Coltivare il plurale

Il Rinascimento ha tra i geni originari Giotto e, nella sua diffusione, i giotteschi minori, persone contaminate in Assisi da quegli spunti innovativi, che attraversano le valli tra Umbria e Marche decorando chiese e illustrando storie evangeliche e vicende di francescani, agostiniani e benedettini. Quel periodo dell’arte e della società, che chiude il bizantino e […]

Il Rinascimento ha tra i geni originari Giotto e, nella sua diffusione, i giotteschi minori, persone contaminate in Assisi da quegli spunti innovativi, che attraversano le valli tra Umbria e Marche decorando chiese e illustrando storie evangeliche e vicende di francescani, agostiniani e benedettini. Quel periodo dell’arte e della società, che chiude il bizantino e quindi il dominio degli stilemi e dei modelli codificati, si arricchisce secoli più tardi delle innovazioni urbinati di Piero della Francesca, di Giovanni Santi e di suo figlio Raffaello, e si estende con la piccola scuola fiamminga dell’ascolano a cui appartengono Lotto, Alemanno e i fratelli Crivelli.

Dalle esperienze e dalle opere dei giotteschi è scaturito un mondo diverso: le comunità attraverso le narrazioni trasportate dall’arte in centri urbani, borghetti, cascine, pievi e monasteri, conoscono e praticano un diverso e nuovo modo di vivere. La chiave è in un codice di comportamento aperto, fresco, ricco di implicazioni e bellezza, basato sulla condivisione delle storie, dei progetti, dei luoghi e dei mezzi, dei saperi naturali e di quelli umani, e che ha al centro l’uso attento delle risorse collettive, in contrapposizione alla proprietà chiusa e solipsistica, tipica del medioevo e poi di certo capitalismo industriale e finanziario. Quella regola condivisa è stata una potente strategia di sopravvivenza vitale e sociale, spirituale e materiale, e di prospettiva. Diffonde la bellezza della norma, costituisce attitudine, matrice che permea di sé il paesaggio fisico e sociale marchigiano: è una pratica che anticipa la mezzadria con le sue implicazioni moderne.

 

I marchigiani, tra regola e territorio

Il paesaggio, il campo, il costruito sono le evidenze di queste comunanze; se ne gestisce e informa l’uso anche a beneficio collettivo. Si conferisce all’insieme curando la terra e non solo i frutti. La cura di terreni e orti, con un’attenzione a fossati, conche idriche, fondi e colline comuni implica una specifica organizzazione della vita, resa possibile anche da queste morfologie territoriali morbide (rilievi, campi, radure, acque tranquille, montagne abitabili seppur mobili, sismiche) e quindi attraversabili con facilità da persone, suoni, greggi, mezzi. L’agricoltore si fa plurale nelle sue attività; in più è artigiano, fabbrica i suoi strumenti, gli edifici necessari; impara a fabbricare scarpe, sporte, abiti; programma il paesaggio, sperimenta, inventa: ha, come si direbbe oggi, un profilo multi-potenziale.

Queste marche, questi marker impiantati in queste genti, hanno favorito una speciale cultura del lavoro in convivenza; hanno permesso la crescita di imprese artigiane e industriali di piccolo e medio formato, attente alle persone e alla terra, che agiscono per potenziare la loro nota familiare, territoriale; sempre tese tra libertà e sicurezza, tra visione e solidità. Queste reti di lavoro nascono familiari, poi rurali; diventano nazionali; qualche volta sono progredite internazionalmente. Sono sempre alimentate da materie e abilità localizzate.

Quello che colpisce nella storia delle imprese marchigiane, agricole e artigiane in particolare, è l’interscambio tra gli intenti del fare e il substrato originario di luogo: lo spirito portante è quello di un’altissima (come aspirazione e attitudine) povertà (intesa come sobrietà ed essenzialità, come lento perseguimento degli intenti). Il profitto è un mezzo, non un fine; a suo modo, è uno strumento da usare per restituire potenza al paesaggio culturale originario, per espanderne i limiti. È, per dirlo con le parole del sociologo Aldo Bonomi, potenza del limite: “Il margine sono i significati, le esperienze di comunità, i paesaggi che mutano; margine, confine, limite è lo sguardo contemporaneo sulle cose e sul mondo”.

La vita e i suoi accadimenti si succedono, ma, forse perché attesi, qui sembrano non suscitare mai clamore e ridondanza. Nei decenni ultimi questo ha spesso portato ad accettare una sorta di omogeneizzazione del destino, un’accettazione preliminare del declino incombente, interrotta solo da una specie di rimpianto declinato al futuro, impegnato a definire “quel che si dovrebbe fare”.

Tuttavia ora, a guardar bene nel traverso delle valli, negli interstizi dei paesi, anche di quelli segnati o travolti dal terremoto, si incontrano spunti vitali, micro-tendenze, iniziative nelle quali si può scorgere una luce cui riferirsi come eccezione, come direzione, come prospettiva sperimentale.

I nuovi abitanti della terra marchigiana, nuovi perché giovani nello spirito o all’anagrafe, stanno scrivendo un nuovo codice: che permetta di disegnare nuovi cicli, di trovare un equilibrio sistemico e dinamico, che elabori attualità tecnologiche e produttive, nuova usabilità del paesaggio per migliorare i suoli e produrre qualità dei frutti, per abbreviare e personalizzare il rapporto tra produzione e consumo, per permettere il miglioramento delle condizioni materiali, di mezzi e lavoro, avendo ben presente il rispetto e la rigenerazione delle risorse naturali. Curarsi della dimora, essere eco, in questi casi significa puntare sul dialogo tra dati, flussi e persone: dalla natura alla natura, dalla linearità alla circolarità.

 

La nuova Arca dell’alleanza misura il suolo

È questo un caso di colture e culture: Arca è una idea nata trent’anni fa a Bruno Garbini, oggi divenuta, grazie all’alleanza con Giovanni Fileni ed Enrico Loccioni, una B-Corp, una società che persegue il beneficio comune e che opera in modo responsabile, sostenibile e trasparente. Nella campagna intorno all’abbazia millenaria di Sant’Urbano, sede della società e del progetto Valle di San Clemente™, l’attenzione primaria viene posta nella rigenerazione e arricchimento dei suoli in termini di microflora, microfauna e humus disponibile alle culture agricole, agli allevamenti, alla produzione orticola. Si operano rotazioni colturali, cover crops; si usa fertilizzante organico, di origine animale. I parametri del ciclo produttivo, partendo da quelli del suolo, sono misurati con strumenti progettati specificatamente. I vari passaggi sono tracciati con sistemi blockchain per garantire trasparenza, sicurezza e tracciabilità ; per proporre un prodotto sano, di qualità, da energie sostenibili, che incentivi la rigenerazione del suolo e l’economia circolare.

Tra gli scopi anche quello di identificare e creare filiere agroalimentari innovative, pronte a riconoscere un adeguato prezzo all’agricoltore e all’allevatore, basato sui costi di produzione e non sulle quotazioni di mercato, pronte a vendere e promuovere anche il territorio di riferimento. Arca aderisce alle linee bio-conservative proposte dal Rodale Institute in Pennsylvania, un centro di ricerca che intraprende, nel 1947, la strada della sostenibilità e della rigenerazione dei suoli dimostrando con dati scientifici la superiorità dell’agricoltura organica per il miglioramento del suolo e per la redditività sul lungo periodo. Giovani ingegneri, botanici, agronomi, bio-tecnologi, giovanissimi tecnici informatici collaborano alla costruzione dell’Arca, sono impegnati sulla terra, sviluppano nuovi orizzonti per l’agricoltura, la nutrizione, il futuro.

 

Si possono coltivare tecnologie?

L’innovazione tecnologica applicata alle colture si trova in forme molto spinte nell’Agricolt Brandoni. In 400 ettari di colline e piani tra Ancona, Fermo e Macerata si vedono utilizzate trattrici e macchine a guida satellitare, con un margine di errore di due centimetri; le tre generazioni di famiglia che vi lavorano sono specialiste nell’utilizzo estensivo dell’irrigazione a goccia; danno valore a saggezze passate e future effettuando la semina su sodo dei cereali a paglia e usano supporti digitali per produrre di più utilizzando meno risorse, meno materie prime, e consumando meno suolo.

Le strategie di precision farming elaborate dalle grandi aziende americane sono state adattate alla morfologia locale, al desiderio di un ridotto supporto della chimica ed alla necessità di un’operatività sempre tracciata. Il loro modello di lavoro concilia grandi colture con vivaismo, orticoltura, piante tintorie. Quest’ultimo progetto apre una prospettiva molto interessante: coniuga ambiente, biodiversità e tecnologia, attraverso la riscoperta e la valorizzazione delle antiche tecniche di colorazione tessile. Crescono essenze vegetali dalle quali, attraverso processi tradizionali, vengono estratte tinte naturali, per servire industrie ad alto valore.

 

Le api felici fanno il miele invecchiato

Giorgio Poeta vede da Fabriano, il mondo a strisce gialle e nere. L’ape è il centro del suo lavoro, dal micro al macro, al globale: “Non possiamo pensare a non salvaguardare l’ape se vogliamo produrre miele”. La qualità dell’ambiente, il benessere dell’ape, il rispetto della tradizione hanno definito una pratica apistica che viene dalla tradizione potenziata con tanta innovazione, prima di tutto culturale.

La feroce e poetica passione per api, miele e ambiente ha portato Giorgio Poeta a inseguire e realizzare un autentico sogno: come dare ancora più valore al nettare, come restituire riconoscimento al poderoso impegno di sciami su piante in fiore? Ci pensa anni fa, sperimenta la sua idea e poi la applica. Oggi è testimone concreto di una possibilità bellissima e visionaria. Il suo miele Carato è l’unico miele al mondo invecchiato in barrique. La base è un miele di acacia purissima che per 9 mesi riposa in botti di rovere francese. “Il viraggio di colore e di sapore è netto”, scrive nella presentazione del prodotto: “Il rosso rubino intenso, l’odore acre e pungente che rimandano al vino cotto, con un retrogusto quasi balsamico, permettono a questo miele di diventare una sinfonia universale, adatta ad accompagnare qualsiasi cosa possa venirvi in mente”.

I suoi mieli, l’idromiele, barricati e no, hanno conquistato grandi ristoranti stellati e distributori di eccellenze. Ma soprattutto, le sue api sono più rispettate e felici.

 

Un orto tutto in rete

A Cagli, in provincia di Pesaro, vicino Acqualagna, cittadina che profuma di tartufo, una giovane coppia, mentre gioca a FarmVille (un gioco online in cui si progetta e ci si prende cura di una fattoria), rimane fulminata dall’idea di portare quel gioco nella vita reale. Lui insegna informatica, lei cura un piccolo appezzamento di famiglia: danno vita a un network innovativo di fattori e ortisti, persone entusiaste cioè, dei prodotti biologici dell’orto.

Ortiamo permette alle persone, in forma delegata e fiduciaria, virtuale, di coltivare un orto e poi di ricevere la verdura a domicilio o di andare a prendersela. Attraverso la piattaforma digitale si possono scegliere le dimensioni del proprio orto, gli ortaggi da coltivare nelle diverse stagioni e il servizio di coltivazione più adatto alle proprie idee ed esigenze. Ogni fattore cura clienti in rete fino a venti chilometri di distanza dal terreno.

Ortiamo seleziona i propri fattori e invita clienti-ortisti, valuta la zona di effettiva collocazione degli orti, verifica l’assenza nelle vicinanze di fonti di inquinamento, la possibilità di approvvigionamenti idrici continuativi e sicuri e la vicinanza rispetto ai possibili clienti in rete. Richiede infine a ogni azienda di coltivare gli orti in modo biologico, rispettando i tempi della natura, ruotando le colture, non utilizzando fertilizzanti e pesticidi chimici. La piattaforma dà la possibilità alle famiglie di entrare in contatto diretto con il proprio fattore, di partecipare alla coltivazione e di trascorrere giornate in campagna. In due anni il progetto si è esteso nella regione, in Umbria, Lazio, Emilia Romagna, Piemonte.

 

Quando i rami si agitano, le radici si abbracciano

Daje Marche è un desiderio di stabilità, di terre solide; è il sogno di giovani con le teste ben piantate a terra. Daje Marche è nata in pieno momento di emergenza. Il sisma dell’ottobre 2016 che ha colpito le terre marchigiane ha cambiato tutto, e tornare alla normalità è un percorso lungo e difficile. Ci sono luoghi e spazi che impiegheranno anni prima di tornare attivi, per non parlare delle attività che caratterizzano da sempre l’identità regionale e che hanno subito un durissimo colpo. La scelta è fra abbandonare o restare. E per restare c’è bisogno di un progetto e di una visione di futuro.

Un gruppo di volontari si è unito per creare un portale per vendere prodotti tipici e promuovere piccoli produttori locali. Il calo della domanda conseguente al sisma è stato affrontato da giovani grafici, programmatori, specialisti del web marketing e comunicazione, fotografi, sviluppatori software, mossi dall’idea di raggiungere un numero enorme di potenziali e solidali consumatori oltre i confini locali. Piccole aziende agricole, produttori e venditori di ciauscolo, di birra artigiana, minuscoli esercizi pubblici, produttori e venditori di accessori moda, di articoli cosmetici, beneficiano di questo spirito generoso e visionario. Tutti insieme restano aggrappati a una comunità terrigna che, con loro, ha meno paura e più futuro. Passata l’emergenza, se mai passerà, la strada nel frattempo disegnata unirà in modo nuovo territorio, persone, tecnologie, mercati.

Che mondo scaturisce da questi (e da altri) laboratori nelle Marche? Un mondo che guarda il lavoro inserito in un insieme, che analizza i flussi grandi per individuare le nuove possibilità del paesaggio locale. La vita da contenitore di oggetti sembra possa tornare a essere contenitore di luoghi e sentimenti: costruire un’altra qualità degli ambienti sociali e dell’ambiente naturale si può, con nuove idee e strumenti.

Qui in piccola scala si sperimentano interpretazioni del lavoro come possibilità, dell’ambiente come teatro delle interrelazioni tra uomo e ambiente, tra utilizzo e rigenerazione.

 

Photo credits by Turisti per caso: “Colline pesaresi”

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