Il politichese, il legalese, il burocratese: l’hanno ucciso loro il lavoro?

Italo Calvino ci aveva avvertito: attenzione all’antilingua! Era il 1965. Lo scrittore si riferiva al burocratese, inteso come l’esatto opposto della lingua parlata nel quotidiano dalle persone. Ancora oggi, l’antilingua è viva e attiva. Nel tempo è addirittura cresciuta, nutrendosi anche di legalese, di politichese e di forestierismi, che hanno ridotto la lingua italiana a […]

Italo Calvino ci aveva avvertito: attenzione all’antilingua! Era il 1965. Lo scrittore si riferiva al burocratese, inteso come l’esatto opposto della lingua parlata nel quotidiano dalle persone. Ancora oggi, l’antilingua è viva e attiva. Nel tempo è addirittura cresciuta, nutrendosi anche di legalese, di politichese e di forestierismi, che hanno ridotto la lingua italiana a una condizione di “ibridazione” tale da renderla irriconoscibile agli occhi di Dante, Petrarca, Boccaccio e Pietro Bembo. Anche gli attuali accademici della Crusca fanno sempre più fatica a rincorrere i neologismi che ogni giorno fioccano nel web e nei convegni. Il loro sforzo è tentare di inquadrarli nel nostro contesto linguistico e dargli un senso degno del vocabolario.

 

L’antilingua, la triste singolarità italiana che mette a repentaglio il lavoro

Perché l’antilingua nasce come fenomeno tipicamente italiano? La domanda è inquietante, almeno quanto quella posta come titolo dell’articolo. Forse perché siamo un popolo culturalmente legato al “latinorum” di Don Abbondio, e quindi avvezzo all’uso manipolatorio del linguaggio ai fini di conservare il potere, dimostrare la propria (presunta) superiorità e soprattutto legittimare lo stato delle cose così come deve essere accettato. L’antilingua, naturalmente, non esiste in alcuna grammatica. Tuttavia ogni linguaggio è lo specchio della società di cui è espressione in un dato momento storico. Soprattutto, è una creatura vivente in continua evoluzione. Oggi le parole hanno acquisito una tale importanza che ci domandiamo, addirittura, se possono “aver uccisoil lavoro.

La risposta è sì. Tra i congiurati che hanno accoltellato alla schiena l’Articolo 1 della nostra Costituzione, c’è anche “Bruto”, il linguaggio brutale e lesivo della dignità delle persone. Un linguaggio declamato dai palcoscenici della politica e del mondo aziendale dagli anni Novanta del secolo scorso, e tutt’ora in uso: “capitale umano”, “manovalanza”, “esuberi”, “intermittenti”, “esodati”, “stagionali”, “over 40”, “quote rosa”, “atipici”, “massa manovra”, “somministrati”.

Ma oggi ci sono delle novità rilevanti: i tempi sono cambiati e il linguaggio ne riflette fedelmente le caratteristiche. Nell’epoca digitale e dei social media i lavoratori sono “smart worker”, “startupper”, “easy riders” (fattorini), “building manager” (amministratore di condominio), “cabin manager” (responsabile dello staff degli assistenti di volo), “quotacentisti” (i fortunati che andranno in pensione con quota cento) e i leggendari “perennials” (perenni), ovvero tutti noi a cui è vietato invecchiare, coltivando la necessità o il gusto (dipende dai punti di vista) di sentirsi sempre “in fiore”, pronti a cogliere le opportunità della vita ovunque si trovino.

Tuttavia, a prescindere dai cambiamenti linguistici, la logica dello sfruttamento può essere una costante, vuoi per atavici motivi legati all’avidità umana, vuoi per mancanza di competenze manageriali o per l’incapacità delle istituzioni nazionali ed europee di creare vere condizioni di sviluppo del lavoro. La “riformite”, da cui è affetto il nostro sistema politico da anni e dove l’antilingua sguazza, è l’indicatore evidente di una incapacità di fondo (o mancanza di volontà) nel distinguere la necessaria tutela dei diritti dei lavoratori dal creare le giuste condizioni culturali, sociali, ambientali, economiche, fiscali per generare lavoro e ricchezza.

Creare lavoro” è esso stesso un lavoro, non è l’effetto magico di una riforma del lavoro. Questo principio, in azienda, è il cardine della porta della produttività. Regolamenti, procedure, linee guida, carta dei servizi: o sono funzionali a rendere ancora più performante l’impresa oppure vanno modificati, se non addirittura eliminati all’istante.

 

Da Risorse Umane a Umane Risorse

E le “Risorse Umane”? Sono ormai circa trent’anni che questa espressione è il cappello linguistico sulla testa delle persone nelle organizzazioni. Partita con un’accezione positiva, “le risorse dell’essere umano”, questa terminologia ha prestato poi il fianco al micidiale paradigma del profitto fine a se stesso e a una visione sempre più siliconizzata delle persone, diventate codici numerici all’interno di “matrix organizzativi” e gestite attraverso algoritmi e geolocalizzazioni orwelliane.

Tuttavia, segnali di cambiamento culturale positivo iniziano a emergere in questo scenario dove il rischio di finire tutti dentro un imbuto tecnologico è molto alto. “Qualcuno” parla di “Umane Risorse”. Primo passo, quindi: invertiamo i termini. Secondo passo: recuperiamo l’iniziale significato costruttivo dell’espressione. Terzo passo: arricchiamolo di tutte le potenzialità e delle possibilità che offre la nostra epoca.

Sì, perché, nonostante tutto, viviamo un tempo aumentato e pieno di risorse per noi umani, come mai abbiamo sperimentato nella nostra storia. Il web è nostro grande amico. Bisogna solo fare attenzione a non rimanere travolti dalla valanga di stimoli che ogni giorno frana sulla nostra esistenza. E poi occhio alle parole. Qui l’invito è a usare efficaci filtri di consapevolezza e pensiero critico per evitare di rimanere impigliati in trame di manipolazione o edulcorazione dei significati. Se il linguaggio può uccidere il lavoro, nel senso della dignità del lavoro, può tuttavia anche farlo risorgere.

La sigla “HR” posso tradurla in senso classico oppure leggerci altri significati. Io ci leggo, per esempio, “Human Relations”. Questa espressione da un lato non è una novità, ma dall’altro lo è. Come esseri umani, le relazioni tra di noi sono sempre state la cornice di riferimento del nostro vivere insieme; ma oggi questa cornice naturale è stata sostituita dal digitale, ovvero dalla virtualità dell’esperienza relazionale. Rischiamo di confondere i contatti social con l’amicizia. Crediamo che un network sia di per sé garanzia di relazione duratura. Scambiamo la tastiera del dispositivo per un tiro a bersaglio comunicativo contro chi è differente da noi. Invece bisogna rendersi sempre più competenti nella comunicazione digitale e nell’uso del linguaggio; sapere come confrontarsi in modo felice con gli altri sui social è una competenza negoziale fondamentale.

 

Le regole del gioco dell’Umanesimo digitale

Sostituiamo quindi volentieri il paradigma delle Risorse Umane con quello di “Umanesimo digitale”, ovvero la comprensione di come le caratteristiche delle nuove tecnologie e dei nuovi linguaggi possano potenziare l’umano attraverso una visione del mondo basata su valori forti di umanità, rispetto, socialità, inclusività, conservazione della vita sul pianeta Terra. Una challenge epocale.

Se noi pensiamo in base alle parole che conosciamo, per numero e varietà semantica, allora per affrontare questa sfida con lo spirito giusto può esserci di aiuto, come riflessione, ricordare la differenza tra game e play. Il primo termine riporta alla gara in senso competitivo. È il tipo di gioco che, facendosi duro, ci richiede di diventare duri a nostra volta. Il secondo, invece, ci collega al gioco in senso ludico, alla rappresentazione teatrale, all’aspetto creativo del nostro essere umani.

Il game è il paradigma delle Risorse Umane, del liberismo economico, del denaro come generatore di tutti i valori a cui ispirarsi, della “faraonizzazione del mondo” dove una élite vince e una moltitudine enorme di persone perde. Il play è invece il fondamento dell’umanesimo digitale. Quel gioco della vita dove tutti si divertono e vincono, nel rispetto dei ruoli, delle persone e dei contesti.

Le regole del gioco cambiano a seconda del game o del play: nel primo caso valgono anche i colpi bassi, nel secondo se non hai etica sei fuori. Insomma, le parole fanno la differenza sempre e comunque. Mark Twain, con la sua consueta ironia, lo sapeva bene: “Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”.

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