Come sarà l’imprenditore del futuro? Questione di aziende, ma anche di scuola: l’abbiamo chiesto all’imprenditore Christian Bracich e al politico Alessandro Fusacchia.
Donne con la valigia che spostano famiglie
Quando si pensa agli expat ci vengono in mente neolaureati dalle belle speranze che vanno all’estero per inaugurare la loro startup, padri che spostano tutta la famiglia per un lavoro più prestigioso, giovani studenti che decidono di fare esperienze in un altro paese. E le donne? L’Istat ci dice che nel 2018 si sono trasferiti […]
Quando si pensa agli expat ci vengono in mente neolaureati dalle belle speranze che vanno all’estero per inaugurare la loro startup, padri che spostano tutta la famiglia per un lavoro più prestigioso, giovani studenti che decidono di fare esperienze in un altro paese. E le donne?
L’Istat ci dice che nel 2018 si sono trasferiti all’estero 157.000 italiani. Di questi gli uomini sono il 58%. E se fino ai 25 anni il numero di ragazzi e ragazze che emigrano è comparabile, a partire dai 26 anni gli uomini iniziano a essere costantemente più numerosi delle donne.
Eppure ci sono donne con la valigia sempre pronta, perché c’è un aereo che le aspetta ogni settimana in una diversa città europea, e ci sono donne che ogni 3-4 anni rifanno le valigie e cambiano casa-città-Paese con tutta la famiglia.
Donna, architetto, lavoro all’estero: il successo con un occhio alla sicurezza
Silvia D’Amico ha 39 anni, è architetto e lavora come Lead Construction Project Manager di Lush UK & Europe. In pratica gira l’Europa alla ricerca di nuove location per i negozi Lush, valuta l’investimento economico e infine coordina i lavori di realizzazione. Tutto questo non lo fa da sola, ma insieme al suo team diffuso: tre persone fisse, una a Parigi, una a Padova e una a Berlino (attualmente in maternità), oltre a due persone a supporto, in base ai carichi di lavoro, negli uffici di Londra. Dov’è il suo ufficio? A Vicenza – dove vive – anche se i suoi colleghi e il suo capo sono tutti a Londra.
Qui in Italia in queste settimanesi parla tanto di smart working , ma tu lo stai facendo per davvero. È normale in Lush?
Si, ci sarebbe anche una sede Lush a Milano, ma io faccio parte dell’ufficio londinese che gestisce project manager e property manager. Ogni due o tre settimane vado a Londra, soprattutto per riunioni strategiche, ma non abbiamo l’obbligo di lavorare in ufficio. Non ci sono né telefoni né pc fissi, ognuno ha le sue dotazioni portatili. Abbiamo degli spazi a disposizione, ma siamo piuttosto liberi. Tutto previsto già a contratto.
E come lo hai trovato questo lavoro a Londra, che puoi svolgere dall’Italia?
A dire la verità è stata una mia ex-collega di Diesel a segnalarmi la posizione. Io avevo voglia di cambiare per crescere, dopo otto anni nella stessa azienda, ed eravamo sempre rimaste in contatto anche se lei si era trasferita a Milano. È iniziato tutto così: due colloqui e nel giro di un mese avevo firmato il contratto. All’inizio ho affiancato la mia ex-collega, che coordinava tutti i project manager europei, ma quasi subito lei ha scoperto di aspettare un bambino, e quando ha iniziato il suo anno di maternità io ho ricoperto anche il suo ruolo.
Bella responsabilità dopo pochi mesi in una nuova azienda, per di più all’estero.
Ammetto che è stata una bella palestra, non sempre facile. Immagina: nuova azienda, lavorare con una lingua che non è la tua con dei madrelingua, e gestire delle persone quando tu stessa sei in fase di apprendimento del tuo ruolo. È stato sicuramente sfidante, e mi ha fatto crescere molto. La cosa però che mi ha stupita di più è successa al rientro della mia collega dalla maternità: dopo un anno che ricoprivo anche il suo ruolo, mi hanno ringraziata per il lavoro fatto e ci hanno proposto di mantenere la posizione entrambe, dividendoci le aree europee e creando due team anziché uno solo.
Davvero?
Davvero! Non ci volevo credere nemmeno io. Il lavoro fatto mi è stato riconosciuto senza chiedere, senza dover sgomitare. Devo dire anche che è stato piuttosto facile inserirmi in un ambiente così poco maschilista, dove le project manager sono quasi tutte donne, e ci sono molte donne nelle posizioni di rilievo. Conoscevo Lush come un brand etico nei suoi valori aziendali, ma è stato illuminante accorgermi quanto la questione di genere fosse inesistente in azienda, tanto nel lavoro quanto nei prodotti che l’azienda vende. Ma non è tutto. Dopo pochi mesi dal suo rientro, questa mia collega decide di seguire il marito negli Stati Uniti e lascia il lavoro, e io decido di propormi per coprire il ruolo di entrambe. Per farlo non sono stata valutata solo sulla base della mia esperienza, ma sul progetto che ho presentato per portare avanti quella posizione, inclusa una proposta sul team di lavoro e la sua crescita nel tempo.
Raccontato così sembra il lavoro dei sogni: ma è davvero tutto rose e fiori?
Ogni lavoro ha i suoi lati meno piacevoli. Io sono in viaggio ogni settimana, dai due ai quattro giorni. Gli orari spesso sono snervanti, parti alla mattina molto presto e finisci di lavorare la sera tardi, e il giorno dopo non ti puoi riposare perché dalle tue risposte spesso dipendono i tempi del cantiere. Così finisce che lavori sempre. Anche avere un team diffuso a volte è complesso: manca il confronto a quattr’occhi e, perché no, il piacere di un caffè insieme e una chiacchiera.
Come avete vissuto tu e il tuo compagno questo nuovo lavoro?
Con il mio compagno non è stato semplice all’inizio: nella mia famiglia eravamo già allenati ai continui spostamenti perché mio padre ha sempre viaggiato molto per lavoro, ma la cosa più pesante all’inizio è stata il senso di instabilità. Poi impari a gestire meglio il tempo e trovi un equilibrio, ma il fatto che lui sia di mentalità aperta e viaggi molto a sua volta ha aiutato.
E il fatto che tu sia donna è mai stato un limite nell’operatività del tuo lavoro? Io, dei miei anni da project manager, ricordo bene le occhiatacce delle squadre di uomini in cantiere quando ero chiamata a prendere delle decisioni.
Ti confermo che questo aspetto non è cambiato. Il mondo delle costruzioni resta un settore molto maschile, dove se sei donna è difficile far valere il tuo pensiero su una squadra di uomini. Questa cosa però varia molto da paese a paese: Svezia e Olanda sono sicuramente all’avanguardia da questo punto di vista, mentre gestire i cantieri in Repubblica Ceca, Spagna, Portogallo e Austria è sempre più complicato. C’è anche un altro aspetto a cui mi rendo conto di fare sempre molta attenzione, ed è la sicurezza. È inutile negarlo, da donna ci penso sempre quando organizzo i miei spostamenti, per fare in modo di non mettermi in situazioni in cui posso sentirmi a disagio. E allora magari preferisco partire molto presto la mattina piuttosto che arrivare la sera prima molto tardi. Ci si fa l’abitudine, ma è un pensiero in più che si somma, e sono sicura che per un uomo non sia così.
Abituata a viaggiare e lavorare per il mondo, una figlia cambia le priorità
Chiara Maria Trotto invece ha 35 anni, e da settembre si è trasferita in Colombia con la sua bambina di 5 anni e il marito. Ha studiato scienze sociali per la cooperazione allo sviluppo, e in qualche modo ha sempre saputo che vivere in posti diversi dall’Italia sarebbe stato il suo futuro. E in effetti è così: ogni tre anni circa lei e la sua famiglia fanno le valigie e cambiano destinazione.
Che cosa stai facendo in Colombia?
Sono qui da settembre 2019, e da gennaio di quest’anno ho un contratto con l’Istituto de Estudios Interculturales de la Pontificia Universidad Javeriana Cali. Qui do supporto al coordinamento per la formulazione di progetti interculturali, oltre a seguire progetti di filiere produttive per lo sviluppo strategico del territorio. A settembre però quando sono partita avevo solo il visto e una lettera di invito per uno stage.
Questo però non è il primo Paese straniero in cui vivi.
Direi proprio di no! Io sono “drogata” dal cambiamento. Da giovane ho cambiato anche tre Paesi in un solo anno. Da quando mio marito e io ci conosciamo, ogni due anni circa abbiamo cambiato casa. Per me cercare nuovi stimoli è un bisogno necessario. E poi questo tipo di cambiamento è una sorta di processo catartico: ti costringe a fare pulizia, a tornare all’essenziale, per capire cosa è necessario portare con te e cosa è superfluo.
So che hai una bambina di cinque anni. In tutto questo viaggiare, con la bambina come fai?
Chiara sorride, e tra me e me sorrido anche io. Quante volte mi sono sentita rivolgere questa domanda quando mio figlio aveva meno di due anni e io viaggiavo in Europa per lavoro lasciandolo – pensa un po’! – con il suo papà per due o tre giorni di fila. Succederà anche a lei? Se invece di Chiara stessi intervistando il suo compagno, gli avrei fatto la stessa domanda?
Mia figlia adesso è qui in Colombia con me, e frequenta un asilo. Il suo papà invece fa ancora avanti e indietro dall’Italia perché al momento ha un visto turistico. Quando è qui lavora da remoto per gestire i progetti per la Ong che abbiamo insieme in Congo, oltre che una società sua. All’inizio, quando la bimba è nata, non è stato facile. Non perché mi sentissi discriminata nel mio lavoro, ma piuttosto “frenata”. Proprio io, donna e professionista a cui il proprio lavoro piace tantissimo! Per me era frustrante pensare che uno scricciolo potesse frenarmi nel portare avanti quello che avevo costruito negli anni. E così ho faticato per tenere insieme tutto. I primi 11 mesi ho lavorato a distanza dall’Italia per coordinare i due volontari della Ong rimasti in Congo, ma poi ho voluto ricominciare ad andare in missione. Per la prima missione dopo la nascita mia figlia sono stata in Africa cinque settimane: dovevo impostare un nuovo progetto, scegliere le persone e fare formazione nei villaggi. Per me è stata una boccata di aria fresca. Mi sono resa conto che avevo bisogno di sentirmi di nuovo viva, produttiva, efficace, di essere valorizzata come professionista, non solo come mamma. E da allora ho continuato ad andare in missione ogni sei mesi, per poter vivere in prima persona quello che nel resto dell’anno gestivo da remoto.
Dalle missioni in Congo alla Colombia, qual è stato il passaggio?
Più mia figlia cresceva, più mi rendevo conto che mi stavo chiudendo in uno stile di vita che avevo sempre voluto evitare. Quel sistema per cui il tuo essere mamma precede ogni scelta, dove serve essere vicini ai nonni per avere una mano, e avere abbastanza soldi per pagare le rette dell’asilo nido altrimenti non lavori, ecc. Allora ho cercato una soluzione. Con mio marito avevamo esplorato la possibilità di trasferirci in Sudamerica, poi una cara amica che lavora in Colombia da otto anni all’Istituto di Studi Interculturali mi ha fatto una proposta. Non so dire come ho preso la decisione. So solo che una mattina mi sono svegliata e ho capito che dovevo prendere in mano la situazione, perché se avessimo aspettato il momento giusto per entrambi, mio marito ed io, non saremmo mai partiti. Così ho messo una data, ed eccomi qui!
Ho letto una intervista a Yvonne McNulty, docente all’Università di Scienze Sociali di Singapore, che si occupa di ricerche sugli espatriati. Lei dice di aver notato che le coppie che si trasferiscono per il lavoro della donna sono poi più felici di quelle che l’hanno fatto per il lavoro dell’uomo. È stato così anche per te?
In effetti devo dire che sebbene la scelta sia stata istintiva, poi da project manager quale sono ho cominciato a pianificare tutto nei dettagli. Non sono partita all’avventura, sapevo che avrei avuto casa vicino alla mia amica, avevo studiato nei minimi dettagli la scuola per la bimba e sono stata molto meticolosa nel capire i costi e tutte queste cose pratiche. Partire per vivere dall’altra parte del mondo e non essere organizzati è molto rischioso, basta poco poi per trovarsi in difficoltà.
Che cos’hai provato al momento di partire? È stato un cambiamento radicale.
Quali emozioni? Facendo un bilancio direi: 80% “wow, non vedo l’ora di partire, adrenalina che sale!” e un 20% di insicurezza data da Paese nuovo, lingua nuova, e il dover ricominciare da capo con uno stage. Da un lato c’era la felicità anche per la mia bambina, per l’opportunità fantastica che le stavamo dando, a lei che è già così socievole e aperta. Dall’altra facevano capolino i dubbi sulla sicurezza e la nostra incolumità, temi che consideri sempre in questi Paesi. Ecco perché adotto sempre un approccio di risk assessment iniziale, in ogni viaggio che ho fatto e che farò: valuto sempre come e dove muoverci e che cosa evitare di fare. Una sorta di protocollo per la famiglia. La valutazione del rischio è uno dei motivi per cui non ho mai portato mia figlia in Congo con me: lei ed io insieme saremmo state un bersaglio più facile e debole, in termini di sicurezza e salute.
La chiacchierata con Silvia e Chiara è finita. Due donne, due professioniste, che amano il proprio lavoro e si sono messe in gioco per la loro realizzazione personale.
Due donne con una storia divers,a eppure degli aspetti le accomunano: un compagno e una famiglia che le sostengono, ma anche un certo carico mentale. Perché entrambe ammettono che il pensiero sulla sicurezza e sull’incolumità personale c’è sempre, e si aggiunge alle fatiche del normale lavoro. E infine c’è il carico mentale dato dall’avere (o non avere) figli. Perché se Silvia mi dice: “Sai, per me è più facile fare questa vita perché non ho figli da cui tornare”, Chiara ammette che il fatto di avere una bambina è stato determinante nello scegliere la prossima destinazione del viaggio.
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