Il “meritometro”, la meritocrazia non è un’opinione

Che il nostro sia un Paese poco “meritocratico” è una sensazione abbastanza diffusa. Ma che questa percezione abbia un fondamento scientifico sono ben pochi a saperlo. Solo un paio d’anni fa è nato infatti il “meritometro”, ossia uno strumento quanto più oggettivo possibile per misurare il grado di meritocrazia in Italia e non solo. L’ideatore […]

Che il nostro sia un Paese poco “meritocratico” è una sensazione abbastanza diffusa. Ma che questa percezione abbia un fondamento scientifico sono ben pochi a saperlo.
Solo un paio d’anni fa è nato infatti il “meritometro”, ossia uno strumento quanto più oggettivo possibile per misurare il grado di meritocrazia in Italia e non solo.
L’ideatore è Giorgio Neglia (Forum della Meritocrazia), che lo ha poi elaborato insieme al gruppo della Cattolica, tra cui Balduzzi(Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano).

“La ricerca oggetto della nostra analisi ha coinvolto 12 paesi – Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia e Svezia – e si basa su indicatori statistici elaborati da diverse organizzazioni internazionali e che soddisfano determinati requisiti: essere disponibili e riconosciuti, consentire confronti nel tempo e nello spazio, derivare da una fonte autorevole e costantemente aggiornata, ad esempio OCSE o EUROSTAT. Questi indicatori, che rappresentano i cosiddetti pilastri della meritocrazia, sono stati poi standardizzati e sintetizzati per realizzare la nostra misura di meritocrazia”, spiega Balduzzi.

Quali sarebbero questi pilastri? Libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza e mobilità. “Sono state effettuate due rilevazioni finora, quella del 2015, relativa al 2014, e l’aggiornamento del 2016, relativo ai dati del 2015. La differenza principale riguarda proprio il peggioramento della situazione italiana, ultima ora non solo relativamente alla misura sintetica di meritocrazia ma anche rispetto a tutte le sue singole componenti. In particolare, le performance peggiori si registrano nell’ambito della trasparenza, delle regole, della libertà e delle pari opportunità”, afferma Balduzzi.

Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da pensare. Il valore aggiunto sta nella rilevazione scientifica di quanto finora era soltanto un’opinione diffusa, che ha permesso di andare oltre nell’approfondimento del tema e individuare alcune evidenze: “possiamo affermare che i paesi caratterizzati da un sistema sociale ed economico più meritocratico risultano più attrattivi nei confronti dei talenti. Si tratta principalmente dei paesi scandinavi, ma anche di Germania e Gran Bretagna. Al contrario, si evidenzia un gruppo di paesi, come Italia, Spagna e Polonia, che registra un risultato omogeneamente al di sotto dei valori medi degli altri, soprattutto in relazione ai pilastri dell’attrattività dei talenti, delle regole, della trasparenza e della mobilità sociale”, continua il ricercatore della Cattolica. Meno un paese risulta “meritocratico” e meno dunque inevitabilmente attira talenti: con basse prospettive di crescita professionale legata alle effettive capacità lo stimolo ad andarci o restarci è sicuramente inferiore.

L’Italia non fa eccezione ovviamente, ma di chi è la colpa? “Il problema principale è che questa mancanza di merito non dipende solo da un atteggiamento della politica. Certo, questa potrebbe fare molto di più. Il problema sembra però essere culturale e caratterizza anche il mondo privato e dell’impresa: il familismo non è un problema solo delle amministrazioni pubbliche”, chiarisce Balduzzi. La “questione meritocrazia” è quindi complicata sia per le dimensioni – riguarda indistintamente pubblico e privato – ma anche per il suo essere da molto tempo profondamente radicata.

Una volta individuato il problema è importante però prospettare delle soluzioni per provare a rendere il nostro un Paese più “meritocratico”. Balduzzi ne elenca qualcuna: “oltre a interventi politici, come miglioramento del rapporto tra i mondi dell’istruzione e del lavoro, parificazione delle condizioni sul mondo del lavoro tra uomini e donne, lotta alla corruzione, è importantissimo anche un cambiamento dell’approccio culturale. Un buon modo è sicuramente quello di facilitare la circolazione dei talenti, sia in entrata sia in uscita, per contaminare il nostro sistema con punti di vista diversi e più orientati alla valorizzazione delle capacità individuali”.
Un’Italia insomma meno chiusa in se stessa e nelle sue logiche decennali e più consapevole del fatto che solo attraendo e premiando chi effettivamente vale è possibile evolvere culturalmente ed economicamente. La sfida è ardua e più volte invano annunciata, ma crederci non costa nulla.

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