Comunità di San Ruffino: la vita, di nuovo

Tornare a vedere la luce e riprendere le redini della propria esistenza grazie alla vita in comunità e al lavoro. È la speranza di molte persone che cadono nell’incubo dell’abuso di droghe e alcol, e che grazie all’esperienza nella “Comunità Agricola di Accoglienza – Centro di riabilitazione psico-socio-pedagogica per tossico-alcool dipendenti” in Contrada San Ruffino, […]

Tornare a vedere la luce e riprendere le redini della propria esistenza grazie alla vita in comunità e al lavoro. È la speranza di molte persone che cadono nell’incubo dell’abuso di droghe e alcol, e che grazie all’esperienza nella “Comunità Agricola di Accoglienza – Centro di riabilitazione psico-socio-pedagogica per tossico-alcool dipendenti” in Contrada San Ruffino, ad Amandola nelle Marche, sono tornate a sperare.

Per raggiungere la sede si procede lentamente su una ripida salita; abbassando i finestrini si sentono i campanacci delle mucche al pascolo e la strada è attraversata da agili caprioli. Achille Ascari, il fondatore e Marta Porcellato, storica volontaria, accolgono continuamente ospiti e visitatori. La loro scelta, sin dall’inizio, era che la comunità fosse aperta e ci fosse un continuo scambio con l’esterno. Riuniti intorno al grande tavolo in legno per il pranzo della domenica, sembrano una famiglia numerosa. Anche i sapori sono quelli di casa, con i prodotti che loro stessi coltivano e preparano. Si mangia insieme e insieme ci si alza per pulire e risistemare tutto.

Tra libri, giornali, strumenti musicali e piante è tutto molto curato. La condivisione qui inizia verso le 6:30, quando ci si ritrova nella cappellina e si prega insieme. Al rito partecipano anche non credenti e persone di altre confessioni, che beneficiano della riscoperta di una spiritualità che nel loro percorso si rivela spesso di grande importanza. Si fa colazione insieme e poi si va al lavoro. C’è chi è impegnato al maneggio, chi nelle stalle, chi negli orti; alcuni studiano per diventare Oss. Dopo le lunghe giornate di lavoro ci si ritrova per parlare, per leggere, per cucinare.

 

Nascita e sviluppo della Comunità di San Ruffino

L’idea della comunità nasce nel lontano 1972, quando Achille, psicologo, voleva fondare una “scuola di vita”. “Abbiamo così pensato a una realtà formativa laica, ma fondata sul messaggio evangelico, ripercorrendo la storia delle prime comunità cristiane. Il nostro scopo era di occuparci degli ultimi. Il vescovo Vivaldo ci ha concesso sin dall’inizio delle nostre attività di poter conservare tra noi l’Eucarestia, in base a quanto previsto dal Concilio Vaticano II”.

 

Achille Ascari, il fondatore della Comunità Agricola di Accoglienza – Centro di riabilitazione psico-socio-pedagogica per tossico-alcool dipendenti di San Ruffino

 

“In principio ci siamo rivolti ai giovani; poi, per varie ragioni, abbiamo optato per la cura delle dipendenze da droghe e alcol. Era un’epoca di grande fermento, dopo il ’68, gli Anni di Piombo, le contestazioni”. La comunità è stata inaugurata il 3 luglio dell’80, nel livornese, per poi spostarsi, fino al 2015, a San Cristoforo (Amandola) grazie a un contatto fornito da un’amica, la teologa Rosanna Virgili.

“Il nostro progetto iniziale non prevedeva una struttura di proprietà, ma per rispondere pienamente alle nuove norme abbiamo acquistato questa sede a San Ruffino, con un mutuo su garanzie morali acceso con la Banca Etica, che si è dimostrata sensibile alle nostre iniziative. Oggi riusciamo a mantenerci grazie a ciò che produciamo con l’orto, le stalle e le preparazioni erboristiche, ma anche grazie al lavoro di almeno due persone che percepiscono uno stipendio fuori. Siamo autonomi al 75%, il resto arriva dal sostegno di amici. Non chiediamo una retta ai Sert, né alle famiglie o ai cittadini. I ragazzi pagano con il loro lavoro, e questo li responsabilizza ed è più dignitoso. Abbiamo ridotto il numero delle persone accolte a sei e abbiamo visto che in questo modo riusciamo a seguirle meglio. Dopo i vari tagli alle Asl e ai Sert abbiamo deciso di dedicarci solo agli utenti più adulti, che rischiano di rimanere esclusi.”

“Abbiamo accolto il primo ragazzo l’8 luglio del 1980 e da allora sono state con noi 300 persone. Il punto più difficile è dover ricominciare sempre, quando cambiano i membri della comunità. La virtù che ci vuole per vivere queste esperienze è la pazienza, che per noi è corroborata dalla fede. I ragazzi sono tutti assetati di affettività, e il consiglio che ci sentiamo sempre di dare loro è di non perdere mai la fiducia, di ricordarsi che c’è sempre una strada possibile. A volte di qui passano persone che hanno solo bisogno di un sostegno, di un sorriso, di essere ascoltate. Sanno che in comunità non c’è solo sofferenza, ma anche tanta gioia. Confesso che la sera, quando tutti i ragazzi vanno a dormire dopo una giornata di lavoro, mi commuovo come un padre perché sento che sono sereni, sanno di essere accettati e protetti.”

Un campo coltivato nella Comunità di San Ruffino

La vita, di nuovo: “Fuori ognuno è straniero agli altri; qui siamo una famiglia”

I ragazzi si raccontano con spontaneità, uno alla volta. Lo fanno con la speranza che la loro esperienza possa essere utile ad altri. Comincia Pietro, che a S. Ruffino sconta un debito con la giustizia. Oggi lavora al maneggio ed è tornato a guardare al futuro con speranza. I problemi per lui sono iniziati quando era ancora minorenne. Frequentava sempre persone più grandi di lui, trasgredendo alle regole e commettendo un errore dopo l’altro. La famiglia lo ha mandato in Australia, e lì è riuscito a restare lontano dai guai e a non avvicinarsi più alle droghe per ben sei anni. Tornato in Italia, è ricaduto nello stesso tunnel; così ha deciso di entrare in comunità.

Per ben due volte la droga si è impadronita della vita di Vincenzo. Era riuscito a rimanere pulito per dieci anni, dopo aver abusato di eroina. Si era sposato, erano nati due figli, ma poi è ricaduto nella trappola della cocaina. “Sto cercando di capire le mie problematiche di fondo, quelle mancanze che mi spingono a ricorrere alla droga. Qui ho trovato una profondità spirituale e la forza di ricominciare, di capire chi sono, anche attraverso il lavoro. Il passo verso la droga è breve. Inizi a farti, senti che puoi gestire la situazione, ma non è affatto così. Arriva il momento in cui non distingui più il bene dal male e cominci a delinquere. Vorrei far capire ai giovani che quando si imbocca questa strada ci sono solo due vie: o si muore, o si finisce in carcere”. Oggi sta facendo un tirocinio come Oss ed è apprezzato dai pazienti: “La comunità ti aiuta a riconoscere e lenire il dolore degli altri”.

La dipendenza di Renato, invece, era l’alcol. Aveva passato ben quattro anni in strada, vivendo da barbone, dopo aver sperperato il patrimonio della sua famiglia in vizi ed eccessi fino a delinquere e a farsi arrestare. “Tutti mi chiedevano qualcosa, ma nessuno mi ascoltava e mi sentivo sempre nervoso, frustrato, infelice, arrivando a distruggere la mia vita con le mie stesse mani. Da quando sto qui ho riscoperto la bellezza del dialogo, dello stare insieme, del lavorare ed essere utile agli altri”. Anche Renato si sta formando come Oss. “Vorrei chiedere perdono a tutte le persone a cui ho fatto male. Non posso tornare indietro, purtroppo; per questo vorrei dire agli altri, soprattutto ai giovani, di accettare consigli, di non farsi travolgere dai problemi, di farsi aiutare”.

Tra i volontari che operano nella comunità c’è Federico, che è qui da dieci anni. “Mi piace definirmi un comunitario, non un volontario. All’inizio mi sono impegnato al maneggio accudendo i cavalli, oggi sono responsabile della stalla e vedo che stare con le mucche e i maiali è a tutti gli effetti terapeutico”, spiega. Anche lui in passato ha avuto problemi legati alla droga, da cui è definitivamente uscito, anche grazie alla fede. “Ognuno arriva qui con una storia diversa. Vedere che altre persone ce l’hanno fatta, che hanno ripreso in mano le loro vite, è di incoraggiamento”.

 

Marta (foto di copertina) è una delle colonne portanti della comunità. Di professione fa la postina e porta il suo stipendio in comunità per contribuire alle spese. Dopo la morte di alcuni amici a causa della droga, Marta si era sempre chiesta che cosa potesse fare, e nel 1986 ha deciso definitivamente di dedicare la sua vita agli altri, pur mantenendo il suo lavoro esterno. “Mi piaceva che il senso della comunità qui fosse basato sul Vangelo. Ho sempre amato le diversità: sono stata nel deserto, tra i pigmei, in posti difficili ma arricchenti. Fuori ognuno di noi è estraneo e straniero agli altri; qui siamo una famiglia. Sentire la vita di una persona è un privilegio, una ricchezza. Consegnare la mia vita alla comunità è stata una scelta importante, profonda. A chi fuori soffre e si sente in difficoltà voglio dire che la nostra porta è sempre aperta”.

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