Calabria, lavoro da (ri)scoprire

Parlare di Calabria, mia terra natìa, è sempre difficile. Parlare di lavoro in Calabria, oggi, è una sfida mista tra utopia e misticismo. Sì perché nel 2015 la situazione lavorativa calabrese, in un’Italia che vede piccoli segnali di ripresa, è ancora al minimo storico. E quel poco di lavoro che esiste è strettamente legato alla […]

Parlare di Calabria, mia terra natìa, è sempre difficile. Parlare di lavoro in Calabria, oggi, è una sfida mista tra utopia e misticismo. Sì perché nel 2015 la situazione lavorativa calabrese, in un’Italia che vede piccoli segnali di ripresa, è ancora al minimo storico. E quel poco di lavoro che esiste è strettamente legato alla stagionalità. Per questo nel titolo di questo articolo ho voluto parafrasare l’ormai famoso slogan turistico degli anni passati: “Calabria, Mediterraneo da scoprire”. Una Regione bagnata da due mari, Tirreno e Ionio, nella quale la stagione estiva dura da maggio a settembre regalando quel poco di esperienza lavorativa ai tanti giovani che hanno voglia di fare, di lavorare, di rendersi autonomi. Una Regione in cui al turismo balneare si affianca un piccolo ma in crescita turismo montano, grazie alla parte finale dell’Appenino italico che vede nella Sila, nelle Serre vibonesi e nell’Aspromonte un susseguirsi di meravigliosi paesaggi naturalistici coniugati ad un’offerta eno-gastronomica da far impallidire Expo 2015.

E fuori dalla stagionalità del lavoro turistico? Nulla, il vuoto. I pochi “fortunati” tirano su qualche somma coi lavori stagionali e bivaccano durante gli altri mesi. Non per noia, pigrizia o per fancazzismo (mi si passi il termine) come decantavano alcuni politici vestiti di verde anni fa, ma per mancanza di possibilità e di immobilismo di una classe politica vecchia, menefreghista e adagiata sulle loro poltrone, interessata solo ai voti di scambio. Lungi da me farne una questione politica, anche perché la situazione negli anni è rimasta invariata indipendentemente dalla parte politica seduta nel Consiglio Regionale. I problemi del lavoro in Calabria, purtroppo, hanno una radice molto più antica, risalente ad un determinato periodo storico sociale: l’unificazione d’Italia. Già perché come afferma il giornalista Pino Aprile, nel suo libro bestseller “Terroni”, l’intero Sud Italia prima del 1861 era ricco, industrializzato e fiorente. Poi? Depredato di tutto, in quello che è passato alla storia come processo di Unificazione d’Italia e che ha letteralmente dato vita a quelle “organizzazioni” che oggi sono il vero male dell’intero Sud, cioè le varie Cosa Nostra, Stidda, Sacra Corona Unita, Camorra e, nel caso della Calabria, la ‘Ndrangheta.

Potremmo parlare forse di Garanzia Giovani, il programma di sviluppo ideato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sostenuto dall’Unione Europea, volto a sostenere le imprese e l’assunzione di giovani. Molto usato in quasi tutte le Regioni d’Italia, praticamente inesistente in Calabria, dove da anni si verifica il solito teatrino di scarica-barile delle responsabilità.
Potremmo parlare forse del rischio licenziamento dopo anni di cassa integrazione per i lavoratori della ItalCementi di Castrovillari, una delle poche fabbriche della zona e da poco acquisita dai tedeschi di Heidelberg nel silenzio più assoluto e senza un minimo di confronto sindacale.

Potremmo infine parlare di Emanuele Ferragina, esempio emblematico di una Regione che non solo non riesce a frenare la cosiddetta “fuga di cervelli”, ma che nemmeno sa riconoscerli. Nella fattispecie, il Ferragina era uno dei tanti ricercatori che in Calabria, tra precariato e cattedre universitarie regalate a parenti senza alcun merito accademico, hanno fatto letteralmente la fame. Ora Emanuele, come sottolineato dal giornalista Filippo Veltri, è uno di quei ragazzi che ci danno lustro all’estero, in quanto docente di Politiche sociali comparate nientepopodimenochè ad Oxford.

Forse, per visualizzare meglio i problemi e dare inizio ad un percorso per cambiare veramente le cose, dovremmo parlare di questo. Dei casi di successo della controversa Terra di Calabria. Prendere il (poco) buono che si è fatto, e cercare di elevarlo ad esempio per i giovani, sempre più bisognosi di modelli di riferimento positivi e casi di successo. Modello positivo che può arrivare da quanto di buono stanno facendo nel campo dell’ innovazione molte startup calabresi nate nel TechNest dell’Università della Calabria (Rende, CS), come la Gel-Oil, startup tutta al femminile che rivoluziona l’uso di uno dei prodotti di punta dell’economia calabrese: l’olio. O grazie all’aiuto di CalabriaInnova, un Progetto Integrato di Sviluppo Regionale (PISR) finalizzato a sostenere i processi di innovazione delle imprese calabresi. Parlando di innovazione, la strada intrapresa è quella giusta, basta non accontentarsi e puntare a crescere sempre di più.

Senza dimenticare le proprie radici contadine, i buoni esempi vengano anche dal settore agricolo. Modello di riferimento è la tenacia di un giovane di un piccolo paesino collinare, San Floro. Paese balzato al centro della cronaca nazionale dopo l’annuncio del Governo di voler costruire in quella zona la Discarica della Battaglina, tra le più grandi d’Europa. Per contro risposta, il 27enne Stefano Caccavari ha creato “Orto in famiglia”, che oggi conta più di 100 famiglie coinvolte, praticamente quasi l’intero paese.

Sono proprio questi gli esempi che dovremmo seguire. Il desiderio di non dover per forza lasciare la propria terra per vivere e lavorare. Anche se non sempre chi rimane è perché ha deciso di lottare, e chi è partito è perché ci ha rinunciato (come il sottoscritto). Ne “Il Becco del Tucano”, un blog che seguo e leggo spesso, si può leggere: “Una delle ultime letture che ho fatto prima dell’estate è “Ti ho vista che ridevi” la seconda opera di Lou Palanca, molto bella sotto tutti i punti di vista, ma ciò che mi ha fatto riflettere di più è stato il passaggio in cui si afferma che in Calabria non ci sono forme dialettali che esprimono un verbo al futuro. Adesso dopo questa stagione e questi incontri credo di avere capito il perchè…”. Cambiare i mille dialetti calabresi di certo non si può, ma forse non c’è bisogno di parlare al futuro per crearne uno dignitoso ed in cui venga garantito l’Articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani: il Diritto al Lavoro.

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