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Caporalato: 800.000 i lavoratori sottopagati, per lo più italiani
Yvan Sagnet, NoCap: “In tavola due prodotti su tre provengono da aziende che sfruttano. Serve una legge per rendere conveniente l’economia etica”.
L’equazione tra caporalato e braccianti neri come quella tra agricoltori e schiavisti è un’errata percezione della ben più complessa dinamica produttiva specificamente agricola, che a meglio osservare si fonda sul conflitto d’interessi – oltre che sociale, e talvolta politico – tra migliaia di lavoratori, produttori, commercianti e pochissimi gruppi della grande distribuzione organizzata, sempre più vere e proprie multinazionali.
A sostenerlo con la forza e la credibilità che derivano dalla sua storia personale è stato Yvan Sagnet: giovane camerunense approdato sui campi salentini per pagarsi gli studi, sfruttato come migliaia di altri braccianti, ribellatosi al sistema mafioso del caporalato, diventato animatore del progetto di riscatto NoCap, affrancato appieno dalla sua condizione di ultimo con l’attribuzione dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica da parte del presidente Sergio Mattarella. Dieci anni di vita e di lotte dedicati a costruire e strutturare “l’alleanza tra chi lavora, produce e vende prodotti agricoli e agroalimentari fondata sull’etica dell’intero ciclo produttivo”.
L’attività di NoCap contro mafie e nuovi schiavisti, dalla Puglia alla Sicilia
Ce n’è di strada da fare a voler congiungere i luoghi in cui, grazie a NoCap, sono stati regolarizzati e contrattualizzati poco meno di 500 lavoratrici e lavoratori italiani e stranieri, bianchi e neri. Le aziende per cui lavorano che corrispondono 70 euro (lordi) per 6,5 ore di lavoro, con gli straordinari pagati secondo gli accordi sindacali, a fronte della sottoscrizione di contratti di vendita che rispettano il valore reale del prodotto, con i gruppi Megamark (oltre 500 punti vendita nelle regioni meridionali) e Aspiag-Despar (attivo nel Nord Est), e le botteghe nazionali ed estere servite dal marchio etico Goodland.
Ciascuno dei luoghi in cui si sperimenta la filiera etica integrale ha un valore simbolico per la lotta al caporalato e alle agromafie: Stornara (Foggia), parte dell’agro in cui sorge uno dei più vasti e poveri e feroci ghetti di migranti irregolari; Policoro (Matera) e Ginosa (Taranto), zone in cui i caporali sfruttano donne e uomini come fecero con la povera Paola Clemente, sfinita mortalmente dal caldo; Rosarno (Reggio Calabria), teatro della rivolta contro gli schiavisti della piana di Gioia Tauro; Chiaromonte Gulfi (Ragusa), campagne dove i caporali non si facevano scrupoli a ingaggiare anche ragazzine e ragazzini sottratti all’istruzione scolastica.
È anche lì che si coltivano e si trasformano pomodori, uva, arance e praticamente tutti i tipi di ortaggi pagati dalla GDO pochi centesimi al chilo, in molti casi così poco da rendere più conveniente abbandonare il prodotto sul campo che raccoglierlo. Tonnellate e tonnellate di prodotti destinati ai mercati di mezzo mondo, la cui commercializzazione alimenta gli affari mafiosi e ingrassa centinaia di nuovi schiavisti.
Come funziona (e come si smonta) il sistema che strozza agricoltori e braccianti
Stando ai dati della FLAI CGIL, il caporalato interessa 450.000 lavoratrici e lavoratori; altri 800.000 sono i sottopagati, e meno della metà di loro sono stranieri. Persone che guadagnano da 1,50 a 2,50 euro l’ora lavorando in aziende che li sfruttano per interesse, circa il 60% dei 2,8 milioni di produttori agricoli, o per necessità.
“La grande distribuzione strozza i produttori con prezzi bassi e le aste con il doppio ribasso, per questo noi abbiamo scelto di esportare il 92% della nostra produzione”. Ad affermarlo è Giuseppe Maffia, responsabile marketing dell’Organizzazione di Produttori Principe di Puglia, con sede a Stornara, a cui aderiscono dieci aziende dell’agro foggiano, per 500 ettari di terreno complessivi destinati alla coltivazione di ortaggi biologici in campo aperto.
Pomodori, broccoli, melanzane, cavolfiori e quant’altro si semina e raccoglie nelle diverse stagioni per essere lavorato e impacchettato. Prima dell’accordo con NoCap la quasi totalità della loro produzione era diretta verso i mercati dell’Unione europea, della Russia e dei Paesi dell’Est europeo; ora guardano al mercato italiano con maggiore interesse: “Siamo ampiamente soddisfatti del vantaggio commerciale, oltre che di marketing e di valore sociale, garantitoci dal contratto di fornitura con il gruppo Megamark”.
Yvan Sagnet: “In tavola due prodotti su tre provengono dallo sfruttamento”
Vantaggio compensato, per così dire, con l’assunzione a tempo indeterminato di nove lavoratrici e un lavoratore selezionati dall’associazione di Sagnet, e impiegati tutto l’anno nel magazzino dove si lavora il prodotto raccolto nei campi.
Tra loro c’è Angela, 51 anni, che prima di essere segnalata a NoCap dall’associazione foggiana Fratelli della Stazione viveva al riparo dei vecchi manufatti dello scalo ferroviario. Oggi abita in uno degli alloggi del Villaggio Don Bosco, gestito dalla fondazione Emmaus, e può, finalmente, “vivere dignitosamente e onestamente, dopo anni trascorsi fuori e facendo lavoretti stagionali a nero che non mi garantivano la sopravvivenza”.
Angela condivide i nuovi spazi di vita con Joyce, 22 anni, arrivata in Italia quattro anni fa dalla Nigeria per approdare al ghetto di Tre Titoli, nelle campagne cerignolane. “Ho sempre lavorato nei campi, mai messa in regola”, racconta in un italiano ancora stentato, “ora sono a Stornara e ci sto bene”. I chilometri che separano il Villaggio Don Bosco dall’azienda Principe di Puglia sono coperti con il furgone acquistato da NoCap e guidato da Riccardo, altro italiano in passato vittima dei caporali.
“Ogni volta che si compra un prodotto agricolo bisogna chiedersi chi, dove, come lo ha prodotto – sottolinea Yvan Sagnet – perché solo così non si alimenta lo sfruttamento” degli uomini, degli animali, dell’ambiente. I cittadini/consumatori sono chiamati ad assumere consapevolezza che “due prodotti su tre portati in tavola provengono da aziende che sfruttano italiani e stranieri, perché i gruppi della grande distribuzione impongono prezzi sempre più bassi e impoveriscono i contadini”, che a loro volta si rifanno sui lavoratori e sulla terra: “Come si può reggere se i pomodori sono pagati 9 centesimi al chilo, le arance 6 centesimi o il latte 60 centesimi al litro?”.
Oggi, a distanza di dieci anni dagli scioperi animati da Sagnet nelle campagne salentine, “decine di agricoltori, centinaia di lavoratori sottratti alla schiavitù, migliaia di consumatori consapevoli” animano la filiera etica promossa da NoCap e certificata dal bollino che misura la virtuosità aziendale sulla base di sei criteri: etica nei rapporti di lavoro, uso di energia da fonti rinnovabili, filiera corta, rifiuti zero, innovazione produttiva, benessere degli animali.
I limiti del modello etico: “Serve una legge per renderlo economicamente conveniente”
Il modello etico “è sicuramente interessante e positivo”, commenta il direttore regionale della CIA Agricoltori Italiani della Puglia Danilo Lolatte. “Allo stato, però, è sperimentato su nicchie produttive, perché credo ci siano oggettive difficoltà nel passaggio al mercato diffuso”.
Il mondo delle organizzazioni agricole, infatti, intravede almeno due limiti strutturali al progetto NoCap: come si possono vendere le grandi quantità di prodotti agricoli raccolte nei campi italiani se non si dialoga con la grande distribuzione organizzata a livello globale? Chi e come governa la selezione e l’ingaggio di decine di migliaia di braccianti?
“Esiste ed è sempre più diffuso un movimento di rivendicazione che accomuna lavoratori e contadini”, replica Sagnet, “un’alleanza fondata sulla consapevolezza dell’impoverimento che deriva dalla globalizzazione sregolata imposta dalle multinazionali. Noi vogliamo uscire dalla logica del profitto e vogliamo allearci con tutti i protagonisti della filiera alimentare: gente che si fa la guerra e non discute”.
Il punto di partenza del dialogo è smetterla di pensare al lavoratore come “un oggetto e non un soggetto; è una persona titolare di diritti che devono essere riconosciuti”. Di qui, anche, la richiesta allo Stato di modificare l’impianto della legge Bossi-Fini che regola l’immigrazione – “agevola lo sfruttamento e il ricatto del lavoratore” – e l’approvazione di “una legge sulla certificazione etica. Oggi, in Italia, un prodotto può essere biologico, ed essere valorizzato, e non può essere etico”. Se davvero si vuole cambiare il modello economico neoliberista o ultraliberista, è il monito di Yvan Sagnet, “dobbiamo rendere più conveniente l’economia etica”.
Nella foto di copertina: Yvan Sagnet (a destra) con dei lavoratori agricoli affiliati all’associazione NoCap. Foto di Maria Palmieri
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