E’ giusto giudicare il libro dalla copertina?

Diceva Virginia Woolf che per quanto sembrino cose di secondaria importanza, la missione degli abiti non è soltanto quella di tenerci caldo. Essi cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo. Alla luce di ciò avremmo mai pensato che una donna giovane e bella rifiutasse di calzare una scarpa […]

Diceva Virginia Woolf che per quanto sembrino cose di secondaria importanza, la missione degli abiti non è soltanto quella di tenerci caldo. Essi cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo.
Alla luce di ciò avremmo mai pensato che una donna giovane e bella rifiutasse di calzare una scarpa col tacco e di truccarsi? Certamente no, e tanto meno avremmo immaginato che questo rifiuto, subito diffuso on line dalla diretta interessata, facesse tanto rumore fino ad arrivare nel severo Parlamento britannico invitato a emanare una nuova legge per impedire le discriminazioni sessuali in fatto di abbigliamento.

Eppure questo è quanto accaduto a Londra dove una giovane donna è stata licenziata per il suo rifiuto di diventare un‘attrazione sessuale per i clienti. La Commissione per la Parità dei sessi ha quindi presentato un rapporto alla Camera dei Comuni dal quale risulta che il caso di questo licenziamento non è unico e che molte donne sono “invitate” dai loro datori di lavoro ad indossare minigonne, portare i tacchi alti, essere ben truccate e … persino all’occorrenza tenere aperte le camicette fino al limite dell’indecenza, nonostante nel Regno Unito sia in vigore già dal 2010 una legge sull’uguaglianza dei sessi che vieterebbe simili imposizioni.

A questa storia fa però idealmente da contraltare quella di Debrahlee Lorenzana, una portoricana trasferitasi in America, la cui bellezza è stata il suo principale problema nel mondo del lavoro durante tutto il corso della sua esperienza professionale in campo finanziario. I suoi conclamati successi professionali non bastarono a proteggerla da molestie sessuali e da discriminazioni al limite dell’incredibile. Dopo alcune esperienze anch’esse terminate per lo stesso motivo nel 2008 venne assunta dalla Citibank dove, dopo pochi mesi in cui tutto sembrava finalmente andare per il meglio iniziarono le persecuzioni. Le venne contestato lo stile di abbigliamento ritenuto troppo appariscente tanto da incidere negativamente sul livello di performance dei colleghi maschi, troppo distratti dalle sue forme procaci. Richiamata per i pantaloni troppo stretti, per i maglioncini che, sia pur accollati fasciano le sue forme in maniera troppo provocante, per i suoi tacchi alti e gli abiti eleganti che risultano eccessivi.

Dedrahlee dimostra al capo del personale con tanto di foto che molte colleghe vestono sul lavoro in modo assai più provocante, ma le viene risposto che pur così abbigliate queste non attirano altrettanta attenzione. Dopo poco tempo viene licenziata con una motivazione che è tutta un programma: “non adatta alla “cultura” della Citibank”.

In Italia non si è mai discusso né in rete né sui quotidiani né in televisione di simili casi ma è indubbio che anche nel nostro bel Paese accadano episodi di questo genere. Si tratta di un settore che nessun legislatore ha mai pensato di dover regolamentare, reputando sufficiente il buon senso di ognuno nel vestirsi nel modo adatto in ogni ambiente: dal posto di lavoro, alla discoteca, al teatro, ad una cena a casa di amici o ad un party esclusivo nel mondo dello spettacolo.

Ma cosa dovremmo dedurre da questi due simbolici episodi? Che sarebbe necessaria una legge che decida al posto delle donne il tipo di abbigliamento più consono al posto di lavoro? E perché allora non regolamentare anche l’abbigliamento degli uomini? Infatti se è vero che a molte donne viene imposto un abbigliamento che prevede “minime coperture” è altrettanto vero che a molti uomini viene imposto il classico abbigliamento con giacca e cravatta il cui peso d’estate costituisce un vero tormento.

Ne consegue che una legge in materia sarebbe certamente impopolare e difficilmente la classe politica la proporrebbe. A meno che non la si chiami legge ma dress code, un termine che fa diventare la stessa cosa più interessante, più attuale, più a la page.

Ma cos’è e che origini ha il dress code?

Si tratta di un vero e proprio codice di comportamento riferito all’abbigliamento ed al suo utilizzo nei vari contesti sociali, che qualifica in qualche modo chi lo segue facendolo sentire a proprio agio in ogni occasione e permettendogli di presentarsi agli altri per quello che è o crede di essere.
E’ un po’ come la divisa dei corpi di polizia che dà sicurezza ai cittadini, come il camice del medico che li rassicura sulla loro salute, come la tuta del meccanico che garantisce la sua professionalità, come la tonaca del prete che aiuta chi lo incontra a sperare nell’aldilà.

Il dress code ha origine negli Stati Uniti anche perché, a mio avviso, gli americani hanno sempre sentito la mancanza di quelle severe regole di etichetta che in Europa sono state per secoli la caratteristica principale di ogni Corte reale dove i vari livelli di nobiltà imponevano regole severe, rispettate con assoluto scrupolo.
Il rituale del dress code ha infatti inconsapevolmente recepito proprio dalle Corti europee la sua complessità, nella quale non è facile districarsi anche perché i vari “codici” che lo caratterizzano non sempre sono trasportabili tout court in culture diverse da quella americana.

Ad esempio il differente colore della cravatta (white tie o black tie) sottolinea il grado di importanza di una serata di gala, già di per sé rilevante, di incontri politici o economici ad alto livello, mentre la black tie optional offre maggiore possibilità di scelta, rimessa alla cortesia personale dell’invitato verso che lo invita.
Ma tra i moltissimi codici impegnativi per occasioni importanti troviamo anche il semi formal attire che permette una maggiore libertà per tutti gli incontri che avvengono prima delle ore 18. Al fondo della classifica troviamo il casual che è però definito un non- dresscode, ed ultimo l’undress code vero e proprio: ad esempio quando in una spiaggia di naturisti è vietato l’ingresso con il costume.

In Italia una mini rivoluzione nel mondo del business ha avuto come protagonista Sergio Marchionne, il primo a sdoganare la giacca e la cravatta, facendo sì, sia pur con pareri non concordi, che suo maglione a girocollo diventasse un cult, un punto di riferimento per i futuri e rampanti manager, alla stregua del mitico orologio sul polsino destro dell’indimenticabile Avvocato.
Anche oltre oceano è emblematico il caso di Steve Jobs il quale, vedendo fallire la sua idea di dotare i dipendenti Apple di una divisa, decise di farlo per sé e chiese allo stilista giapponese Issey Miyake di preparargli una “divisa” che divenne il suo abbigliamento per i successivi dieci anni. Detto che a mio parere non era necessario uno stilista giapponese per suggerire jeans e dolcevita nera, la storia ha dato ragione a lui.

Quindi alla fine dei conti, l’abito fa il monaco?
Mi piace pensare che la soluzione all’annoso quesito venga ancora una volta da un mio illuminato capo che un giorno, riferendosi ad un episodio di una persona validissima ma vestita in modo non adeguato, mi disse: “Sarà anche vero che l’abito non fa il monaco ma tu hai mai visto un monaco senza l’abito?”

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