
Giulia Elisa Martinozzi, dell’Associazione Nazionale Navigator e curatrice del libro “Navigator (a vista)”, intervistata da SenzaFiltro: “Cambiare la narrazione contro di noi e i percettori di RdC. Ma su di loro bisogna lavorare ancora a lungo”.
Parliamo di content marketing, al di là degli anglicismi: il giusto contenuto può garantire il successo di un’azienda. Come nel caso della Guida Michelin.
Il Festival Nobìlita è stata una bella occasione per parlare di media company e di come i contenuti siano diventati il fulcro della comunicazione aziendale.
Per iniziare a parlare di content
marketing sgombriamo subito il campo da alcuni luoghi comuni: il content
marketing non è una novità di questi anni; non è nato con i social network, con
Facebook e neanche con i blog. Soprattutto, non ha a che fare direttamente con
il digital marketing. Ha una tradizione, e questa tradizione è anche piuttosto
lunga; per arrivare a comprendere di che si tratta oggi, che utilità ha, e come
possiamo servircene, facciamo un salto all’indietro nel tempo e cerchiamo di approfondire
la materia. Dobbiamo capire quando nasce, come si è evoluta, cosa ci troviamo
in mano oggi. Scavare a fondo.
Probabilmente sarà sorprendente scoprire che gli studiosi collocano le
origini del content marketing nel 1895 (con la rivista The Farrow del
brand John Deere, un giornale di consigli per agricoltori che tutt’ora – con
modalità diverse – è pubblicato con un grande seguito). Un altro degli esempi
virtuosi tra i modelli primordiali di content marketing riguarda la Guida
Michelin. L’azienda di pneumatici francese nacque nel 1889, e nove
anni dopo i due gemelli proprietari dell’azienda decisero di redigere un
libretto di quattrocento pagine con una serie di informazioni per il viaggio degli automobilisti di allora: stazioni
ferroviarie, medici, farmacisti, meccanici, benzinai, e ovviamente anche
gommisti. Parliamo di un periodo in cui le automobili erano ancora rarità (in
tutta la Francia non superavano le tremila unità), tant’è che la rivista veniva
diffusa gratuitamente. Agli occhi dei guidatori appariva come un contenuto di
grande valore: includeva informazioni sulla manutenzione delle vetture, su dove
alloggiare, su dove mangiare, su dove fare benzina e, naturalmente, su dove
comprare gli pneumatici, che all’epoca erano soggetti a una maggiore usura.
Insomma, Michelin aveva dato prova di autorevolezza nel settore
automobilistico. Perché dunque scegliere un’altra marca di gomme?
Presumibilmente
i gemelli Michelin non avevano
ideato la guida con la consapevolezza che il giochino avrebbe potuto portare un
rientro notevole in termini di immagine, almeno fino a quando uno dei due – in sosta dal benzinaio – notò una grossa pila delle sue
guide utilizzata come spessore per regolare una gamba di un tavolo ballerino.
Così
l’idea: pubblicare la rivista a
pagamento, e introdurci anche i ristoranti (da qui l’attuale e prestigiosa
classifica dei ristoranti e degli chef con le stelle Michelin). Che cosa ha a
che vedere il mondo della ristorazione con quello degli pneumatici? Assolutamente
niente.
È proprio questo il punto che ci conduce alla regola
vitale del content marketing: non si fa pubblicità al prodotto, ma si
focalizza l’attenzione sul brand.
Il contenuto diventa il pilastro
della strategia di marketing, e fa sì che il brand si diffonda generando awareness,
autorevolezza e passaparola. Nel caso del gruppo Michelin è pressoché
impossibile che una persona non l’abbia mai sentito nominare in vita sua, il
che significa che la strategia – voluta
o meno, non è dato saperlo – ha
funzionato.
Negli anni a seguire, con la presa di coscienza del potere della pubblicità, le aziende hanno preferito un altro tipo di marketing, quello dell’interruzione, una strategia che secondo alcuni studiosi – tra questi Seth Godin, già autore del celeberrimo La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone – non è più sostenibile. Il cosiddetto marketing tradizionale è un tipo di marketing opprimente, fatto di telefonate aggressive e non richieste da call-center, di spot che interrompono i programmi, di soldi spesi per mettere in primo piano il prodotto (come se la Michelin nel 1900 avesse basato la sua campagna sugli pneumatici). In poche parole, un marketing che non offre nessun valore alle persone. Questo è punto di svolta, la chiave di tutta la questione: i contenuti, per funzionare, devono essere di valore per chi li legge, per chi si immedesima, per chi si schiera. È così, solo così, che si passa dall’interruption marketing al permission marketing.
L’evoluzione del marketing – il
passaggio dal marketing tradizionale a quello moderno, che si avvicina ancora
di più alla parola “comunicazione” (concetto sul quale torneremo) – si può
racchiudere in sei punti chiave:
Considerati questi punti, è bene tenere sempre a mente che il content marketing non è una medicina con effetto immediato, ma un progetto da disegnare con una strategia molto accurata, che porta soprattutto a risultati ed effetti nel lungo periodo.
Come ha raccontato
Giampaolo Colletti su Il Sole 24 Ore in La casa di carta dello storytelling. I marchi puntano sul magazine,
le marche durante questi anni
connessi hanno ricominciato, sulla scia della Guida Michelin di cui sopra, a
creare magazine cartacei. Così
intercettano clienti, fornitori, terze parti. La rivista dà uno sguardo
privilegiato sul proprio business, tocca temi laterali e di frontiera, aggrega
clienti attuali o potenziali. Insomma, opera comunicazione d’impresa in un’area
meno esposta e più protetta rispetto ai social media. Nelle pagine si veicolano
valori e visioni con esito positivo, a patto di rispettare quattro
condizioni:
L’efficacia aumenta quando l’autenticità vince sull’autoreferenzialità. Secondo quanto rileva l’agenzia americana Mdg Advertising, oltre due terzi dei consumatori (circa il 70%) preferisce conoscere un marchio attraverso un contenuto coinvolgente piuttosto che “sorbirsi” i semplici annunci pubblicitari. Precedenti storici di grandi compagnie italiane ed estere dimostrano che, se entri nella testa del pubblico e sei originale, allora hai buone probabilità di lasciare un segno.
È
chiaro che, per quanto alcuni indicatori (come il successo di Michelin) abbiano
segnato la via, oggi i risultati sono molto più facilmente misurabili. Ora
il content marketing si serve di una serie di formati multimediali per
sviluppare i contenuti di un brand –
testi, fotografie, infografiche, audio, presentazioni, ebook –, tutti fruibili dai computer, dagli
smartphone, dai tablet, e distribuiti da soggetti terzi che, attraverso le call
to action o i codici sconto, possono analizzare, concretamente e costantemente,
i risultati di un’operazione marketing.
Detto
questo, sarebbe un errore pensare che i mezzi di comunicazione siano essi
stessi la comunicazione: e anche se esistono tool e strumenti di automazione c’è ancora bisogno di un tocco umano,
c’è bisogno di persone che abbiano le competenze e le qualità per far sì che la
comunicazione di un brand faccia la differenza.
Questi
sono alcuni punti chiave da considerare quando si vogliono creare storie emozionanti
e interessanti associate a un brand:
Qualcuno
parla di creare storie non troppo lunghe. Non credetegli. Esistono storie bellissime,
lunghissime e molto apprezzate. Anche sui social. Se i clienti saranno
entrati in contatto con la storia a livello emozionale, vorranno farne parte.
La storia che ho scritto per Granoro – I padri non sanno piangere – e che ho mostrato durante Nobìlita è un’operazione di content marketing e storytelling finalizzata a far conoscere la filiera del marchio di pasta 100% pugliese. Parla a un pubblico specifico, i pugliesi, e gioca sul fattore dell’immedesimazione attraverso il formato video e il post del blog.
Quando
si pianifica una strategia occorre pensarla da editori e rispondere a cinque
domande riguardanti la realtà dell’azienda.
Primo
passo, il perché: è molto
importante. Come si colloca la content strategy? Da chi è composto il pubblico
di riferimento? Sono clienti o solo potenziali? Che preferenze hanno? Che media
preferiscono usare? Come si può aiutarli? Si parte con l’identikit del cliente, davvero
fondamentale prima di iniziare a scrivere. Ancor prima di caricare video su
YouTube o mettersi all’opera con un qualsiasi progetto della content strategy, bisogna
avere in mente chi sono i clienti e sapere tutto di loro.
Occorre
avere la loro backstory: quanti anni hanno, dove vivono, che lavoro fanno,
come passano il tempo online, quanto ne hanno per leggere la tipologia di
contenuti che si vuole creare. In base a quello si saprà che tono di voce
usare, che formula adottare.
La strategia dipende dal target: individuarlo in modo molto preciso è fondamentale. Poi bisogna ragionare da media company: il contenuto e il perché di quel contenuto vengono prima del prodotto. In fondo cos’è un contenuto se non il prodotto stesso della nostra comunicazione?
Photo credits by Hospitality School
Giulia Elisa Martinozzi, dell’Associazione Nazionale Navigator e curatrice del libro “Navigator (a vista)”, intervistata da SenzaFiltro: “Cambiare la narrazione contro di noi e i percettori di RdC. Ma su di loro bisogna lavorare ancora a lungo”.
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