Il nucleare ci interroga

Esistono parole, come nucleare o radioattivo, che evocano all’istante scenari nefasti, legati gli effetti che certe sostanze possono avere sul corpo umano. Sulla scorta dell’incidente di Chernobyl, avvenuto nel lontano 1986, l’Italia prende le distanze dalla produzione di energia nucleare e l’anno successivo una serie di referendum abrogativi ne decretano la progressiva scomparsa. Eppure, il nucleare continua […]

Esistono parole, come nucleare o radioattivo, che evocano all’istante scenari nefasti, legati gli effetti che certe sostanze possono avere sul corpo umano. Sulla scorta dell’incidente di Chernobyl, avvenuto nel lontano 1986, l’Italia prende le distanze dalla produzione di energia nucleare e l’anno successivo una serie di referendum abrogativi ne decretano la progressiva scomparsa. Eppure, il nucleare continua a fare notizia. E continua a fare discutere. Nel 2003 l’Italia è alla ricerca di un sito per lo smaltimento delle scorie radioattive e la scelta di Scanzano Jonico scatena una sommossa popolare. Negli anni fra il 2005 e il 2008 il Governo Berlusconi IV ripropone il tema all’interno del dibattito, politico e non. E l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, nel marzo 2011, apre le porte a riflessioni vecchie e nuove.

Eppure, vale ancora la pena domandarsi cosa accade al corpo umano, quando ha a che fare con le professioni che interagiscono con il nucleare. È possibile tracciare con esattezza le ripercussioni, organiche e psicologiche, su anime e corpi di chi lavora nel settore? Insomma, è possibile raccontare il corpo attraverso l’esperienza del nucleare? Abbiamo chiesto un parere a Valerio Rossi Albertini, fisico nucleare, primo ricercatore al Consiglio nazionale delle ricerche, professore incaricato di Chimica e Fisica dei materiali all’università La Sapienza di Roma e responsabile del laboratorio di spettroscopia di Raggi X dell’Area di ricerca di Tor Vergata del Cnr.

Una questione di probabilità

L’esposizione alle radiazioni per esigenze operative implica, per il corpo umano, la probabilità d’insorgenza di malattie legate all’assorbimento delle stesse radiazioni — commenta Rossi Albertini. E, tuttavia, questa probabilità non determina affatto una certezza. L’esposizione, infatti, può essere paragonata all’atto di guidare l’auto in città e la dose di rischio dipende dal tempo che si trascorre alla guida. In ogni caso, non esiste un livello minimo di esposizione, al di sotto del quale si è esente dal rischio, né un livello massimo, oltre il quale esso è automatico: chi guida la macchina per cinque minuti può comunque incappare in un incidente stradale. Inoltre, se il traffico è caotico e i guidatori sono indisciplinati il rischio di incidente sarà maggiore. Allo stesso modo, gli ambienti in cui sono presenti molte radiazioni espongono a maggiori conseguenze organiche, ma sempre in termini di probabilità. Non esiste una correlazione diretta causa-effetto fra l’esposizione professionale e i danni prodotti sull’organismo, nonostante la probabilità progressivamente crescente; un po’ come nel caso del fumatore incallito, maggiormente esposto al rischio di insorgenza tumorale rispetto a chi fuma poco, sebbene neanche questi sia esente dal rischio.

Ma accanto a tanta probabilità, qualche certezza c’è. Secondo dati ufficiali, riportati sui manuali di radioprotezione (tabella in basso), è possibile definire dei livelli di tollerabilità, espressi in il Sievert (Sv), definibile come l’unità di dose di radiazione. Questi livelli sono direttamente proporzionali all’esposizione alla dose di radiazioni cui l’operatore può essere esposto, ma anche all’incarico svolto all’interno della centrale. La permanenza del personale addetto all’interno degli ambienti, quindi, è rigidamente disciplinata.

Dosi assorbite

causa o pratica medica dose equivalente
fondo naturale di radiazione (media) circa 2 mSv/anno
radiografia convenzionale 1 mSv
tomografia computerizzata 10 mSv
tomografia a emissione di positroni 10 mSv
scintigrafia 5 mSv
radioterapia (singola seduta) 2000 mSv

Danni da radiazione

dose equivalente effetti biologici
1 Sv alterazioni temporanee dell’emoglobina
2 ~ 3 Sv nausea, perdita dei capelli, emorragie
4 Sv morte nel 50% dei casi
6 Sv sopravvivenza improbabile

Esposizione professionale:

limiti di dose (cumulativi): 20 mSv per anno, come media su 5 anni e un limite massimo annuale di 50 mSv.

Esposizione del pubblico:

limiti di dose: 1 mSv per anno (in casi particolari può essere consentito un valore annuo più elevato a patto che la dose media su 5 anni non superi 1 mSv per anno).

Rischio conseguente all’esposizione:

Il rischio di una dose di 10 mSv corrisponderebbe all’aumento di probabilità di contrarre un tumore di circa 5 su 10000, ovvero, se su una popolazione non esposta a radiazioni si registrano 10000 casi di tumore, nella stessa popolazione, esposta a 10mSv, si registreranno circa 10005 casi.

Nell’industria nucleare, inoltre, è comune l’utilizzo di protezioni, dette schermature, atte a proteggere l’operatore e diversificate a seconda del tipo di radiazione alla quale si è esposti. I neutroni, ad esempio, sono particelle neutre che interagiscono debolmente con la materia. L’assorbimento di neutroni in sé non è immediatamente dannoso; ma il processo che ne viene innescato comporta l’emissione di radiazioni all’interno del corpo; perché il neutrone è un po’ come un detonatore: in sé non è dannoso, ma dannose sono le conseguenze della sua presenza. E le schermature che proteggono dai neutroni contengono sostanze con capacità di assorbire queste particelle, riducendo il rischio che invadano il corpo degli operatori.

Stress organico e stress psicologico

Ma quali sono i requisiti, richiesti all’operatore addetto al nucleare e quali sono le sollecitazioni concrete alle quali questi è sottoposto? L’operatore deve essere fisicamente integro — commenta Rossi Albertini —  e una persona che ha problemi di salute non tollera bene lo stress organico conseguente all’esposizione alle radiazioni. Un buono stato di salute rende il soggetto più resistente e meno suscettibile agli eventuali danni provocati da questo genere di esposizione.

In ogni caso, è bene operare un distinguo. Lo stress organico è la sollecitazione cui vengono esposte le cellule e i tessuti a causa della presenza di agenti chimici e fisici, che ne possono compromettere l’integrità. Come nel caso della pelle dei fumatori o dei polmoni dell’abitante di un grande centro urbano, entrambi esposti agli agenti chimici, in misura maggiore rispetto a chi fuma poco o vive in un luogo salubre. Lo stress psicologico, invece, è la condizione disagiata cui  l’operatore è sottoposto a causa dell’incarico che riveste e della responsabilità notevole. La radiazione, peraltro, non è uno stimolo immediatamente percettibile, perché non si vede, né si sente. Non provoca conseguenze evidenti e chi la riceve non se ne accorge neanche. Nessuno può rendersi conto dell’effetto delle radiazioni, a meno che queste non siano così intense da mostrare segni evidenti. Subito dopo l’incidente avvenuto a Chernobyl, per esempio, gli operatori hanno mostrato segni visibili di contaminazione, ustioni e avvelenamento radioattivo. Nella prassi quotidiana degli operatori deputati al controllo e alla gestione delle centrali nucleari, invece, l’effetto delle radiazioni è quasi sempre invisibile.

Controllo o prevenzione?

Gli operatori addetti al nucleare sono costantemente sotto controllo medico. E tuttavia, una volta che le radiazioni sono state assorbite, non c’è più modo di intervenire, se non allontanando il soggetto dalla zona a rischio, evitando così l’assorbimento di dosi maggiori. Ecco perché è fondamentale agire in termini di prevenzione.

Gli operatori addetti alle strutture radioprotette sono coperti dal rischio professionale — commenta Rossi Albertini — e devono essere messi al riparo tanto quanto possibile. Da una parte, quindi, è necessario minimizzare il rischio, garantendo  sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro, sulla base dei parametri radiologici; e dall’altra, tenere sotto controllo gli operatori attraverso monitor, detti dosimetri, apposti sul corpo dell’operatore e in grado di rilevare l’eventuale assorbimento anomalo di radiazioni. Inoltre, è necessario considerare che le radiazioni assorbite non possono essere espulse e gli effetti determinanti non sono immediatamente reversibili: non si tratta di proiettili, che entrano nel corpo e che ne vengono estratti attraverso un’operazione chirurgica. Se le radiazioni assorbite producono un danno, questo permane.

Una posizione che tuteli le persone

È necessario, infine, prendere in esame i rischi legati allo smaltimento delle scorie, benché queste non producano nuova energia nucleare, determinata dal funzionamento del reattore. Queste sono inutilizzabili allo scopo di alimentare il reattore nucleare, ma hanno una pericolosità residua, data dal fatto che queste ceneri nucleari, a differenza delle ceneri del caminetto (che si possono raffreddare e rendere innocue) hanno ancora un’attività residua. Ciononostante, il rischio legato alle scorie investe spesso non gli operatori delle centrali nucleari. E non si tratta di una questione circoscritta a eventuali incidenti. Le ultime notizie relative, risalgono a meno di un mese fa: allo scopo di garantire maggiori misure di sicurezza, in Italia si è pensato ad un deposito unico nazionale; il deposito italiano, destinato allo stoccaggio di 75 mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività, verrà costruito per resistere 350 anni: il tempo necessario al decadimento della radioattività dei rifiuti. Ma qual è lo scotto da pagare per chi si occuperà dello stoccaggio delle scorie?

I depositi devono riuscire a isolare il materiale nucleare dall’ambiente esterno, così che le radiazioni non possano nuocere né all’uomo, né all’ambiente e, allo stesso modo, la popolazione civile deve essere messa al riparo dal rischio che le radiazioni emanate dalle ceneri nucleari possano essere a loro volta riassorbite; il deposito nazionale delle scorie, quindi, dovrà avere caratteristiche di sicurezza, ovvero schermature e zone di rispetto che garantiscano l’assenza di radiazioni al di fuori dello spazio deputato.

Prendere una posizione sul nucleare significa anche prendere una posizione che tuteli il corpo umano. Non soltanto a tutela degli operatori all’interno della centrale, ma anche della cittadinanza, conclude Rossi Albertini. Anche oggi, nel momento in cui il livello di sicurezza nel nucleare è cresciuto, l’esempio di Fukushima insegna: nonostante l’incidente sia raro, le eventuali ripercussioni possono essere gravissime. E questo significa esporre a un pericolo la popolazione civile e non più soltanto gli addetti ai lavori.

[Credits Photo: www.corriere.it]

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