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Erediteremo malattie, non guadagni. Il naturale di ABOCA e la miopia della politica
Valentino Mercati, presidente di ABOCA intervistato da SenzaFiltro, parla a ruota libera: “Il naturale non è un’etichetta. Va difeso da oscurantismo e aberrazioni come la nutraceutica”.
“Ho l’età giusta per parlare senza filtri e per dire le cose come stanno veramente. C’è chi non lo fa perché dice che tiene famiglia: si vede che ognuno ha il suo modo di tenerla.”
Inizia così, senza mezzi termini e ancora meno fronzoli, l’intervista con Valentino Mercati, ideatore e fondatore di ABOCA, la più grande azienda a livello non solo italiano, ma anche europeo, di prodotti per la salute a base di sistemi di sostanze naturali e biodegradabili, tra cui integratori alimentari.
Un caso unico nel suo genere per la scommessa vinta a livello internazionale, quando ancora nessuno ci pensava e nemmeno credeva. I numeri parlano chiaro: più di 40 anni in spalla, oltre 1.600 dipendenti, 80 studi scientifici gestiti, la presenza in 16 Paesi e 1.700 ettari di scrupolosa produzione biologica dislocati in Umbria e Toscana.
Un gioco da ragazzi? Tutt’altro. Ma il cuore tematico di questo nostro confronto non è la storia dell’azienda, bensì un insieme di argomenti più che mai attuali e urgenti che hanno attraversato e attraversano il percorso imprenditoriale e di vita dell’ideatore di ABOCA. Perché le aspirazioni, le sfide e le preoccupazioni – nel senso letterale di occuparsi di qualcosa prima che accada – travalicano gli steccati delle tradizionali distinzioni per avvincere tutto quanto insieme.
Valentino Mercati, AD di ABOCA: “Il naturale non costa niente alle aziende, se ci sono i ricavi. Ma quanta disinformazione”
La nostra intervista parte in quarta da un tema spinoso e quanto mai attuale, dove protagonista è un’Italia bifronte: da un lato le risorse naturali e la bellezza, oltre che la predisposizione alla produzione agricola, dall’altro il selvaggio inquinamento industriale che ha inferto gravi e pericolose conseguenze. Tra i vari esempi la questione delle mancate bonifiche dei terreni in diverse zone da Nord a Sud, e non dimentichiamo che lo stesso Mercati anni fa aveva evidenziato la pesante contraddizione di trovarsi a confine con terreni coltivati da agricoltori che utilizzavano pesticidi. In seguito dalla Regione Toscana fu creato un tavolo tecnico che conciliasse gli interessi delle parti. In ogni caso, da allora l’azienda ha investito anche su nuovi terreni agricoli in aree più vaste e sicure, ad esempio in Val di Chiana.
Come valuta il nostro Paese sul fronte della possibilità di concretizzare un’agricoltura tutelata, se non addirittura biologica?
Il problema è purtroppo diffuso a macchia di leopardo. Non a caso utilizzo la metafora dell’arca di Noè per dire di traghettare verso il futuro, oltre determinate dinamiche. Attualmente abbiamo il grave problema dell’avvelenamento dei pozzi e del sistema vivente. Non possiamo dire che l’agricoltura biologica risolva la questione, ma per come la vedo io è la dimostrazione di un autentico “si può fare!”. Ciò che fa arrabbiare alcuni è che si può fare addirittura con successo, e noi lo abbiamo dimostrato a livello europeo con fatturati, manodopera coinvolta e anche con la condivisione di intenti, che sta alla base di tutto. Questo a dispetto di un’agricoltura che inquina aria, acqua, suolo e cibo.
Sempre a proposito di agricoltura rispettosa dell’ambiente, che senso ha parlare di chilometro zero in zone inquinate e scarsamente tutelate?
Il chilometro zero ha il suo fascino, perché ha il grosso vantaggio di collegare direttamente alla produzione facendo capire di cosa parliamo, oltre al fatto di eliminare i trasporti. Non si tratta però di un aspetto risolutivo come vuole far credere una parte di stampa improvvisata: su questo tema si veicolano stereotipi, sarebbe importante far comprendere le differenze. Negli anni Ottanta esistevano i giornalisti scientifici; adesso dove sono?
Tornando al tema di una produzione rispettosa dell’ambiente e della salute dei fruitori, quanto costa in termini materiali questa attenzione a un’impresa che voglia concretizzarla?
Non costa niente, se poi hai ricavi, e per averli occorre investire. È una questione di coerenza: la mia azienda ha sempre guadagnato perché abbiamo sempre mantenuto le promesse. Se dico che il naturale ha questi vantaggi devo fare il naturale vero. Se ti prometto un vino che non ti infiammi l’intestino e poi ci metto dentro i solfiti per conservarlo di cosa sto parlando? Siamo un’azienda certificata B Corp, ossia per il bene comune: questo non significa fare i francescani ma creare un modo per vivere bene. Ogni volta che facciamo un prodotto i primi a cui pensiamo sono i bambini, e la condivisione nel gruppo di lavoro è uno dei modi che ci permette di lavorare meglio e con successo, non certo la lotta. Poi non tutti reggono, perché pensare in modo libero non è appunto per tutti; risulta difficile soprattutto pensare a quello che ancora non c’è. Ci sono laureati che preferiscono vivere in una gabbia anziché far succedere le cose. Dico sempre ai miei ricercatori di non basarsi sulla bibliografia, ma sui bisogni, su quello che ancora manca, perché è da lì che occorre partire. Ogni volta che scrivo le etichette di un prodotto devo vendere quello che non c’è, ma di cui si ha necessità.
Dove vede l’ostacolo più grande per raggiungere una coerenza nell’ambito del biologico e della tutela di ambiente e salute: nella normativa troppo fragile, nelle leve motivazionali di imprenditori e imprenditrici o nella scarsa valorizzazione generale?
Il problema più grosso è per me l’oscurantismo, che è esistito in ogni epoca, ossia cercare di mantenere lo status quo. Ora l’oscurantismo riguarda, ad esempio, il concentrarsi su alcuni aspetti e non parlare di altri, come gli effetti delle sostanze non biodegradabili che sono deleteri. Si parla poi di intelligenza artificiale, dimenticando pericolosamente che l’uomo non è questo. Se l’artificiale diventa uno dei punti fermi non solo la naturalità viene meno, ma l’umanità stessa salta per aria.
Quindi è la consapevolezza che manca?
Diciamo che in generale viene cercata una soddisfazione nel qui e ora fregandosene del futuro. Il futuro non vota e il domani non interessa a chi ha la pancia piena e sta al caldo. Magari si sa che esiste il problema, ma viene accantonato, e mi stupisce ancora di più che questo avvenga da parte di chi dovrebbe per sua natura proteggere la prole. Le malattie sono già qui e ora in ogni famiglia; non domani. Bisognerebbe far vedere qual è l’incidenza sul sistema immunitario umano da parte della genomica artificiale. Pensiamo poi all’OGM, altro aspetto terrificante: non sappiamo ancora quali saranno gli effetti futuri.
Nel biologico c’è chi tenta di abbassare i paletti e chi li alza per sua scelta: una contraddizione nell’ambito?
Li stiamo alzando anche adesso, i paletti, ed è una questione logica: alzandoli ci guadagniamo di più. Nel momento in cui alziamo i paletti aumentiamo dimensioni di conoscenza che altri non hanno. La differenza fondamentale è tra chi usa il termine naturale come semplice etichetta di marketing e chi, come noi, come vantaggio effettivo sul vivente. Andare in cantina o in vigna cercando di capire le caratteristiche dei lieviti ha ad esempio un vantaggio competitivo pazzesco. Chi fa marketing di apparenza ha vita breve e non regge la competizione in confronto a chi fa le cose in maniera autentica. Poi torniamo alla differenza di prima: c’è chi investe per il futuro e chi solo nel qui e ora, sbagliando.
Anni fa con ABOCA avete ridato dignità al mondo delle sostanze vegetali, affrontandolo con un metodo scientifico rigoroso e includendolo in un contesto integrato alla medicina. Ora invece qual è la situazione?
Per noi paradossalmente risulta più facile perché il naturale risponde a esigenze di salute non ancora coperte. Occorre comprendere che per far sopravvivere il vivente occorre il vero vivente, e non ad esempio la nutraceutica, che è un’aberrazione perché porta all’interno dell’alimentazione i concetti di artificialità, in contrasto con quanto detto prima.
Nutrirsi bene è un diritto di tutti, eppure chi ha scarsa disponibilità economica non può: il problema della fruizione elitaria di determinati prodotti esiste. Dall’altro il lavoro di chi si impegna ogni giorno per realizzarli deve essere giustamente riconosciuto. Questo aut aut resterà irrisolvibile?
Questo è un dilemma, oltre che una deformazione, su cui ci confrontiamo tutti i giorni. La qualità va valorizzata, ma allo stesso tempo le persone vanno difese da cibi che aumentano la possibilità di ammalarsi. Certo, c’è poi chi dice che il biologico costa e lo esclude dalla sua vita, ma magari intanto ha quattro cellulari.
Abbiamo parlato di produzione e di consumatori, ma resta una domanda cardine: possiamo dire che la qualità di un prodotto e la soddisfazione di chi ne fruisce passino necessariamente attraverso la qualità delle condizioni e delle tutele di chi lavora?
Sì, per avere un buon prodotto finale occorre essere messi nella condizione di poter lavorare bene. Mia madre diceva che il lavoro è un dono di Dio, non una schiavitù. Andare al lavoro deve gratificare: da questo dipende anche la qualità del prodotto. Il lavoro va accompagnato da amore e consapevolezza.
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