“Abbastanza” è la risposta di Paolo Curtaz, evangelizzatore freelance – l’unico in Italia a farlo, e di questo vive – nonché ex prete. Sulla carta d’identità, alla voce professione, c’è “scrittore”, e infatti pubblica da anni per Mondadori, Piemme, Paoline, Claudiana editrice, San Paolo. Vive ad Aosta, dove è nato. Di studi alle spalle ne ha incamerati tanti: partendo dalla coda, ha un dottorato di ricerca presso la facoltà teologica di Lugano e, prima, studi alla Pontificia facoltà teologica di Torino e all’Università pontificia Salesiana. Totale: undici anni a formarsi. Ci sentiamo al telefono di sabato sera, prepara la cena mentre mi risponde, ci tiene a spiegare con cura certi messaggi.
Non a caso mi soffermo con lui sul percorso di formazione perché, più parla e più ascolto, più mi è chiaro che per diventare preti c’è da studiare parecchio, e non è scontato arrivare in fondo e farsi dire di sì dal sistema.
“Andiamo per gradi. Se per lavoro si intende una professionalità retribuita, dico che lo è abbastanza. Sappiamo tutti che la Chiesa non dà certo un salario o uno stipendio, quello che riconosce è una forma di sostentamento al clero più la copertura delle spese di alloggio. Ma non è nemmeno così ovunque; al Sud ad esempio non c’è la tradizione di abitare in parrocchia perché mancano spesso le case parrocchiali: vuol dire che molti preti dormono ancora a casa con le famiglie di origine o in modo autonomo, a proprie spese. Ci tengo anche a dire che nessuno diventa prete per trovarsi un lavoro, la leva è ben diversa, è interiore. È invece un lavoro vero e proprio se lo guardiamo come un percorso che richiede scelte ben precise: dalla laurea richiesta al celibato. Fare il prete è diventata un’attività impegnativa, complessa, piena di responsabilità, chi lo fa sul serio lavora come un pazzo. Non si sente dire, ma sono tantissimi i casi di burnout per cui alcuni lasciano, e il tornare sui passi spesso non ha niente a vedere con la banalizzazione del celibato: spesso chi lascia lo fa per insostenibilità psicofisica del ruolo”.
Proprio per queste stesse ragioni c’è chi non inizia più il percorso, contribuendo al crollo drammatico di risorse che, non si può tacerlo, ha subito negli ultimi decenni anche il peso di tutta la deriva immorale di fette torbide dentro la Chiesa.
“Ho partecipato all’ultimo Sinodo europeo e dovreste sentire cosa dicono i preti irlandesi della pedofilia a casa loro, con tanto di cardinale imbrigliato. Questo anche per dire che non c’è più, in Italia come nel mondo, quel valore sociale che una volta attribuivamo alle figure della Chiesa, è caduto il velo, abbiamo visto cose che hanno fatto riflettere e, purtroppo, allontanare”.
Penso agli insegnanti e allo stesso filo sottile su cui salgono ogni giorno, spesso sguarniti, per andare incontro alla società: in molti casi sguarniti per assenza di competenze, per disinteresse a formarsi di più dato che nessuno o quasi li controlla; sguarniti per attitudini e carattere, per formazione inadeguata o insufficiente lungo la vita professionale. Chissà se il parallelo vale anche per i preti.
“Tra i preti e il vescovo c’è un rapporto di fiducia piena, e salta qualsiasi parallelismo tra il mondo della Chiesa e quello del lavoro tradizionalmente inteso, coi suoi obblighi contrattuali, i sindacati, la formazione professionale, le sanzioni, il controllo. Nelle scuole c’è una spinta obbligatoria ben diversa, e altre logiche”.