“Il mondo di sopra” dei political risk specialist

Io non sono un lobbista ma un consulente che nel mondo anglosassone si definisce political risk specialist. Mi occupo cioè della componente di analisi e raccolta di informazione che riguarda la sfera politica e regolatoria. Certo, la parte di raccolta di informazioni può avere comunanze con altre professioni – come il lobbista, ma anche il giornalista […]

Io non sono un lobbista ma un consulente che nel mondo anglosassone si definisce political risk specialist. Mi occupo cioè della componente di analisi e raccolta di informazione che riguarda la sfera politica e regolatoria. Certo, la parte di raccolta di informazioni può avere comunanze con altre professioni – come il lobbista, ma anche il giornalista – ma la parte di analisi ha maggiori analogie con il lavoro di economisti e giuristi.

Seduti al tavolino di un’ottima pasticceria romana nei pressi di via Veneto Francesco Galietti, 33 anni, torinese, laurea in economia, mette subito le mani avanti. È consapevole che è stato contattato per un numero di Senza Filtro che si occuperà dei lobbisti. Lusingato per essere stato interpellato, è attratto e al tempo stesso amabilmente guardingo com’è normale quando si parla con un giornalista di un argomento che può essere scivoloso. Per lui il rischio è di venire incasellato in una categoria che ha avuto occasione di osservare nei suoi tre anni al Ministero dell’Economia come consigliere di Tremonti ma davanti alla quale traccia subito una linea netta per chiarire la natura della sua attività. Da parte mia il rischio invece è quello di fargli pubblicità. Rischio che devo correre come del resto fa l’intervistato accettando il colloquio.

Galietti è noto nell’ambiente romano perché ogni settimana lancia dalla tolda della sua piccola società, PolicySonar (dove lavora anche la moglie e Chris Emsden, ex firma del Wall Street Journal) una mail di analisi della situazione politica nostrana a beneficio di circa 500 contatti tra investitori, banchieri, avvocati, amministratori delegati, giornalisti e corrispondenti. La mail è scritta in inglese essendo – mi dice – l’85% dei destinatari non italiano. Anche durante la conversazione – quattro caffè e due tortini portoghesi crema e cannella – Galietti ha l’abitudine di intercalare parecchi termini inglesi al punto che ogni tanto lo fermo per essere sicuro che entrambi diamo lo stesso significato alla parole. Le analisi che spedisce hanno incipit accattivanti e algidamente british: many observers find it particularly difficult to make sense of Italy’s political trajectory these days. E hanno la capacità di scatenare nel lettore una sensazione simile a quella che si prova con l’Economist, dove la politica italiana – raccontata in inglese – assume come d’incanto un aspetto rispettabile anche quando si intreccia con vicende come la laurea del Trota o l’arresto di Massimo Carminati (Er Cecato). Le sue analisi, che a volte compaiono anche su Il Foglio, vale la pena leggerle; se non altro perché danno l’idea dell’immagine dell’Italia che potrebbero farsi i decision maker stranieri che le ricevono.

In sostanza: in che consiste il suo lavoro?

Il mio lavoro ha tre fasi principali: la raccolta di informazioni, l’analisi e la scenaristica. Quest’ultimo aspetto è forse il più interessante e meno noto, perché è un esercizio tramite cui il mondo corporate prova a ipotizzare scenari alternativi: “cosa succede se”. Certo, il mio è un mondo che scorre parallelo a quello dei lobbisti ma la categoria degli analisti di political risk è a se stante ed è ben inquadrata a livello internazionale. Giusto per intenderci: tutte le grandi banche d’investimento fanno analisi di rischio politico, e i migliori tra noi sono delle piccole star. Penso a Tina Fordham di Citigroup, Preston Keats di UBS, Alastair Newton di Nomura. Ma anche le società di consulenza in questa nicchia godono di ampia visibilità internazionale: Eurasia Group, IHS, Oxford Analytica.   

Come raccoglie le informazioni?

Non troppo diversamente da voi giornalisti. Meglio stare a Roma, vicino al brodo decisionale della politica. La raccolta delle informazioni me la faccio da solo: interpello diverse campane, cerco di incrociare le informazioni, faccio uno sforzo di mappatura. È un’attività molto meno improvvisata di quanto si possa credere, che presuppone metodo e tempestività perché il tempo detta l’agenda. 

Che requisiti le chiedono i suoi clienti?

Di sicuro aiuta un buon curriculum, studio, lavoro e lingue straniere. Dopodichè lavorare per grandi soggetti internazionali impone ovviamente un codice etico.

Cosa prevede?

Io ne ho uno mio di codice etico ma non glielo lo faccio vedere perché mi è costato fatica farlo, ho pagato il lavoro di avvocati e non ho certo fatto copia e incolla. O meglio, se proprio vuole glielo faccio leggere sul l’Ipad ma poi non deve scrivere niente.

No, allora preferisco non vederlo. Mi dica quello che può.

È sagomato su misura per il political risk. A volte il cliente mi chiede di adottare il codice etico della sua azienda, a volte è lui che adotta il mio. Il codice da solo non basta, dipende da come ti muovi: la sostanza deve corrispondere alla forma. Puoi anche avere il codice etico più figo ma se poi non lo rispetti…

Un esempio?

Gli aspetti più delicati riguardano ovviamente l’interazione con politici e funzionari pubblici. Le cronache sono piene di brutti episodi di regalìe, vacanze pagate, stipendi a moglie e figli, rimborsi che nascondono compensi e altre forme di interazione per nulla virtuose. 

Capita spesso?

Le cronache parlano chiaro e come in molte professioni disegnano un “mondo di sopra” e un “mondo di sotto”, se è lecito usare l’analogia con Roma Capitale.
C’e’ differenza tra un cliente straniero e uno italiano?

I clienti stranieri sanno bene che i decisori pubblici, i funzionari o i capi di gabinetto, vengono tirati da una parte e dall’altra; quelli italiani, invece spesso vogliono risolvere tutto con un pranzo: questo è campo dei faccendieri che si presentano in maniera opaca e con più cappelli.
Quando va nei ministeri, dai grandi burocrati, qual è l’accoglienza che riceve?

Il pubblico decisore non rifugge l’avere a che fare col mondo del privato. Il suo interesse è che le leggi non nascano storte sennò deve passare il tempo a raddrizzarle e per questo è disposto ad ascoltare, a sentire più campane. Certo, c’è chi preferisce parlare con organismi di rappresentanza collettiva, chi con singole aziende. Bisogna poi tener conto che ci sono alcuni settori, quelli oligopolisti, dove se parli con una singola azienda riesci ad avere il 70% dello scenario del mercato. Anche qui bisogna distinguere. Nel “mondo di sotto” dei faccendieri non c’è un vero confronto: l’intento è quello di estrarre utilità in maniera opaca se non esplicitamente illegale. Nel “mondo di sopra” invece c’è un galateo che è sacro: il confronto deve avvenire in maniera trasparente, con agenda scritta, position paper. Questo fa si che il decisore pubblico sia preparato alle aspettative della controparte di cui può tenere conto in tutto, in parte o per nulla.

Mi faccia capire: allora lei porta i suoi clienti ad incontrare i decisori pubblici?

Sì, ed è una parte che tuttavia non può non essere preceduta da una fase di studio e ricerca normativa. Come ho provato a descrivere in “Alta Pressione”, un pamphlet che ho pubblicato con Marsilio su questi temi, la fase del faccendiere con l’agenda spessa e la cornetta del telefono bollente sta vivendo il suo autunno. I faccendieri aprono porte, vedono gente e portano  i clienti ad incontrare decine di parlamentari in quelli che considero “viaggi della speranza”. Il che spesso non serve o – peggio – nasconde altro. Dal punto di vista tecnico, poi, il Parlamento oggi è svuotato di ogni potere, i suoi membri non contano nulla o quasi, spesso non sono informati, non hanno una struttura competente che li supporta, cosa che accadeva con i vecchi partiti che oltretutto avevano delle utili camere di compensazione (penso alla vecchia DC con la Coldiretti, a proposito dei temi legati all’agricoltura). Insomma, di certo non vengo pagato per fare lo steward. Se Goldman Sachs o Mc Donald’s chiedono di essere ricevuti da un ministro mica hanno bisogno di me, ci arrivano da soli e lui è ben contento di riceverli. I clienti grossi insomma non hanno necessità di essere presentati. L’introduzione è roba da pesci piccoli o da sprovveduti che – per inciso – ormai sono sempre meno.

 

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