Scarica il podcast della puntata. Jessica Alessi ha 2 figli, un marito e una vita vissuta tra Argentina, Usa e Italia. Nata in Belgio da mamma belga e papà italiano, è la perfetta cittadina del mondo, capace di cogliere da ogni esperienza e cultura i tratti migliori. Capace e determinata, sorride sempre e quando le parli hai […]
Il lavoro in fabbrica ha messo l’abito buono
“Ma perché non abolire le differenze contrattuali fra operai e impiegati?”. No, non è una frase di un sindacalista estremista: l’ha pronunciata, davanti a me, il direttore di uno dei più grandi stabilimenti della Fiat in Italia. Sorpresi? Io sì. E molto. Tutt’ora quando ripenso alle ore passate in quella fabbrica a cercare di capire […]
“Ma perché non abolire le differenze contrattuali fra operai e impiegati?”. No, non è una frase di un sindacalista estremista: l’ha pronunciata, davanti a me, il direttore di uno dei più grandi stabilimenti della Fiat in Italia.
Sorpresi? Io sì. E molto. Tutt’ora quando ripenso alle ore passate in quella fabbrica a cercare di capire come si stanno intrecciando internet, tablet e robot con le “mitiche” braccia operaie, ovvero come sta cambiando davvero il lavoro lungo le linee di montaggio, ma più in generale in ambienti di lavoro complessi, mi chiedo come sia possibile trasferire ai lettori l’enormità e la velocità del cambiamento in atto nell’industria italiana, grande e piccola.
Ho chiesto a un sindacalista territoriale lombardo di procurarmi un elenco di imprese metalmeccaniche che adottano sistemi di lavoro innovativi. Risposta: “È impossibile metterne a fuoco uno completo, anche perché a me vengono in mente sia aziende dai nomi altisonanti che quelle note solo agli addetti ai lavori: dalla Brembo di Mapello alla Bosch di Offanengo, dai vari siti dell’ABB alla Elettrotecnica Rold di Nerviano, dalla Robimoto di Casalmaggiore alla Technoprobe di Cernusco o alla Nuova Pignone di Talamona”.
Se è così, e così è, c’è qualcosa di profondo che si sta muovendo sul fronte del lavoro in fabbrica. E allora vale la pena fissare subito tre paletti per capirne l’evoluzione.
I punti cardine delle nuove fabbriche: la manifattura
Il primo e più importante è quello dello scenario nel quale si stanno radicando le trasformazioni dell’industria e del suo “popolo” (ovvero delle figure professionali classiche, capi e operai). E lo scenario è chiarissimo: in futuro la fabbrica diventerà un bene sempre più prezioso al crescere della complessità dei beni prodotti.
L’abilità manifatturiera, di cui per fortuna l’Italia resta uno dei Paesi più ricchi al mondo, sarà una capacità circoscritta ad alcuni territori in grado di governare e attirare a sé il flusso dei dati digitali prodotti in università e centri di ricerca anche fisicamente lontanissimi. Saranno questi dati a rendere più efficiente l’industria e a collegare al mondo non solo i singoli impianti industriali, ma anche i territori nei quali essi operano. In un recente convegno svoltosi non a caso a Detroit, città simbolo dell’industria americana dove dopo ventidue anni sta per essere inaugurata una nuova fabbrica d’auto da parte di FCA, alcuni esperti di automotive hanno spiegato che la capacità di assemblare oggetti complessi come le auto renderà in futuro le fabbriche dell’area dei veri e propri hub manifatturieri: presto altre aziende o le università chiederanno proprio alle industrie dell’auto di fabbricare anche oggetti diversi dalle vetture.
Personalizzazione dei prodotti, baricentro spostato sugli operai e nuove tecnologie nelle fabbriche del futuro
Secondo: le imprese innovative (quelle marginali o “ferme” vivono film completamenti diversi) oggi sono chiamate a produrre oggetti sempre più personalizzati (ovvero unici anche quando sono progettati per essere fabbricati in serie), oppure sono inserite in catene del valore sofisticate e distribuite in tutto il globo. Di conseguenza hanno bisogno di personale maggiormente qualificato, o comunque maggiormente coinvolto e responsabilizzato nei processi di produzione.
Modificare la figura dell’operaio massa di stampo fordista non è una scelta “buonista”, insomma, ma una scelta obbligata figlia di un modello di business che si adegua alle nuove tecnologie e alle nuove esigenze della produzione. Di qui la diffusione a macchia di leopardo nell’industria italiana del cosiddetto ingaggio cognitivo, ovvero della richiesta agli operai di non lavorare solo con le mani, ma di contribuire al miglioramento del processo produttivo anche con idee o comunque con un ruolo attivo nell’organizzazione del lavoro.
Questo processo sta determinando la rinascita di una sorta di aristocrazia operaia con figure professionali connotate da forti doti di leadership, come i team leader che coordinano le squadre dei loro colleghi senza essere dei “capi” in senso classico. Questa evoluzione sta inserendo nelle competenze operaie spezzoni di attività intellettuali (ad esempio il controllo del dialogo con le macchine o la formulazione di proposte corredate da progetti nei quali sono calcolati i risparmi in termini di costi) che ne determinano un forte aumento del valore aggiunto.
I sindacalisti più attenti al fenomeno, in particolare quelli del comparto metalmeccanico, fanno questo quadro di sintesi: “Negli ultimi anni i committenti, in particolare esteri, hanno molto alzato le asticelle qualitative. Di conseguenza le imprese italiane hanno utilizzato le strumentazioni digitali di Industry 4.0 per introdurre dei range di controllo automatico della qualità. Spesso le macchine sono collegate in rete tra loro e a un computer centrale dello stabilimento, e questo passaggio ha tolto in qualche modo il ‘potere’ dei capireparto di taroccare i dati trasferendolo direttamente all’operatore addetto al controllo”.
La conseguenza di questo passaggio è che generalmente le aziende fissano dei parametri di tolleranza visualizzabili tramite due linee parallele dentro le quali il prodotto deve collocarsi. Spetta agli operai in prima persona controllare e “firmare” il settaggio delle macchine: di qui l’aumento del loro ingaggio cognitivo e l’ibridazione delle funzioni manuali con quelle intellettuali. Detta in altri termini: la figura della tuta-blu esecutore “ubbidiente” si sta diluendo in quella di un operatore più consapevole del suo ruolo. Il bello è che processi analoghi non si concentrano solo nelle aziende più grandi, ma in tutte quelle collegate in filiere di fornitura just in sequence (ovvero con meccanismi progettati per far arrivare i componenti sulla linea nell’ordine del loro montaggio), oppure proiettate all’esterno della fabbrica nella fornitura di servizi post-vendita, che in futuro rappresenteranno una quota sempre maggiore del valore aggiunto dei prodotti.
Terzo paletto: l’impiego massiccio delle nuove tecnologie digitali (leggi Industry 4.0) cambia nel profondo il profilo delle figure professionali classiche e favorisce catene di comando “leggere”, molto lontane dal verticalismo modellato sull’esercito tipico dell’organizzazione fordista. Questa trasformazione fa sì che il baricentro della nuova fabbrica sia concentrato nella parte bassa della scala gerarchica, ancora una volta non per buonismo, ma perché è quella che è più vicina al prodotto e alla sua qualità. Non a caso oggi i lavoratori più a rischio nell’industria sono i colletti bianchi a minore qualificazione, quelli che fanno operazioni ripetitive legate ai controlli o alla contabilità, mentre, come già accennato, le attività manifatturiere in senso stretto, legate anche all’abilità manuale, si stanno ricomponendo su segmenti di valore aggiunto più alti.
Le fabbriche orizzontali e le loro scuole del lavoro
L’intreccio delle tre tendenze descritte sta facendo maturare due grandi novità.
La prima è la collocazione del lavoro individuale in contesti collettivi o di squadra. “Fare squadra è bello” è la vera parola d’ordine dell’industria innovativa. Non a caso i sistemi di organizzazione produttiva adottati dalle industrie capofila delle filiere (per FCA il World Class Manufacturing, per Pirelli il Pirelli Production eco-system) contemplano fabbriche a bassa gerarchia molto snelle con al massimo cinque livelli fra il direttore e l’operaio neoassunto, e una forte presenza di tecnici intermedi destinati sia al supporto tecnologico (manutenzione) sia al miglioramento dei processi produttivi. In Fiat le squadre tecniche e impiegatizie sono collocate non più in propri uffici (simbolo di verticalità gerarchica), ma in “orizzontale” lungo le linee produttive, proprio a sottolineare il concetto di lavoro di squadra e l’abbassamento del baricentro della struttura produttiva.
La seconda novità è quella della nascita di vere e proprie scuole del lavoro dentro le fabbriche. Quasi tutti gli stabilimenti italiani di Fiat, ad esempio, si sono dotati di Academy. Si tratta di strutture semplici, affidate a squadre di pochissimi elementi specializzati, che ospitano aule o laboratori dove gruppi di lavoratori vengono invitati a studiare e a rielaborare i processi produttivi nella più totale libertà. Nelle “aule” si usano strumenti semplici come i mattoncini Lego, o altri più sofisticati come schermi sui quali si riproducono virtualmente i movimenti della linea di montaggio, con l’obiettivo di riprogettare strumenti e tempi di lavoro comprimendo la fatica e fluidificando le operazioni di assemblaggio. Lo scambio capitale-lavoro in queste strutture produce operazioni win-win: lavorare meglio significa permettere al lavoratore di esprimere il proprio talento creativo, ma si traduce anche in una sensibile riduzione dei costi.
Nuove fabbriche, nuovi contratti. La parola ai sindacati
A coronamento di questo processo resta da sciogliere un nodo aggrovigliatissimo: come codificare queste novità? Sono sufficienti gli attuali strumenti contrattuali? La risposta è chiara: no. Serve una grande innovazione contrattuale. L’attuale configurazione dei contratti, e più in generale l’attività del sindacato, sono ferme agli equilibri sociali del Novecento e alla fase storica di contrapposizione fra capitale e lavoro.
È incredibile come una delle grandi novità del processo di fusione fra Fiat e Peugeot, ovvero la partecipazione nel consiglio di amministrazione della nuova società di due rappresentanti dei lavoratori, sia stata accolta nella quasi totale indifferenza in Italia. La più grande impresa manifatturiera italiana, simbolo contemporaneo per moltissimi anni dell’industria nazionale e della lotta per l’emancipazione della classe operaia, ha deciso di accoglie nel proprio CDA le istanze dei dipendenti per sua scelta, non per una significativa spinta sindacale né tantomeno per una “rottura” legislativa.
Eppure questa apertura non ha fatto scattare una domanda di base: i lavoratori italiani come intendono gestire questo “spazio di potere”? L’impressione è che non lo sappia nessuno, i sindacati per primi. La principale ragione di questa afasia sta nel fatto che mentre in America e in Germania il sindacato unico riesce a raccogliere e rappresentare la forza dei propri iscritti sia sul piano salariale sia su quello dell’influenza sulle strategie di investimento (in America l’UAW quest’anno ha ottenuto garanzie scritte sulle quantità di investimento delle singole aziende), in Italia spesso il rapporto fra sindacato e azienda è fermo alla rituale richiesta di apertura di tavoli, oppure galleggia sul filo di operazioni di piccolo cabotaggio legate alle elezioni dei delegati di stabilimento. Un’attività tanto frenetica quanto “piccina”, che impedisce a gran parte dei nostri sindacalisti di interpretare il mainstream in atto intorno al lavoro in fabbrica.
Qualche segnale di vitalità arriva dalla Fim-Cisl, che da qualche tempo sta elaborando una serie di proposte innovative: l’inserimento nei contratti di nuove tecnologie come la blockchain, in grado di certificare determinate attività dei lavoratori; l’elaborazione di un contratto-ibrido che contenga sia i parametri nazionali che una griglia di “optional” personali dei lavoratori, contrattati dal sindacato, ma a disposizione di aziende e singoli lavoratori per integrare il contratto nazionale con la valorizzazione delle competenze specifiche dei singoli; la nascita di veri e propri bilanci delle competenze sia aziendali che territoriali, in modo da spingere la crescita professionale dei lavoratori e premiarla con salari adeguati.
In questo contesto il precedente contratto dei metalmeccanici ha codificato una novità importante: il diritto di ogni lavoratore alla formazione. Un diritto (si tratta di 24 ore in tre anni) utilizzato a macchia di leopardo e spesso fuori dagli orari di lavoro, ma pur sempre un segnale importante che andrebbe irrobustito in occasione del rinnovo del contratto previsto per quest’anno.
Photo by Ben Rosett on Unsplash
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