mi ha detto Davide – che i bambini vogliano restare a dormire qui”. Poi ci sono i recinti per gli animali e dei giochi artigianali: un barile e una corda che fungono da altalena, delle scalette per arrampicarsi sugli alberi e delle funi. La parola d’ordine è semplicità. “La normalità è semplice e la semplicità è contagiosa. Per questo abbiamo deciso di lavorare con i bambini, è in loro che va nutrito e alimentato il sentimento della bellezza”.
L’Albero delle Storie è una ludoteca, una scuola all’aperto nella quale non ci sono attività programmate. Tutto nasce spontaneamente, i giochi di gruppo così come la scelta dei ragazzi di lasciare fino a sera i loro cellulari nei borselli o sul tavolo all’interno della piccola abitazione. I bambini giocano e imparano. Non nozioni, quelle vengono dopo; apprendono per contatto concetti dal respiro più ampio.
“La prima regola della malavita – ha detto Davide – è non fidarsi mai di nessuno, e questo si trasmette anche ai bambini. Loro hanno bisogno di fidarsi e di affidarsi, e qui devono farlo per forza. Arrampicati su un albero o pronti a lanciarsi da una corda, devono necessariamente imparare a farlo.”
Scampia e il suo Albero hanno fame di normalità
Quello che l’Albero sta facendo è una piccola rivoluzione. Il sindaco di Napoli non è mai andato a trovarli, anche perché non è mai stato invitato. Qualche malavitoso di zona invece si è affacciato per controllare la situazione, ma così come è arrivato se ne è andato via: “Davanti a Ciro (l’asinello, N.d.R.) cosa potrebbero fare?”.
“Sappiamo benissimo dove abitano i boss”, mi ha detto una delle ragazze indicando con il dito alcune finestre ben visibili dal cortile, “ma non ci importa. La loro presenza non ci dispensa dal provare a fare qualcosa”.
Intanto erano arrivati tre bambini che in men che non si dica hanno iniziato ad arrampicarsi e a saltare. Davide non ha resistito. È corso a giocare con loro facendo dondolare con forza l’altalena costruita con il barile. Poi si è fermato e mi ha detto: “Qualche tempo fa qui è venuto un giornalista e ha chiesto a una bambina cosa volesse fare da grande. Lei con spontaneità ha detto che avrebbe voluto essere me”. Un immenso onore, ma anche un’enorme responsabilità che si può comprendere solo vedendolo giocare.
Capisco che non sia difficile inciampare in riflessioni contorte pur di trovare la filosofia che l’Albero nasconde, una spiegazione allegorica per Vela la capretta o delle soluzioni complesse per dare luce alle periferie. Ma quando, perplesso, ho chiesto a Davide il perché definissero una “bomba atomica” quello che – a essere superficialmente oggettivi – è una piccola fattoria didattica, la sua risposta mi ha stupito.
“Quel poco che vedi, quel poco che abbiamo messo su, consente ai bambini di essere bambini. Una cosa che in questo quartiere non è mai stata possibile”. È per questo che non vuole essere chiamato eroe: perché la normalità non ha nulla di eroico, e non dovrebbe mai averlo.
Tornando a casa, in auto, mi è tornata in mente quella frase di Lucio Dalla, quando in una delle sue canzoni più provocatorie e dissacranti, tra una prostituta pessimista e un berlinese disorientato, dice che “l’impresa eccezionale, […] è essere normale”.
Ecco, Davide mi ha insegnato che forse, a Scampia, tutt’ chell che è ‘o nuost’, tutto quello che va davvero ripigliato, è proprio la normalità.
In copertina Davide Cerullo a Scampia. Foto di Angelo Astrei
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