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Educatori sottopagati, dimenticati dalle cooperative. Lo dimostra il Covid-19
Tutele ingolfate in un pantano di contraddizioni, fino alla goccia che fa traboccare il vaso, inevitabilmente. Parliamo del lavoro degli educatori e delle educatrici, un ambito che queste ferite le conosce da tempo sulla propria pelle, e di conseguenza su quella dei destinatari della loro attività. L’attuale emergenza sanitaria dovuta al COVID-19 ha fatto esplodere […]
Tutele ingolfate in un pantano di contraddizioni, fino alla goccia che fa traboccare il vaso, inevitabilmente. Parliamo del lavoro degli educatori e delle educatrici, un ambito che queste ferite le conosce da tempo sulla propria pelle, e di conseguenza su quella dei destinatari della loro attività. L’attuale emergenza sanitaria dovuta al COVID-19 ha fatto esplodere le problematiche già esistenti, rendendole ancora più ingestibili e portando sfacciatamente a galla ciò che da ben prima non funzionava all’interno di questa fetta importante, e al contempo scarsamente riconosciuta, del terzo settore e dei servizi. Con Senza Filtro abbiamo voluto sondare questo punto di non ritorno, stanando i tanti paradossi del contesto – traghettati anche dalle figure che lo compongono – ma evitando di cadere nella banale visione manichea da “buoni” e “cattivi”. Invece abbiamo setacciato i punti sommersi con l’unico strumento possibile: fare domande scomode su tutti i fronti coinvolti. Senza mai glissare.
Gli educatori pagati 9 euro lordi all’ora: “Vorremmo il superamento delle cooperative”
Specifichiamo subito che in questo frangente parliamo di educatori/educatrici che lavorano per le cooperative occupandosi di assistenza scolastica e domiciliare, destinate a bambini e ragazzi con disabilità. Una professione che si rapporta con condizioni complesse e un articolato contesto di riferimenti: utenti, famiglia degli utenti, ente pubblico che eroga i fondi, mondo sanitario che fa le diagnosi e, non da ultime, le cooperative di cui gli educatori stessi fanno parte. Un lavoro impegnativo, per il quale è richiesta una formazione specifica, ma quasi per nulla valorizzato né tantomeno tutelato. Numeri alla mano, gli educatori vengono infatti pagati in media 8,86 euro lordi all’ora. Eppure gli enti pubblici pagano le cooperative di appartenenza dai 19-20 euro circa all’ora per l’assistenza scolastica, ai 25 euro circa all’ora per quella domiciliare.
Oltre a questo si aggiunge una vera e propria dinamica a cottimo: “Se ad esempio il bambino che seguiamo sta a casa da scuola per influenza, o per vari motivi non è disponibile per l’incontro domiciliare, noi quelle ore le perdiamo e non veniamo pagati”. La testimonianza ci arriva da chi con queste difficoltà si scontra da tempo. Parliamo di Federico Colomo: 38 anni, oltre 10 di esperienza come educatore, alla quale si aggiunge quella di rappresentante sindacale di ADL Cobas – Associazione Diritti Lavoratori Rimini, e di coordinatore della Rete degli Educatori/Educatrici di Rimini appartenente a quella nazionale.
“I collettivi sono nati in maniera informale”, spiega. “In molti territori si è poi proseguito con percorsi di sindacalizzazione”. La voce delle reti ha alzato fortemente il volume in questi mesi di emergenza, perché la busta paga di marzo di molti educatori è arrivata a segnare il triste primato in negativo di zero euro. E piove sul bagnato se pensiamo che all’appello manca anche il rimborso spese degli spostamenti in auto per raggiungere i domicili dei vari utenti. Vengono di norma pagati solo quelli della medesima fascia oraria.
A fine aprile abbiamo raggiunto Federico, telefonicamente, in provincia di Rimini, dove lavora per ben due cooperative. Svolge la sua attività con grande passione, sia sul fronte dell’assistenza educativa scolastica che di quella domiciliare. Ci risponde proprio al termine di un intervento a casa di un utente. Il suo è un lavoro che si concilia poco con il distanziamento sociale, e proprio a partire dalla questione sicurezza è franata quella delle tutele della categoria, trascinando con sé l’intero prequel di paradossi che tratteremo.
Federico, partiamo dal qui e ora della Fase 2. Per la continuità della vostra attività puntate a un potenziamento dei dispositivi di sicurezza o a una riorganizzazione del servizio?
Entrambe le cose. Fin all’inizio del lockdown noi abbiamo chiesto una rimodulazione dei servizi, ossia che continuassero a essere garantiti con attività a distanza. Siamo però anche consapevoli che per l’assistenza domiciliare ci sono situazioni più problematiche, non differibili. In quest’ultimo caso abbiamo espressamente richiesto dispositivi di protezione certificati e protocolli di intervento da parte delle ASL, da parte delle quali però c’è stato il totale abbandono. Questo anche a livello di coinvolgimento delle famiglie. Andava infatti affrontato il discorso della sanificazione degli ambienti, visto che le case degli utenti sono un nostro luogo di lavoro. E invece…
In pratica è stato delegato tutto al “fai da te” di voi educatori.
Esattamente, pur non essendo sostenibile. I riscontri sono mancati di settimana in settimana e questo ha creato due conseguenze: prima di tutto una grande frustrazione negli educatori che cercavano risposte nelle cooperative di appartenenza, e che a loro volta non le davano o non le potevano dare; seconda cosa, lo spaesamento delle famiglie, che per la maggior parte hanno deciso spontaneamente di sospendere l’intervento dell’operatore, visto come un potenziale veicolo di contagio. Noi abbiamo subito scritto alle ASL e ai comuni per chiedere un confronto, a livello ovviamente virtuale, ma da parte loro c’è stato il completo silenzio. Questo nonostante prima dell’emergenza fossimo abituati a interloquire.
Federico nel frattempo ha continuato a prestare servizio di educativa domiciliare. Gli chiediamo se la cooperativa di cui è socio si sia almeno attivata per fornire i presidi, visto che una parte consistente di quanto erogato dagli enti locali arriva alle coop.
Abbiamo dovuto battere i pugni più volte per ottenere dispositivi di protezione individuali. Alla fine sono stati dati, ma di tempo ne è trascorso e comunque sono mascherine molto basiche. Diversi educatori se le sono invece dovute comprare di tasca loro. Personalmente ho continuato a lavorare senza avere la garanzia che i famigliari dell’utente fossero negativi al coronavirus, io compreso. L’ASL non ci ha mai fornito nessun protocollo: la situazione l’ho gestita in autonomia con la famiglia.
La filiera dei paradossi: il “due pesi due misure” calato dai piani alti ma non solo
L’ambito degli educatori presenta diversi paradossi cristallizzati nel tempo. Non abbiamo badato a scrupoli nell’affrontarli perché su questo fronte si gioca l’impossibilità di rivendicare molti diritti lavorativi.
Il primo paradosso riguarda il rapporto con i committenti. A emergenza scoccata gli educatori hanno infatti affermato di essere a rischio, chiedendo quindi la sospensione del proprio servizio definendolo come non essenziale, al contrario di quello sanitario. Al contempo però viene ripetuto, proprio da loro stessi, che fanno un servizio insostituibile e appunto essenziale, e che per questo va mantenuto.
Come si conciliano questi paradossi eclatanti di definizione del servizio da parte di chi lo agisce, quindi voi?
Secondo me questa è la contraddizione principale. Noi abbiamo sempre sentito di essere un servizio pubblico essenziale, e l’emergenza sanitaria attuale ha esasperato una contraddizione strutturale: operiamo in servizi pubblici essenziali, ma che sono esternalizzati e privatizzati. In pratica siamo essenziali quando è utile definirci così, però poi nella pratica non accade questo. Basta vedere il confronto con gli insegnanti, per i quali la didattica a distanza è iniziata poco tempo dopo la chiusura delle scuole. Per gli educatori, quando è andata bene, l’attività a distanza è invece iniziata con un mese di ritardo, e persino con ore tagliate arbitrariamente, non si sa per quale motivo.
E proprio la didattica a distanza e il servizio educativo realizzato con le medesime modalità hanno ricevuto numerose critiche da parte dei genitori di bambini con disabilità, che li hanno definiti inapplicabili e addirittura inutili. Diverse le mobilitazioni di raccolta firme e anche petizioni su Change.org dirette alla ministra Azzolina, con l’esplicita richiesta di attivare i servizi in presenza perché i bambini con disabilità rischiano altrimenti la regressione, e i genitori sono costretti a diventare caregiver in toto, facendo il lavoro altrui. Gli educatori hanno però chiesto l’applicazione dell’articolo 48 del decreto Cura Italia per fare proprio attività a distanza.
A dispetto di tutto questo, com’è possibile chiedere la continuità di una modalità che da molti destinatari è definita inefficace?
Su questo punto abbiamo fatto un confronto tuttora in corso, e non possiamo negare i grossi limiti della didattica a distanza. Nella Fase 1, però, non avevamo alternative. Secondo noi i limiti della DAD ci sono perché siamo stati esclusi dal lavoro della sua organizzazione. A essere sacrificata è stata proprio la figura dell’educatore, che avrebbe avuto una valenza importante nella gestione delle famiglie, e questo dagli enti comunali non è stato capito.
Analizziamo altri paradossi, stavolta derivati dai piani alti. Tra le misure di governo c’è il bonus babysitter, una figura che svolge un lavoro diverso da quello degli educatori, ma che ha in comune con questi sia il fatto di andare a casa di bambini, anche disabili, sia la difficoltà a tenere il distanziamento sociale.
Federico, non la trova una contraddizione, visto che il vostro lavoro è stato bloccato per più di un mese proprio per questo motivo?
Assolutamente sì, anche perché l’intervento domiciliare nella prima fase non era una soluzione, e abbiamo sempre criticato la proposta di trasformare il nostro servizio di educatori scolastici in domiciliare. Il rischio era di tramutarci in un’attività di babysitteraggio.
Eppure ci sono stati educatori che hanno chiesto che i voucher potessero essere utilizzati per fare questo.
Per me è sbagliato. Io però l’assistenza domiciliare, cosa diversa da quella scolastica, non ho mai smesso di farla; ci sono casi gravi che necessitano di continuità.
Altra questione. Le Uonpia territoriali, in cui lavorano anche educatori, sono rimaste aperte, ma le terapie in presenza sono state sospese o vengono fatte a distanza. Tutto questo anche in Lombardia, zona rossa per eccellenza.
Ancora una volta due pesi e due misure?
Sì, e su questo manca una risposta chiara. Noi siamo consapevoli della difficoltà di riorganizzare i servizi, ma ribadiamo che se le misure risultano insufficienti per l’utenza è proprio perché non sono state prese in considerazione le nostre proposte.
In diversi casi gli educatori hanno puntato il dito contro le amministrazioni comunali perché hanno caldeggiato la continuità del servizio a domicilio, definito rischioso dai primi. Al contempo però hanno chiesto agli enti pubblici di erogare lo stesso i fondi messi a bilancio.
Non vi sembra contraddittorio chiedere che vengano versati soldi pubblici per il pagamento di un servizio che non viene concretizzato o, nel caso, solo parzialmente, soprattutto in considerazione delle famiglie di disabili private di tale servizio?
La nostra richiesta deriva dal fatto che va considerato non solo il lavoro frontale a distanza con i bambini, ma anche il tempo speso a confrontarci con gli insegnanti e le famiglie. I comuni ci hanno chiesto di rendicontare le ore fatte, noi invece abbiamo chiesto di poter relazionare il lavoro svolto.
Obiettivamente però come potreste chiedere all’ente comunale l’intera remunerazione su ore ridotte o anche non fatte?
Ci siamo ritrovati a svolgere molte più ore adesso che prima: calcoliamo non solo quelle frontali di intervento diretto, ma anche quelle di confronto con le famiglie. Per questa nuova fase siamo inoltre d’accordo per la riattivazione dei servizi in sicurezza con progetti estivi, strutturati in piccolo gruppo e in spazi appositi. Questo venendo incontro al grande problema dei genitori che devono andare al lavoro mentre le scuole sono chiuse. Il silenzio che abbiamo denunciato finora riguarda anche il governo. L’articolo 48 del decreto è stato finora disatteso anche per fare progetti in sicurezza.
Sappiamo di lamentele riguardo al fatto che voi educatori avete chiesto lo sblocco del bilancio comunale nonostante il Fis (Fondo d’integrazione salariale), la vostra cassa integrazione, che copre al massimo l’80% dello stipendio.
Il fatto è che diverse coop non hanno potuto anticipare il Fis, con la conseguenza che molti di noi sono senza stipendio. Da parte mia chiedo: com’è possibile che un comune eroghi lo stesso i buoni spesa e dall’altra parte metta in condizione gli operatori di avere busta paga in negativo? Un’altra contraddizione non da poco.
Quindi possiamo dire che voi non chiedete il Fis e anche i fondi comunali?
No, solo lo sblocco dei fondi per il nostro monte ore previsto. In questo modo non sovraccaricheremmo ulteriormente l’INPS.
In ogni caso resta in sospeso una grande questione per i servizi che non risulteranno attivati. Se non si potranno fare CRED estivi, se le famiglie non usufruiscono dell’attività a distanza, come giustificare il versamento in toto dei fondi da parte dei comuni, pur messi a bilancio, e al contempo risolvere l’emergenza delle buste paga in rosso di educatori/educatrici garantendo la giusta continuità di reddito?
Approdiamo a un punto focale della questione. Gli educatori nelle rivendicazioni dei loro diritti menzionano, come responsabili del loro disagio, gli enti pubblici, il governo, le dinamiche generali. Al contempo però c’è spesso un grande assente: i nomi delle cooperative di riferimento, che diventano quasi una figura di sfondo. Quindi chiediamo:
Perché continuare a chiedere un trattamento migliore a tutti gli altri senza invece fare la voce grossa con le coop e con chi le gestisce, visto che sono i vostri primi datori di lavoro?
Assolutamente vero! Tra l’altro molti di noi sono anche soci delle coop, ma raramente ci viene chiesto un parere su come organizzare un servizio. A questo punto dobbiamo dirlo: noi educatori vorremmo il superamento delle cooperative. Non si capisce come un servizio pubblico essenziale possa essere gestito da enti privati. Da qui la disparità eclatante di trattamento contrattuale ed economico tra dipendenti pubblici, gli insegnanti, e noi educatori, dipendenti privati. Come ADL Cobas ci siamo fatti sentire anche con le coop, con le quali abbiamo incontrato forte difficoltà di interlocuzione.
Ma i responsabili delle coop non sono al vostro fianco nemmeno per difendere la tutela della vostra sicurezza, che andrebbe anche a loro vantaggio?
No, purtroppo. Si sono attivate solo alcune federazioni perché la mancanza di erogazione dei fondi avrebbe messo in crisi la stabilità finanziaria delle coop. Negli ultimi anni c’è poi una tendenza preoccupante: l’allontanamento delle cooperative dal territorio. Molto spesso gli enti gestori sono consorzi e colossi che si muovono a macchia di leopardo a livello nazionale, partecipando a gare d’appalto al ribasso, ma senza conoscere il territorio né avere rapporti strutturati con noi educatori e con le famiglie degli utenti.
Viene quindi da ipotizzare che le coop vincano le gare non per il progetto presentato, ma solo per la proposta al ribasso.
Non c’è dubbio. Nella nostra provincia l’anno scorso ha vinto la gara di appalto una coop con sede a Brescia che non ha mai aperto nemmeno un ufficio: si sono presi i soldi ma mancano i servizi, con enormi problemi per educatori e utenti. Sta accadendo anche in Romagna.
Per il futuro immaginate dunque un rapporto diretto con gli enti?
Sì, vorremo un’internalizzazione del servizio. Essere assunti da aziende speciali della regione o dagli enti locali. L’ideale sarebbero i comuni.
Ma in tutto questo le cooperative che fine farebbero?
Le cooperative non devono gestire i servizi pubblico-essenziali, ma solo del privato sociale, per evitare tutti i danni che conosciamo. Noi non chiediamo la luna, ma solo di poter fare bene il nostro lavoro.
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