Il lockdown è finito, andate in strada. Lo smart working oltre l’emergenza

Come evolverà lo smart working nel periodo post-COVID? Michel Martone, docente della Sapienza intervistato a Nobìlita XXL: “Rischiamo un nuovo lockdown, ma per lo smog”.

Città in quindici minuti, sostenibilità, lavoro di prossimità: macché, una vera e propria giungla.

Nel mese di settembre le strade d’Italia si sono trasformate, per gli automobilisti, in una poco edificante corsa a ostacoli, costellata di cantieri, infinite code e tamponamenti in successione. La percezione di chi guida, sia nelle autostrade che nelle vie di raccordo tra centri e periferie, è di un amaro ritorno alle condizioni antecedenti ai due anni di pandemia. E purtroppo non è solo una percezione.

Il traffico torna ad aumentare. Si stava meglio quando si stava in casa?

In attesa che l’osservatorio ANAS aggiorni l’indice di mobilità rilevata al terzo trimestre, qualche spunto concreto si può estrapolare dalla mappa di mobilità City Analytics, elaborata da Enel X in collaborazione con il suo partner tecnologico Here.

La sintesi è incresciosa. In tutto il territorio nazionale si sta infatti verificando un aumento degli spostamenti su quattro ruote e il confronto con lo stesso periodo del 2020, con il Paese reduce dal primo lockdown, risulta in effetti indecoroso. Prendiamo la Capitale, ad esempio. Il traffico rispetto a un anno fa è aumentato del 22%, con picchi del 26%, dato confermato anche nel centro storico, nonostante la possibilità di fruire di tram e metro.

Al Nord la situazione non è certo migliore. Vicenza, la città forse più industriale del Veneto, si attesta su aumenti superiori al 30% anche in provincia, dove si sa che le infrastrutture e i servizi di trasporto pubblico non sono strutturati come nelle grandi città. Non a caso la Milano-Venezia, tratta della A4 storicamente battuta dai pendolari veneti, registra ogni giorno rallentamenti a causa del traffico intenso. In questo caso i tempi di percorrenza sono saliti addirittura del 25%.

Altro elemento allarmante è la notizia che dallo scorso 15 settembre il Piemonte, per salvaguardare la qualità dell’aria, ha reintrodotto le limitazioni al traffico veicolare, primo provvedimento di una probabile lunga serie. Un vero peccato, se paragonato ai risultati dello studio condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Da questo progetto è emerso che, rispetto al quinquennio 2015-2019, nel periodo di lockdown si è verificata una drastica diminuzione del particolato atmosferico, con percentuali tutt’altro che irrisorie. Per quel che riguarda il PM10 si parla di massimali fino al -52% nella città di Aosta, mentre per il PM2.5 i valori si attestano dal -46% di Milano e Aosta al -0.6% di Bologna. Dati significativi confermati anche dalle rilevazioni su biossido di azoto (-72% a Roma), black carbon (-77% sempre ad Aosta) e benzene (una diminuzione media del 50% in tutta Italia).

“Il confronto tra emissioni da traffico e inquinanti durante l’emergenza è determinante per sostenere uno scenario futuro caratterizzato da una larga presenza di veicoli elettrici”, spiega Monica Campanelli del CNR. Nella speranza che la transizione ecologica faccia presto il suo corso, permane la sensazione di un presente plumbeo, aggravato da un sillogismo chiaro: molti lavoratori hanno ripreso l’attività con la stagione autunnale e, inutile dirlo, sono in gran parte ripartiti dai loro uffici.

Michel Martone, docente alla Sapienza: “Senza lavoro da remoto rischiamo un nuovo lockdown, ma per lo smog”

Ma non eravamo tutti in smart working?

“Negli ultimi mesi l’equilibrio tra riformisti e conservatori si è di nuovo alterato”. La risposta alla domanda la offre idealmente Michel Martone, professore di Diritto ordinario del lavoro e relazioni industriali alla Sapienza di Roma, intervistato da Osvaldo Danzi per Nobìlita XXL, contenitore di dirette online che ha accompagnato le date del festival del lavoro.

Martone, autore nel 2020 del libro Il lavoro da remoto. Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza, sintetizza così la spiegazione principale di questo ritorno al passato. “Dopo i primi cinque o sei mesi, nei quali si è praticato in larga misura lavoro da remoto, il fronte dei riformisti entusiasti che ne vedevano concreti vantaggi era molto ampio, se non altro perché garantiva il mantenimento dello stipendio. Ora che in qualche modo la pandemia si è allentata, il fronte dei conservatori torna a guadagnare molto spazio, tanto più in Italia dove c’è una popolazione anziana”.

Tradotto: se all’inizio dell’emergenza siamo stati obbligati a convertire il nostro modo di lavorare, nelle organizzazioni dove non c’è stato un vero rinnovamento culturale, il ritorno alla gestione ordinaria ha determinato il naturale rientro nei ranghi. “Il problema è che il dibattito si condisce come sempre di dietrologia. Ad esempio, è indubbio che nel 2020 c’è stata una certa crescita del disagio psicologico dei lavoratori durante l’emergenza. E questo, purtroppo, è stato attribuito al tema del lavoro da remoto. Ma quel disagio era legato alla pandemia, non al lavoro da remoto”.

Materiale buono per chi, promotore dello status quo, è felice di tornare a invadere le arterie stradali nazionali. “Io vivo a Roma ed è indubbio che è tornata bruttissima. Soprattutto i livelli di inquinamento sono tornati significativi. Magari, tra un po’ di tempo, ci ritroveremo di nuovo in lockdown, ma di diversa natura; nel senso che non potremo prendere la macchina non perché non possiamo uscire di casa, ma perché i livelli di smog ne renderanno impossibile l’utilizzo”.

Il 59% di imprese rafforzerà lo smart working. Con alcune eccezioni

Il rischio è proprio che questo dibattito tra conservatori e riformisti veda prevalere i primi. Rischio tutt’altro che da sottovalutare, se pensiamo alla nuova normalità scandita dal ministro Brunetta, con tutta la pubblica amministrazione chiamata alle armi in presenza dal prossimo 15 ottobre, Green pass alla mano.

Dispiace, perché il volo pindarico compiuto durante la pandemia ha portato, dal 28% delle imprese che sostenevano di usufruire già da prima in qualche forma del lavoro da remoto, al picco del 93% nelle fasi più acute dell’emergenza. Ora, tralasciando il focus sulla necessità non scontata di rivoluzionare i processi interni alle aziende, rimane da considerare in termini meramente quantitativi la stima dell’osservatorio del politecnico di Milano: secondo questa analisi, in prospettiva il 59% delle imprese prevede di continuare e di consolidarsi sulla strada dello smart working. Il doppio rispetto al dato di partenza del 2019.

Come e con che livello di qualità non è dato sapersi, anche se la previsione di una percentuale così elevata merita di essere monitorata nel lungo periodo. Di certo nel breve il traffico registrato sembra non confermare le attese. In ogni caso, a ridimensionare ulteriormente le velleità di questa ipotesi ci pensano ancora una volta le dichiarazioni del professor Martone a Nobìlita XXL, soprattutto quando sottolinea che i rapporti di forza tra operai e gli altri lavoratori è indirettamente proporzionale al passato. Solo trenta su cento sono infatti diretti di produzione, quindi il margine di popolazione da coinvolgere nei percorsi di flessibilità e di smart working è ancora molto ampio, di certo superiore a quel 59% ipotizzato.

E se i giovani hanno bisogno di socialità per potersi inserire al meglio nei luoghi di lavoro, il personale più anziano ed esperto, al netto del digital divide, almeno nel privato dovrebbe essere chiamato a rafforzare le fila dei lavoratori da remoto, snellendo così le corsie asfaltate. L’impressione, però, è che il deficit culturale sia ancora molto distante dall’esser colmato; soprattutto nelle periferie, dove spesso gli imprenditori si sentono ancora diffidenti controllori a piene mani. Si sa, lo stereotipo della dicotomia tra paròn e schiavi del cartellino regna sovrano ancora in troppe aziende di provincia.

“Nella realtà che gestisco per fortuna non è così. Siamo riusciti a implementare un programma di flessibilità e smart working strutturato”, racconta Marina Contessi, HR Manager di Gruppo Bertolaso, importante realtà imprenditoriale della bassa veronese. “Non dobbiamo dimenticare, però, che il focus del dibattito va orientato anche agli stabilimenti produttivi. In queste realtà il personale indiretto e impiegatizio è al servizio della produzione, per cui è molto difficile organizzare il lavoro da remoto su larga scala. Inoltre la selezione non si può limitare al territorio locale, soprattutto per figure tecniche specializzate, per cui la mobilità è ovvia conseguenza”.

Aspetti poco dibattuti ma che completano il ragionamento. Bisogna infine sommare gli aspetti normativi, che vedono ancora il diritto del lavoro troppo legato alle dinamiche novecentesche, dove l’impresa aveva di fatto una configurazione prettamente topografica. AI netto di questi ragionamenti, i tempi sono comunque maturi per un inevitabile, anche se lungo, cambiamento di approccio.

Nel frattempo facciamo il pieno di benzina e accomodiamoci in colonna.

Per riascoltare l’intervento di Michel Martone a Nobilita XXL clicca qui.

Photo by Ahmet Demiroğlu via Unsplash

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