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Le risorse umane trovano ancora tempo per i desideri?
Il primo appuntamento con Pino Pollina lo vivo in un vortice di messaggi al cellulare, io già in Stazione Centrale e lui a bordo di un ritardo di quasi due ore sul treno che lo porta a Milano. I genitori a dire il vero avevano scelto per lui Giuseppe Carlo Pollina ma ormai chi se la ricorda più […]
Il primo appuntamento con Pino Pollina lo vivo in un vortice di messaggi al cellulare, io già in Stazione Centrale e lui a bordo di un ritardo di quasi due ore sul treno che lo porta a Milano. I genitori a dire il vero avevano scelto per lui Giuseppe Carlo Pollina ma ormai chi se la ricorda più l’anagrafe di quell’inizio agosto del 1943? Dopo essere stato Pinuccio fino a 15 anni, da lì in poi Pino è stato per tutti il nome giusto. Lui qui a Milano ci vive e ci torna, io ci transito ogni tanto. Pino è da una vita che macina chilometri e li macina uno a uno col sorriso di chi gli va incontro senza aver nulla da temere. Intanto il telefono gli si scarica e si fa vivo a singhiozzo per rassicurarmi di aspettarlo, rassicurarmi che ci sarà. Quando finalmente sta per arrivare, io realizzo di aver lasciato un astuccio a bordo del mio treno e a quel punto gli chiedo di avere pazienza e che avrei provato a rimediare in fretta.
“Sono piccolo e vestito di scuro. Ho uno zaino” è il testo dell’ultimo messaggio. Sono certa che lo avrei riconosciuto anche se non mi avesse detto nulla.
“In che anni mi sono formato, mi chiedi? Curioso che mi venga da dirti che mi formo dal ’67 ad oggi. La mia formazione non è mica finita, io spero sinceramente di riuscire a studiare ancora finché la mia vita lo vorrà. Pensa che mi hanno affidato di recente due lavori che già mi stanno entusiasmando, di cui uno da parte di un’azienda mia cliente già dal ’79 e con cui festeggio quest’anno quarant’anni di crescita reciproca. Mi chiede di lavorare a ricostruire la cultura aziendale interna coinvolgendo i circa seimila collaboratori e tutto ciò prelude a riscrivere anche le politiche del personale che è stata una delle prime azioni fatte con loro; in pratica finirò la mia carriera là dove l’ho iniziata. Mi pare glorioso, mi sento fortunato”.
Parliamo tanto di HR, ormai. Negli anni ’70 chissà che nome usavi.
Si chiamava “impersonalmente” Personale, anzi erano le prime avvisaglie di un’attività che andava aldilà dei due perni storici, vale a dire paghe e contributi da un lato e attività sindacale dall’altro. Il resto era sostanzialmente irrilevante.
Consigliere Delegato di ILES – Individuo Lavoro e Società e, prima, Presidente di Ariele, l’Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. Una parabola lunghissima, la tua, dentro le risorse umane, la selezione e la formazione. Ti sarai sentito qualche volta un po’ pioniere.
Pioniere no, ma capivo di entrare in quegli anni dentro un contesto inesplorato. Non che io non abbia avuto maestri, sia chiaro. Ricordo ancora con grandissimo affetto Giuseppe Conti, capo della selezione di Unilever, che mi ha introdotto in modo “scientifico” a questa attività tanto delicata. Nel ’68 mi ero già un po’ misurato dato che in Montedison stavo al Centro Laureati e mi occupavo di selezione: la chicca è che io stesso ero uno studente-lavoratore mentre facevo quell’attività, sono di fatto un perito chimico laureato in Economia. Lavorai prima in laboratorio, poi alla Direzione del personale. A casa avevo una moglie e una bimba piccolissima che poi venne anche alla discussione della mia tesi di laurea nel novembre del ’69 con un montgomery blu e un collo di pelo, mi sembra ancora di vederla.
Essere studenti-lavoratori a cavallo del ’68 evoca significati forti. Cosa ricordi, che peso davate a quei due mondi?
A differenza di oggi, sapevamo dare un significato alla parola lavoro pur essendo solo studenti. Il lavoro aveva per noi un’identità. Come perito chimico iniziai a lavorare in Montecatini Edison (poi Montedison) alla Direzione Ricerche ma dopo tre giorni mi resi subito conto che bisognava scappare e anche in fretta se volevo essere fedele a ciò che volevo continuare a fare; l’unica laurea che potessi prendere contro ogni logica che mi avrebbe portato a Ingegneria o Chimica era Economia, l’unica facoltà aperta a ogni tipo di diploma.
Si faceva orientamento in quegli anni?
No, affatto. Anzi sì, aspetta. L’ultimo anno di scuola si facevano dei test inutili che portavano sinteticamente a dirti: se sei un po’ scemo orientati ai laboratori di analisi, se sei mediamente intelligente vai verso la produzione, se sei un fulmine di guerra vai verso la ricerca.
Un perito chimico non valeva niente ma in Cattolica trovai per fortuna un corso di laurea serale. Poi mi laureai e un giorno andai dal mio direttore del personale dicendo “vorrei fare lo psicologo del lavoro e a voi serve”, non la misi come domanda ma come affermazione. La sua risposta fu “Dottor Pollina” – era la prima volta che mi chiamava Dottore – lei si trova nella spiacevole situazione di dover scegliere tra Montecatini Edison e la scuola di specializzazione”. Mi licenziai contro ogni logica del marito e padre di famiglia ma sapevo che era la strada da prendere; per un periodo mi misi persino a vendere appartamenti mentre studiavo (a dire il vero fui capace di venderne solo uno in tre mesi) finché Unilever mi disse “Dottor Pollina, noi saremmo lieti se lei frequentasse la scuola di specializzazione quindi venga intanto a lavorare qui da noi in selezione. La aspettiamo”. Avevo fatto bene a seguire me stesso.
Come sono cambiate le aziende in quarant’anni di selezione, che consapevolezza hanno maturato nel tempo, cosa cercavano ieri, chi inseguono oggi?
Una volta era tutto un test nelle selezioni. Test di orientamento, test di capacità e ragionamento, test di personalità. Io i test li ho imparati in Unilever. Quelli di intelligenza non li vedo da decenni, non so se esistano più e a dire il vero nemmeno mi interessa. Alcuni questionari di personalità invece sono davvero validi, va detto. Certo non sono i miei strumenti, io continuo ad andare avanti con le interviste e con l’osservazione dei comportamenti. Per quanto raffinati ed evoluti, usiamo ancora strumenti di quarant’anni fa. Nella selezione, confesso, non ci sono state rivoluzioni.
Nemmeno una trasformazione rilevante?
Ce ne sono state sul piano dell’osservazione, che poi va sempre valutata nel contesto generale del profilo di un candidato. Forse oggi osservando le microespressioni siamo capaci di interpretare reazioni che si fanno spia delle motivazioni. Di questi tempi la motivazione è tutto quando si parla di lavoro. Invece è sul piano della formazione e della progettualità che è avvenuta la trasformazione: la progettualità non è più delegata all’azienda ma è una cosa del singolo. Certo che l’azienda resta parte in causa perché è il contesto in cui si realizza il mio disegno ma, appunto, resta una parte. Negli anni ’70, e anche parecchio dopo, l’ingresso in azienda di chiunque era segnato, la carriera era segnata e lineare, la vita era segnata.
Fare carriera è un’espressione così svuotata ormai.
I sistemi di pianificazione delle carriere sono saltati e si sono svuotati: casino da una parte e straordinaria opportunità dall’altra. Se ti muovi in un contesto ad alta prevedibilità, hai un maggior successo nella pianificazione e, con premesse certe, tutti si tengono bene stretti alle sicurezze e ai ruoli. Oggi è completamente saltato il livello di prevedibilità dei contesti e la responsabilità del singolo è diventata altissima, l’azienda non è più la sola a decidere anche se molti faticano a capirlo.
Un po’ alla volta stiamo mettendo a fuoco le aziende contemporanee.
Ciò che è davvero cambiato è il tempo, è cambiata la prospettiva temporale e da lì tutto deriva anche nel mondo del lavoro. C’è stato un cambio in lunghezza, una contrazione violenta. Se tu da giornalista fossi andata anche solo dieci anni fa ad intervistare un direttore generale per chiedergli su cosa venisse valutato illuso lavoro, lui ti avrebbe detto “sul profitto di fine anno”. I più illuminati ti avrebbero risposto “sul profitto sostenibile a medio termine, quindi parliamo di tre o cinque anni”: quella risposta voleva dire che si pensava anche alle persone in un’ottica a tre e cinque anni, si costruivano gli stabilimenti e immagino anche i prodotti a tre e cinque anni. Se ci andassi oggi, quel direttore ad essere onesto ti direbbe che il valore dell’azione è oggi per domani. La contrazione è dilagante. Pensa che una volta le aziende mi chiedevano formazioni di dieci giorni per i loro collaboratori: cinque giorni di lavori, week end libero e altri cinque giorni insieme. A Venezia ricordo un seminario meraviglioso di 16 giorni consecutivi coi soli week end in mezzo. Proporlo oggi sarebbe impossibile, già una giornata intera spaventa qualsiasi azienda perché si teme che porti via tempo ma il vero motivo è che non saprebbero reggerla emotivamente.
E pensare che oggi ne avremmo bisogno più di prima. Le relazioni si rafforzano nella costanza.
Stavo per dirtelo. Così come un aspetto su cui insisto è formare la capacità negativa di resistere nell’incertezza, su questo investo molto del mio tempo in aula: educare a non-fare, per questo si chiama negativa. Impossibile dire oggi a un manager di sospendere il kronos e pensare al kairos, che è il tempo delle opportunità e delle cose opportune. C’è solo da stare attenti a una fessura molto sottile che è quella di riappropriarsi del proprio tempo sospeso per farci cose inutili. La sospensione è un’altra cosa.
Da che parte guardare per chi lavora oggi nelle aziende?
Guardare dalla parte del desiderio. Il desiderio è una forma di responsabilità anche se nessuno ce lo dice e tutti pensano sia solo poesia: più le aziende andranno a chiedere ai collaboratori qual sono i loro desideri, più quei collaboratori ne sentiranno l’impegno. Non si cresce mai da soli.
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